Dal Foglio di sabato 4 dicembre 2004

Obama, il prossimo presidente

Stefano Pistolini

Il fattore “Denzel Washington”. Se mai si dovesse dare volto, corpo e anima al primo ipotetico presidente nero d'America, all'unanimità vincerebbe il Denzel bello e giusto, evoluzione perfetta del modello originale “Sidney Poitier”. Tutto ciò finché non è successo il fatto nuovo: è spuntato Barack Obama.

    Pubblichiamo un articolo di Stefano Pistolini dal Foglio del 4 dicembre 2004 dal titolo: "Obama, il prossimo presidente".

    Il fattore “Denzel Washington”. Se mai si dovesse dare volto, corpo e anima al primo ipotetico presidente nero d'America, all'unanimità vincerebbe il Denzel bello e giusto, evoluzione perfetta del modello originale “Sidney Poitier” (prototipo rudimentale, seppure di largo impatto apripista). Purtroppo Washington di presidenziale ha solo il cognome, per il resto è un povero attore, seppur di grido e di qualche suggestione sociale. Tutto ciò finché non è successo il fatto nuovo: è spuntato Barack Obama. L'unico afroamericano tra i cento membri che inaugureranno il nuovo Senato degli Stati Uniti nel prossimo gennaio, e solo il quinto nero nella Storia a sedere su quegli scranni.

    ***
    La biografia di Obama è stata etichettata dal concittadino Scott Turow come “una suggestiva storia americana per il ventunesimo secolo”. Non sono soltanto complimenti tra colleghi avvocati: è vero. I genitori di Barack s'incontrano al college delle Hawaii nel 1960. Suo padre, che porta anch'egli il nome di Barack Obama, è un membro della tribù Luo del Kenia che usufruisce di una borsa di studio. Sua madre, Anna, è una ragazza bianca del Kansas, arrivata nelle isole insieme alla famiglia, papà commerciante e mamma impiegata. Anche sullo sfondo vivace e poliglotta delle Hawaii, la coppia mista messa su da Anna e Barack Sr. è una bizzarria – basti dire che nel 1961, allorché il nostro eroe viene al mondo, procreare nell'ambito di coppie interrazziali è ancora un crimine in diversi Stati americani.

    Anche per questo Barack Sr. finisce per allontanarsi dalla famiglia quando il bambino ha solo due anni, lasciandolo alla custodia della madre e dei nonni e trasferendosi ad Harvard a completare gli studi. Quando Barrack Jr. ha 6 anni, la madre si risposa con un manager indonesiano che presto trasferisce la famiglia a Giakarta dove l'educazione del bambino comincia in una scuola mussulmana e prosegue in una cattolica. Quando arriva il momento delle superiori Barack viene rispedito in patria dai nonni e iscritto alla Punahou Academy, la migliore scuola delle Hawaii. Barack a questo punto deve imparare a convivere con la stravagante situazione psicologica di ragazzo dalla pelle nera in una famiglia di white folks del Kansas e a valutare la realtà connessa con la condizione afroamericana per le strade dell'America anni Settanta. Per lui sono tempi confusi. Nella sua autobiografia racconta di come non sia restato immune dalle tentazioni, a partire da marijuana e cocaina (ammissione che in futuro potrebbe rimpiangere, come sa lui stesso: “Non è stato politico scrivere quelle cose, ma volevo mostrare come e perché certi ragazzi neri finiscono per flirtare con l'autodistruzione”).

    Il percorso universitario e i riti di passaggio di Obama transitano per l'Occidental College di Los Angeles e per la Columbia a New York, dove si laurea in Scienze politiche ma dove assapora come in nessun altro luogo la tensione razziale (“Spuntava dappertutto”) e da dove riparte alla volta di Chicago per lavorare come assistente sociale nel South Side, il quartiere disgraziato della città. A questa fase della sua crescita Obama dedica la parte più circostanziata di “Dreams of my Father: A Story of Race and Inheritance”, l'appassionata storia di famiglia che pubblica nel 1995. Sono pagine forti, nelle quali Obama descrive la disperazione dei ghetti e l'inadeguatezza dei politici a fronteggiarla e in cui confessa il suo colpo di fulmine per la città, per la ricchezza di un tessuto urbano nel quale un cittadino del mondo come lui può finalmente trovare collocazione.

