Il diario di due economisti in anteprima
Tre ideuzze per l'università del ministro Gelmini
Parlare di università sta ormai diventando un esercizio imbarazzante. Le proteste contro i tagli prospettati dal governo, che se confermati diventeranno sostanziali dal 2010, hanno avuto un primo effetto. Quello di aver attirato sulle università italiane un mare di fango. Ancora più imbarazzanti sono le voci che circolano sulle possibili riforme.
Parlare di università sta ormai diventando un esercizio imbarazzante. Le proteste contro i tagli prospettati dal governo, che se confermati diventeranno sostanziali dal 2010, hanno avuto un primo effetto. Quello di aver attirato sulle università italiane un mare di fango. Ancora più imbarazzanti sono le voci che circolano sulle possibili riforme, che come al solito si concentrano sul sistema di reclutamento. Si prospetta un nuovo giro del gioco dell'oca universitario: ritorno al sistema barocco dei concorsi nazionali già abbondantemente sperimentato nel passato. Poiché sempre di cooptazione si tratta, e non potrebbe essere altrimenti, l'alternativa sarebbe tra due sistemi ugualmente distorti e inefficienti: uno di controllo oligarchico della potenziale corruttela e uno più democratico.
Allora la strada più logica (in quanto tale considerata irrealistica) è un'altra: l'abolizione dei concorsi all'interno di un coerente disegno di riforma del sistema universitario. L'Università che proponiamo ha come cardine la ricerca della qualità attraverso la competizione sul mercato della formazione e della ricerca. La competizione richiede, al contempo, forte autonomia e responsabilità e un sistema coerente di incentivi che agisca in modo virtuoso sui tre attori dell'Università: gli organi di governo, i professori e gli studenti.
Il fulcro del cambiamento necessario è l'abolizione del valore legale del titolo di studio. L'effetto di questo provvedimento è quello di costringere le università ad attrarre gli studenti in base alla reputazione dell'università, che ha valore sul mercato del lavoro. La reputazione deve pagare, perché vi sia incentivo al suo perseguimento. Serve quindi liberalizzare o concedere maggiore flessibilità nella fissazione delle “tasse” universitarie da parte delle singole università. Maggiore sarà la reputazione delle università maggiore sarà la loro possibilità di attrarre gli studenti migliori e di fissare tasse più elevate. Si tratta di un forte incentivo per le università a competere e un incentivo per gli studenti a essere esigenti o a trasferirsi ad altra università.
Naturalmente, una parte dei maggiori introiti servirà a finanziare borse di studio per studenti meritevoli con basso reddito. Più è alta la reputazione, maggiore sarà il prezzo di ingresso, maggiori saranno le risorse per borse di studio. Un'altra parte dei maggiori introiti dovrà essere a disposizione delle università per attrezzature o salari: cioè per finanziare altri incentivi. Per attrarre i migliori docenti le università devono avere riconosciuta una autonomia per differenziare i salari in base al merito sia scientifico sia didattico e non solo in base all'anzianità. Il finanziamento per questa differenziazione può avvenire anche attraverso fondi raccolti da privati, da fondazioni, con i proventi di brevetti e con attività scientifiche e didattiche che generano reddito. La differenziazione per merito è garantita dal meccanismo virtuoso: maggiore salario-migliori docenti- più finanziamenti. Allo stesso obiettivo dovrebbe contribuire un sistema di ripartizione dei fondi pubblici basato su tre indicatori: numero di laureati, risultati di collocamento nel mercato del lavoro, risultati di ricerca secondo standard internazionali.
A questo punto si possono abolire i concorsi. Il reclutamento dei docenti e le progressioni di carriera dovrebbero essere essenzialmente affidate alle università. Noi rispettiamo i buoni sentimenti verso amanti e familiari, ma si deve accettare che il conflitto di interessi tra reclutamento non meritocratico e danno collettivo per tutto il corpo docente e non docente faccia il suo corso. Si dovrebbe anche modificare lo status dei docenti in modo tale da facilitare la mobilità, anche reversibile, tra diverse università, tra università e PA e tra università e settore privato. Quello di professore universitario deve essere un lavoro, non un titolo. Infine, le università devono poter fissare il numero massimo di studenti da ammettere con una selezione in base al merito e limitare la possibilità di prolungamento degli studi fuori corso (nella maggior parte dei paesi dopo un numero limitato di “fallimenti” lo studente deve abbandonare l'università).
In attesa che qualcosa accada, proponiamo uno scambio. Il governo rinuncia ai tagli programmati in cambio di una moratoria delle attuali tornate concorsuali. Quindi, niente concorsi, nemmeno all'insegna di un nuovo sistema, che è poi il vecchio, quello più facile da catturare da parte delle lobby maggiori. (In tal caso, si può anche lasciare alle università la responsabilità di decidere su eventuali legittime aspirazioni di progressioni di carriera di chi già ha una posizione stabile, ma senza la foglia di fico dei concorsi).
Il Foglio sportivo - in corpore sano