Coraggio, diamogliela vinta/4

E' la parola fine per la carriera di tutti i Michael Moore

Mariarosa Mancuso

Elegante da morire, nel suo completo scamosciato color senape. A tracolla una bella borsa Gucci. E' lui, lo sceriffo di “Mezzogiorno e mezzo di fuoco” – non i molti presidenti americani neri da tutti puntigliosamente ricordati, nei film catastrofici e nella più realistica serie tv “24” –, che fa da apripista a Barack Obama.

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    Elegante da morire, nel suo completo scamosciato color senape. A tracolla una bella borsa Gucci. E' lui, lo sceriffo di “Mezzogiorno e mezzo di fuoco” – non i molti presidenti americani neri da tutti puntigliosamente ricordati, nei film catastrofici e nella più realistica serie tv “24” –, che fa da apripista a Barack Obama. Gene Wilder, nel 1974, lo aveva immaginato a Rock Ridge, cittadina dove ogni maschio adulto tiene nell'armadio il cappuccio del Klu Klux Klan. Quando se la vede brutta – stanno per linciarlo – lo sceriffo Bart si punta da sé la pistola alla tempia, urlando “fermi tutti o ammazzo il negro!”. Basta il pensiero, gli astanti si quietano pregustando lo spettacolo.

    Grazie, Obama. Per averci ricordato in campagna elettorale uno dei film più divertenti nella nostra vita di perditempo. E per le buone cose che verranno. Un presidente nero e democratico metterà la parola “fine” alla carriera di Michael Moore e di Morgan Spurlock. Farà tacere Paul Auster, ormai abituato a corredare romanzi sempre più brutti – fa testo “Uomo nel buio” – con accorati proclami sul pessimo stato delle cose americane. Salterà un giro anche Spike Lee. Magari rifarà un film bello come “Inside Man”, invece di spacciare favolette come “Miracolo a Sant'Anna”, con i militari neri che in Toscana combattono la Seconda guerra mondiale e si rallegrano: “Per la prima volta in vita mia sento che il colore della pelle non conta”.

    Woody Allen smetterà di far l'emigrante di lusso in giro per l'Europa. Tornerà il regista che abbiamo conosciuto e amato: uno che se dalle finestre non vede Central Park soffre di mancamenti. Sean Penn chiuderà il suo tour promozionale “L'America che ci piace”, e al prossimo uragano rimarrà in casa con il plaid sulle ginocchia, invece di farsi soccorrere dalla protezione civile, che a New Orleans aveva faccende più serie da sbrigare. Registi e attori americani abroad parleranno di cinema, non più di politica, durante le conferenze stampa. Susan Sarandon e Tim Robbins, insieme o separati, scompariranno dalle copertine.

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