    Nel 1982 Obama Sr. muore in un incidente stradale a Nairobi, ma solo nel 1986 Barack compie finalmente l'atteso viaggio in Kenya, alla scoperta delle radici, dei suoi antenati, della terra che aveva spinto in America quell'irrequieto di suo padre. Un viaggio decisivo nella sua maturazione e nella pacificazione, sull'onda del quale Obama compie il passo decisivo per la propria formazione, iscrivendosi alla Harvard Law School, l'istituzione che forma la crema del diritto americano. Poco prima di partire per Harvard, Obama conosce il reverendo Jeremiah Wright, popolare pastore nero della Trinity United Church of Christ, fulcro religioso nero di Chicago. Obama resta affascinato dalle austere teorie sociali di Wright, che sostengono che “per quanto sia tollerabile la formidabile spinta dei neri per entrare a far parte della middle class americana, va puntato l'indice contro lo spirito di superiorità che gli stessi neri di successo ostentano nei confronti dei meno fortunati”.

    Un meccanismo psicologico da cui Obama resta stregato, al punto da legarsi per sempre alla Chiesa di Wright di cui è tuttora membro attivo. Nel 1990 Obama attira per la prima volta su di sé l'attenzione pubblica come primo afroamericano a venir nominato direttore della Harvard Law Review, la più importante rivista legale d'America, santuario e via d'accesso a potenti lobby. Abner Mikva, veterano del Congresso e giudice della Corte d'appello per il circuito di Washington DC, offre a Obama un posto di prestigio nel suo staff, posizione tradizionalmente considerata come l'anticamera per la Corte suprema, ma Obama rifiuta. “I migliori studi legali del paese a quel punto gli facevano la corte” sostiene David Axelrod, attuale consulente alla comunicazione di Obama: “Dopo Harvard aveva il mondo ai suoi piedi”. Obama però ha un piano: opta per tornare a Chicago e adoperarsi nel settore dei diritti civili, in difesa dei più deboli. In città Barack trova anche la compagna della vita, Michelle, una purosangue del South Side, anch'essa reduce dalla Harvard Law School e da subito la più ascoltata consigliera di Barack. Il quale nel frattempo comincia a insegnare alla Chicago Law School, senza però accettare una cattedra, ma ponendo come condizione di poter disporre del tempo necessario all'attività che pone in testa alle sue priorità: la politica. E, non appena gli è possibile, si mette con successo in corsa per il Senato di Stato, partendo dalla base operativa del distretto universitario di Hyde Park e delle circostanti aree povere del South Side.

    ***
    Come politico l'Obama degli esordi, all'altezza del 1996, conosce vittorie e sconfitte. Gli esordi nella legislatura dell'Illinois non sono brillantissimi, in un ambiente difficile fatto di namedropping e intrighi. Nel 1999 con soli tre anni di esperienza sulle spalle, Obama decide comunque di sfidare nella corsa democratica al Congresso il veterano Bobby Rush, che accusa d'essere un uomo di parole ma non di fatti. Rush, leader afroamericano locale con trascorsi nelle Pantere Nere, lo sconfiggerà sonoramente nelle primarie democratiche del 2000, ottenendo il doppio dei suoi voti e spingendo i media a credere che Obama, coi suoi modi raffinati, sia un politico non “abbastanza nero” per far presa sulla vasta base afroamericana di Chicago. Obama dà segno d'aver capito la lezione. Torna a lavorare seriamente nell'ambito del Senato dell'Illinois e si distingue per i risultati, titolare dell'approvazione di ventisei decreti, alcuni dei quali di notevole importanza nel settore della salute pubblica e dell'assistenza ai ceti subalterni.

