I leader spuntati
La più intelligente osservatrice di cose politiche italiane, Maria Teresa Meli, ha descritto, sul Corriere della Sera, la netta divisione di linea in corso tra Walter Veltroni e Guglielmo Epifani. L'analisi, come sempre, è acuta. Ma la realtà è più complessa. Oggi il leader del Pd e quello della Cgil hanno posizioni divergenti in più di una circostanza e su temi rilevanti.
La più intelligente osservatrice di cose politiche italiane, Maria Teresa Meli, ha descritto, sul Corriere della Sera, la netta divisione di linea in corso tra Walter Veltroni e Guglielmo Epifani. L'analisi, come sempre, è acuta. Ma la realtà è più complessa. Oggi il leader del Pd e quello della Cgil hanno posizioni divergenti in più di una circostanza e su temi rilevanti. Ma l'ispirazione di fondo dei due leader è la stessa: unire lo sbandamento al galleggiamento. E, appunto come turaccioli, si possono distanziare o riavvicinare ma il tratto distintivo è che sono portati dalle correnti, non hanno alcuna reale capacità di scegliere una direzione.
Peraltro siccome la corrente che sentono con più intensità è al momento quella de “la Repubblica”, a mio avviso presto si troveranno di nuovo a convergere.
Il quotidiano di Largo Fochetti rappresenta ormai l'unico centro pensante di stile leninista di questo paese, l'unico che cerca – come diceva l'antico leader bolscevico – di individuare la scintilla (iskra, si chiamava in altri luoghi e altri tempi) per incendiare la società: prima hanno tentato con le intercettazioni dei pm napoletani e milanesi, poi hanno cercato di far saltare Cesare Geronzi per aprire una crisi nel cuore della finanza nazionale, ora puntano sulla rivolta rettorial-studentesca per creare un qualche incidente che paralizzi il governo.
Finché Epifani e Veltroni avevano una sponda esplicita nel Corriere della Sera, resistevano un po' al quotidiano romano, ora invece non possono che arrendersi. E' la mancanza di autonoma forza il dramma dei due (non) leader di Pd e Cgil. Veltroni è fatto così: può fare anche scelte intelligenti se ben guidato ma se si sente lasciato a se stesso cerca subito rifugio nella demagogia, la pratica che ha imparato meglio dal peggiore Enrico Berlinguer, quello degli inizi anni Ottanta, e dal maestro di dissipazione intellettuale che è stato Achille Occhetto. La scelta del referendum anti Gelmini è coerente con il sostegno da guardia rossa berlingueriana che Veltroni diede a quello sulla scala mobile. In quegli anni dei tre Qui, Quo, Qua berlingueriani (Massimo D'Alema, Piero Fassino e appunto Veltroni) fu l'ex sindaco di Roma il più scatenato antiriformista, anti Lama e anti Napolitano. Naturalmente cercando, da vigliacchetto, di dissimulare le scelte, mimando un qualche giovanilismo americanofono (più Fonzie che Kenendy). Quando nel 1995 dovette contrastare la leadership dalemiana, fu Veltroni a inventarsi il referendum anti Mediaset, quello del “non si interrompe un'emozione”.
E adesso, stretto dalle vicissitudini del momento, per non cedere alla politica dalemiana (peraltro volta all'indietro perché vuole un ritorno all'ancient regime del “centro” che legittima la sinistra), Veltroni sceglie sempre la “demagogia”: non solo contro Mariastella Gelmini ma anche sul sistema elettorale. Fino ad arrivare a dire una scemenza alla Michele Santoro sul governo che tutela troppo le banche. Come se in questa situazione si potesse salvare il risparmio e gli investimenti senza proteggere gli istituti di credito. Come uno che dica, mentre divampano gli incendi, bisogna tagliare sui pompieri e investire in asili nido. Per bimbi arrostiti.
Analogo è l'atteggiamento di Epifani: un segretario fragilissimo messo al vertice proprio perché debole dal Sergio Cofferati furioso che cercava di salvare un presidio nella Cgil dando centralità ai suoi (Carlo Ghezzi, Achille Passoni, Marigia Maulucci e altri), creando un bilanciamento tra destra (Giuseppe Casadio) e sinistra (Paolo Nerozzi) che alla fine avesse bisogno del suo alto patronato per funzionare. Tutto andato rapidamente in frantumi perché Epifani muovendosi ora a destra, con nuovi rapporti con la Cisl, ora a sinistra, arrivando persino a sostenere il referendum rifondarolo per allargare alle piccole imprese l'articolo 18, si è creato se non un potere (parolona), un proprio spazio. Lo riesce a occupare però solo se dall'esterno gli si dà forza: così hanno fatto prima Romano Prodi e Luca Cordero di Montezemolo, poi “il Corriere della Sera” e oggi “la Repubblica” che lo sospinge sulle barricate.
In una situazione di crisi, le onde demagogiche non sommergono i governi capaci di tenere sulle questioni essenziali. In Italia è oggi questo comportamento che garantisce il consenso all'opera del governo della parte fondamentale della società. Però il difficile compito di combinare risposte all'emergenza con iniziative per un futuro sviluppo, ha bisogno di confronto. Anche le nette battaglie culturali che sono oggi indispensabili per impostare il domani, sono realmente utili se avvengono in un clima in cui si riflette su “idee”. In questo senso, che le leadership della maggiori forze della sinistra siano così prone alla demagogia, è un problema. Che va affrontato con intelligenza. Innanzi tutto incalzando l'ampia area della sinistra ragionevole, disponibile a discutere. Questo va fatto con urgenza, perché in una situazione di crisi anche quando l'opposizione non offre un'alternativa, la possibilità che crescano forze disgregatrici, che partano spinte radicali è fortissima. E sono evidenti già oggi segnali di cedimento al “particulare” da parte di amministratori di centrodestra, di organizzazioni del ceto medio ma anche di grandi imprese, di giovani anche moderati, di correnti politiche nella maggioranza molto interessate ai propri poterini. Una forte leadership aiuta a tenere ma per passare a una fase più avanzata, bisogna sapere che senza idee solide, non c'è capacità di visione. E senza questa il rischio disgregazione diventa concreto.
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