    Nel 2002 Obama torna a guardare verso l'alto e pensa nuovamente a giocare le sue carte nelle primarie democratiche dello Stato dell'Illinois per il posto di senatore a Washington, lasciato vacante dal repubblicano Peter Fitzgerald. Questa volta Obama sente di essere maturo per la vittoria, di conoscere le vie per rafforzare il suo seguito nell'ambito della comunità afromamericana. Ottiene presto notevoli simpatie nel bacino religioso nero, si guadagna l'appoggio del leader del Senato dell'Illinois Emil Jones, nonché quello di Jesse Jackson, la voce nera più ascoltata d'America. Ma Obama afferra soprattutto l'importanza di proporsi come qualcosa di diverso e di più grande dell'ennesimo “candidato nero”, qualifica magari sufficiente ad aggiudicarsi le primarie democratiche, ma che si sarebbe infranta sulle preferenze dell'intero elettorato dello Stato. Con la brillantezza e lo stile evoluto da politico postmoderno, Obama comincia dunque a corteggiare con successo proprio quell'elettorato bianco liberal che in Illinois costituisce un fattore decisivo, oltre che il cuore pulsante di una classe media benestante e informata. Obama usa con profitto la sua telegenia e affina le tecniche di comunicazione, ad esempio imparando a parlare la lingua di ciascun interlocutore, si tratti di vecchie signore da oratorio o di ragazzotti hip hop. Di lui dicono che sappia parlare tutti i dialetti di Chicago. Ciò nonostante gli ostacoli da superare sono numerosi. A cominciare proprio dal dato che il Senato americano sia tradizionalmente off limits per i neri, l'ultimo dei quali capace di arrivarci proveniva proprio dall'Illinois: Carol Moseley-Braun, eletta nel 1992 e presto divenuta un personaggio controverso e tutt'altro che utile a incoraggiare l'elettorato quanto a rinnovare la fiducia a un candidato nero. L'altro ostacolo al successo di Obama si chiama Jack Ryan, l'avversario repubblicano che l'attende in caso di successo alle primarie: un osso duro, giovane quasi come lui, affascinante come lui, anch'egli reduce da Harvard ma ben più pieno di soldi. Ryan è il rappresentante di un conservatorismo spinto, pro-life, pro-gun, contro il matrimonio gay e per la riduzione delle tasse. Ryan è pronto a spendere e a smuovere le lobby per far cambiare idea a uno Stato che raramente ha mostrato di simpatizzare per l'estrema destra. Peccato che non abbia fatto i conti col fattore X che cambia il segno di tanti esiti politici americani: le donne.

    Nel frattempo Obama si aggiudica la candidatura democratica per lo Stato dell'Illinois sbaragliando il lotto dei sei concorrenti e ottenendo da solo il 53 per cento dei consensi, surclassando fior di notabili a cominciare dal potente Dan Hynes, ragioniere dello Stato. Obama stravince anche nelle contee suburbane che nessuno avrebbe creduto disposte a sostenerlo. Ken Dillard, senatore dell'Illinois repubblicano proveniente da quei sobborghi, conferma: “Dal primo giorno che l'ho visto, ho capito che era destinato a fare grandi cose. Nei circoli repubblicani abbiamo una gran paura che Barack diventerà la rockstar della politica Usa”. E aggiunge: “Su certe cose la vediamo in modo contrapposto. Eppure Obama è uno col quale i Repubblicani sanno di poter lavorare”. Del resto, durante la permanenza di Obama al Senato di Stato, lui e Dillard hanno co-firmato diversi progetti legislativi.
    A questo punto a sostenere Obama sono la comunità afroamericana compatta ma anche i progressisti middle class, quelli che a Chicago chiamano lakefront liberals, per la predilezione a vivere sulle sponde del lago Michigan. Sono coloro che hanno da sempre sostenuto Paul Simon, per decenni il politico di maggior spicco dell'Illinois, da sempre amato per la sua integrità. Obama ora riesce a proporsi come l'erede legittimo di quell'onorevole qualifica. E sono proprio questi liberali bianchi i primi a innamorarsi del progetto politico che incarna, con quel tanto di glamour che per loro non guasta.

    Del resto, se Obama vuole vincere nello Stato non ha scelta: solo il 15 per cento dei cittadinanza è nera e ciò che là ti lancia in orbita è solo il supporto della grande base democratica bianca, compresa quella della zona meridionale dello Stato, dove questioni come il controllo sulle armi e l'affirmative action incontrano tenaci resistenze anche in area democratica. Obama non si sottrae al confronto. Va a stanare i possibili ma improbabili elettori fin dentro i loro circoli ricreativi. Esordisce prendendosi in giro da solo: “Lo so, il mio nome fa rima con Yo-Mama”, li fa ridere, poi racconta che in swahili significa “benedizione” e l'atmosfera in platea si fa più seria. Quindi, di regola, prende di punta la questione razziale: “Non importa se siamo neri, bianchi o ispanici: condividiamo dei valori. Valori americani e democratici”. Racconta d'aver scelto la politica per combattere il predominio del cinismo: “Mi chiedono perché abbia scelto la politica. Rispondo: per cambiare le cose. Finché nel ghetto di Chicago c'è un bambino che non sa leggere, diventa un fattore nella mia vita, anche se quel bambino non è mio figlio”. Soprattutto usa fino in fondo le chance fornitegli dal suo bizzarro background: ormai ha capito che essere il figlio di un nero e di una bianca, discendere da un padre kenyota, essere cresciuto alle Hawaii, insomma il suo multiculturalismo, lo distanzia positivamente dal monoculturalismo nero che invece gli sarebbe di fardello. Da americano del presente, tiene lontani gli stereotipi e attira con facilità le simpatie dei sospettosi uomini bianchi.

    ***
    Pare che George W. Bush un giorno abbia ospitato una delegazione del Congresso, tra cui la democratica dell'Illinois Jan Schakowsky che indossava una spilletta con la scritta “Obama”. Vedendola e scambiando il nome con “Osama”, il Presidente avrebbe letteralmente fatto un balzo all'indietro. Jan a quel punto l'avrebbe rassicurato: era Obama, con la b, spiegando di chi si trattasse. George W. candidamente ammise di non conoscerlo. La Schakowsky avrebbe replicato: “Ne sentirai parlare presto”. Detto fatto: quando il testa a testa Obama-Ryan sta per infiammarsi (Ryan, per innervosirlo, gli mette alle costole un videomaker che lo filma ventiquattro ore al giorno, in attesa del provvidenziale sgambetto), arriva il colpo di scena. Il repubblicano si ritira, travolto dallo scandalo mandato in orbita dalla ex-moglie, attricetta di Star Trek. Jeri Ryan, infatti, nell'istanza di divorzio accusa quel bacchettone del marito d'averla ripetutamente coinvolta in visite a sex club, dove l'avrebbe incoraggiata a mettere in scena striptease a uso dei presenti. Ryan prova a difendersi (patetica la sua teoria d'aver visitato con la signora un “nightclub d'avanguardia” a Parigi, fuggendone disgustato), ma alla fine getta la spugna. Per i Repubblicani dell'Illinois si profila la disfatta. Faticano perfino a trovare un antagonista decente da contrapporre al dilagante Obama, ci provano con Mike Dikta, leggendario ex-allenatore dei Chicago Bears, adorata squadra di football della città, ma anche lui declina l'invito al patibolo. Alla fine convincono uno di fuori città che ha poco da perdere, Alan Keyes, presentatore di talk show di New York che, se non altro, ha la peculiarità d'essere nero anch'egli, mandando così in scena il primo confronto tra due afroamericani che la storia politica Usa ricordi in direzione del Senato di Washington. Del resto che Obama sia un vincente annunciato lo conferma già la Convenzione democratica di luglio a Boston, che lo incorona come “grande speranza nera” e gli affida uno dei clou dell'evento: un discorso davanti a quindicimila delegati nel corso del quale Obama mostra la statura per la massima ribalta e nel corso del quale pronuncia prima di tutto un formidabile spot autopromozionale: “Mio nonno era un cuoco ma aveva grandi sogni per suo figlio: l'America, promessa di libertà e di opportunità”. Cavalcando anche un felice opportunismo d'occasione: “Ci sono patrioti che si oppongono alla guerra in Iraq e patrioti che la sostengono. Ma noi siamo un unico popolo, tutti orgogliosamente sottomessi alle stelle e strisce e pronti a difendere gli Stati Uniti d'America”. Trionfo. Da quel giorno tutta la nazione sa chi sia l'ex-ragazzo nero delle Hawaii. Alan Keyes contrasta Obama in termini cavallereschi, ma il risultato del 3 novembre 2004 è schiacciante: Barack s'aggiudica il 70 per cento dei suffragi.

    ***
    Obama è distante dallo standard del politico nero, e più il tempo passerà più questo dato si rafforzerà. Il suo stile, le sue credenziali lo fanno appartenere di diritto a una generazione successiva. Obama ha scardinato il postulato che ha sempre il successo dei politici afroamericani, quello secondo cui se si prendono troppo apertamente le parti dei neri ci si aliena le simpatie dei bianchi, ma se ci si connette coi punti di vista di quest'ultimi sono i neri a giudicarti un traditore. Obama segue altri percorsi. Lui è fiero della sua multirazzialità, ma punta al mainstream. Non odora di segregazione, ma di nuovo. Parla – indistintamente a bianchi e neri – di lavoro, educazione e salute. Non traccia confini razziali e scavalca facilmente le contrapposizioni politiche: il suo scopo è parlare sempre a tutti, compreso chi non la pensa come lui. Sa che per vincere sono determinanti i voti degli incerti, che non possono essere conquistati su istanze razziali, ma virando velocemente al centro. Ormai Obama è maturato e la sua carriera politica ne sta beneficiando: è passato dall'essere un giovane politico rampante, impaziente, troppo proteso verso il traguardo, alla statura del leader con un'effettiva presa orizzontale sugli elettori.

    Ma ci sono anche le contraddizioni. Nell'ottobre 2002, ancor prima d'annunciare l'intenzione di correre per il Senato, Obama pronuncia davanti alla base democratica dello Stato il suo discorso più importante: “Non mi oppongo a tutte le guerre, mi oppongo alle guerre stupide. Mi oppongo alle guerre basate non sui principi ma sulla politica. Mi oppongo al cinico tentativo di Perle, Wolfowitz e degli altri guerrieri da weekend di farci ingoiare i loro programmi ideologici. Mi oppongo al tentativo di avventurieri come Karl Rove di distrarci dall'aumento dei non assistiti, del tasso di povertà e dal crollo dei salari”. Sono parecchi gli attivisti che ricordano quel discorso e dicono di non averne ascoltato uno migliore da anni. Nel corso dell'estate però c'è una strana sparizione: senza dare nell'occhio, il discorso in questione scompare dal sito Internet di Obama e viene rimpiazzato da una serie di formule programmatiche ben più edulcorate: d'improvviso Obama parla alle sue Barack Brigades, come le chiama lui, d'insicurezze psicologiche più che di pacifismo: “In che mondo viviamo? Credo ci sia ansia sulle prospettive americane nel mondo e sui modi della ricostruzione in Iraq”.

    E' il prematuro annacquarsi della passione? Le posizioni del candidato nero al Senato d'un tratto appaiono più blande su temi centrali come la guerra e il ruolo americano nel mondo. Poi cominciano i silenzi: il costituzionalista Obama non si pronuncia sul Patriot Act, non si pronuncia sul rafforzamento delle misure di sicurezza interna, non si pronuncia sul Patriot Act 2. Da sinistra, soprattutto in area nera, il suo comportamento viene giudicato “strano” e vengono denunciate le sue crescenti simpatie verso il Democratic Leadership Council (DLC) il gruppo di pressione “terzista” fondato nell'ambito del partito da Al From e animato da volontà trasversale in una disinvolta rilettura dell'idea democratica, troppo ammaccata dalle sconfitte. E' indubbio che questo sia un passaggio-chiave nella biografia di Obama: alla vigilia e nell'auspicio del successo più importante della sua carriera, eccolo sposare lo sganciamento, alla ricerca di un discorso politico più sartorialmente tagliato sul suo personaggio e libero da eccessivi vincoli. I punti di vista di Al From paiono fare al caso suo, quando sostiene: “I Democratici devono superare i propri istinti di parte e quelli dell'opposizione per agire nel nome dell'interesse nazionale”. Dove ha fallito un personaggio stantio come Lieberman, potrebbe aver successo la faccia nuova di Obama. Anche se non è facile conciliare la filosofia fin qui sostenuta da Obama – interamente basata sul principio d'altruismo – con il mimetismo politico e i rapporti ravvicinati con il potere finanziario dei New Democrats, in nome dei quali Al From dichiara: “Il nostro nemico non è George W. Bush, ma il fantasma del passato democratico”. La mutazione di Obama, da aggressivo politico locale in ecumenico leader trasversale, già all'inizio dell'estate dà comunque segni precisi. Ad esempio in relazione allo scandalo sulle torture nel carcere di Abu Ghraib, allorché, pur criticando la politica governativa, Obama dichiara: “Non nutro dubbi riguardo alla sincerità di Donald Rumsfeld. Il suo destino va lasciato nelle mani del presidente”.

    ***
    Nei giorni scorsi, partecipando al Letterman Show Obama si è assicurato un'altra piccola consacrazione. Ha fatto largo uso del suo proverbiale sorriso, ha mosso con sapienza il corpo dinoccolato da ex-giocatore di pallacanestro. Ha sfottuto bene l'ex avversario Ryan: “Visti i valori morali che sventolava, in fondo era solo uno a cui piaceva divertirsi. Ai Repubblicani piace divertirsi”. Risate del pubblico. Poi ha raccontato della colazione con Bush che adesso ha dovuto imparare chi sia quel politico nero dal nome infido. Ha detto che c'erano anche Don Cheney e Karl Rove e poi ha chiuso ammiccante: “E' stato divertentissimo…”. Letterman ha chiosato: “… Posso immaginare”.

    ***
    Ergo, cosa può fregare Obama? Gli eccessi di ambizione, gli eccessi di disinvoltura nel posizionamento politico (l'ha duramente criticato il Black Commentator, voce della sinistra democratica nera) e soprattutto gli eccessi di differenza tra ciò che egli realmente è e ciò che talvolta pretende di essere. Obama – andando a giocare in campo avverso, laddove il suo avvento verrà accolto con sospetto – può inciampare proprio rivelandosi il personaggio che nega di essere, ovvero un sofisticato prodotto mediatico la cui schematicità si sgonfierà a contatto con la realtà. Quando il suo astro splenderà di luce propria, gli interrogativi saranno: Obama è una montatura? E' un prodotto di seduzione elettorale elaborato tenendo conto dei desideri in circolo? Fino alla questione finale: ti fideresti di uno come Barack Obama, al punto da affidargli il tuo futuro e quello della tua famiglia?
    Verrà attaccato sull'eccesso di protagonismo, sulle apparenze contrapposte alla sostanza. Ma lui sembra pronto a correre ai ripari. All'indomani dell'elezione, ospite di Tim Russert a Meet the Press sulla Nbc, ha giocato bene la parte del politico trasversale, più attento alle issues che alle targhette partitiche, riverente verso quel Karl Rove che due anni fa insultava: “Hanno uno dei migliori team politici che l'America abbia mai visto”. Ha fatto l'equilibrista rispetto all'adesione ai New Democrats, nel frattempo impegnati a criminalizzare la sconfitta di Kerry: “E' un punto di vista che contiene delle verità. Ma il fatto è che i Democratici devono imparare a connettersi con la gente nel territorio, cosa che i Repubblicani sanno fare meglio”) e ha preso le distanza dal fallimento del ticket: “Bisognava presentare un programma propositivo e non limitarsi a correre contro qualcuno”. Ha reso omaggio al vincitore (“Ho condiviso un milione di voti con Bush, evidentemente i miei argomenti erano chiari, al di là dell'orientamento politico”) e ha offerto la sua modesta ricetta per parlare agli americani: “Siamo un popolo non ideologico. Cerchiamo il buonsenso e le soluzioni pratiche ai problemi”. Ha fatto capire che a Washington incarnerà un'opposizione ragionata (“Non bisogna scagliarsi contro il presidente in ogni occasione, ma si deve essere onesti quando si è in disaccordo con lui”). E ha confermato che per i prossimi sei anni se ne starà tranquillo al suo posto a imparare il mestiere. 2004 più sei fa 2010. Nel 2012 Barack avrà cinquantun'anni, età perfetta per un presidente democratico.