La classe del Cav.
La sacrosanta battaglia sui conti delle università italiane, intrapresa da Giulio Tremonti affiancato dall'intrepida Mariastella Gelmini, investe due ordini di questioni: intervenire su una fonte di sprechi non secondari e, insieme, iniziare a far emergere il drammatico groviglio di problemi che riguardano i nostri atenei per potere poi prendere iniziative di risanamento e rilancio.
La sacrosanta battaglia sui conti delle università italiane, intrapresa da Giulio Tremonti affiancato dall'intrepida Mariastella Gelmini, investe due ordini di questioni: intervenire su una fonte di sprechi non secondari nel quadro dello sforzo drammatico di tenere sotto controllo la contabilità nazionale in un periodo di crisi, e, insieme, iniziare a far emergere il drammatico groviglio di problemi che riguardano i nostri atenei per potere poi prendere iniziative di risanamento e rilancio. Lo slogan dei settori studenteschi in lotta “non pagheremo la vostra crisi” significa soltanto una cosa: chissenefrega degli altri, i nostri studi ce li paghino quei fessi dei contribuenti. Ed è accompagnato da una variante demenziale: “Le università le paghino gli evasori fiscali”. Ma la base strutturale dell'evasione fiscale è propria questa: che i costi di un servizio di cui usufruisci tu siano scaricati il più possibile sugli altri, anche se la tua famiglia è benestante. E' grave che tanti rettori coprano questa deriva demagogica, fa parte di una logica di un sistema che impone per lo più a chi ha deciso di fare carriera come “magnifico” di cercarsi a tutti i costi e in tutti i posti il consenso.
La via del rigore che oggi raccoglie l'Italia competitiva (dalle imprese ai ceti medi ai lavoratori produttivi) dietro il centrodestra deve dimostrare di essere pronta a sfidare i poteri di blocco esistenti (in Campania e con i piloti dell'Alitalia e oggi con i rettori) o altrimenti si sfarina. Il rigore paga e non solo mette con le spalle al muro le centrali corporative ma risveglia un orgoglio nel proprio lavoro in chi è richiamato alla responsabilità. Da qui discende il flop del rigurgito corporativo tentato dalla Cgil con lo sciopero fallito dei lavoratori statali. Questa è la base decisiva per ripartire e, nel caso in esame, per affrontare il secondo corno del problema: la riforma vera e propria dell'università. I comportamenti rigorosi alla fine pagano. Questo è testimoniato anche dal fatto che fior fiore di intellettuali che votano a sinistra ma non vogliono chiudere gli occhi di fronte allo sfascio delle nostre università, ha scelto di schierarsi nella discussione pubblica contro il corporativismo, raccogliendo un seguito d'opinione singificativo. Così innanzi tutto Roberto Perotti, e poi Marco Santambrogio, Luca Ricolfi, Francesco Giavazzi, Claudia Mancina. A parte i bocconiani che saranno protetti dal loro libero ateneo, gli altri peraltro sono tutti esposti alle vendette corporative (alcune parole di qualche rettore già indicano ipotesi d'intimidazione) e meritano dunque il massimo rispetto.
Il punto centrale nelle argomentazioni degli studiosi citati è che senza competizione gli studi universitari italiani non si possono rimettere sulla giusta carreggiata. Chiara è anche la via da perseguire: definire un centro di valutazione che certifichi la qualità della ricerca e della didattica, e subordinare a queste valutazioni sia gli investimenti in ricerca sia la concessione di nuove cattedre. C'era già bello e pronto un “Comitato di indirizzo nella valutazione della ricerca” messo su da Letizia Moratti. Fabio Mussi (che pure è in rapporto con la lobby della Normale di Pisa, uno dei pochi centri universitari integralmente meritocratico, seguiva una qualche logica risanatrice) per fare un'Agenzia più efficace ha bloccato tutto. Ora, Comitato o Agenzia, si deve rimettere in piedi un organismo che funzioni e subordinare alle sue conclusioni l'erogazione di almeno un venti per cento (nella prima fase, per poi arrivare anche fino al trenta per cento) della spesa statale per l'università. Santambrogio che da tempo studia il tema, indica i dipartimenti come terminale di questo sforzo. In effetti gli atenei spesso hanno logiche pachidermiche, la volontà di “potenza” dei rettori, la ricerca di grandi elettori per essere riconfermati, spinge anche a una disseminazione di sedi locali costosissime.
“Certificare” i dipartimenti e concentrare su questi gli investimenti è probabilmente la via per mirare veramente alla “ricerca” e anche per innescare quel meccanismo di competizione che Santambrogio giudica decisivo (ed è più o meno sulla stessa linea, con un tocco di radicalità in più grazie anche al fatto di essere un docente della libera Bocconi, pure Perotti) per risolvere la questione del reclutamento: solo se ti becchi molti soldi (e in tanti casi contano ancora di più i riconoscimenti) quando sei molto efficiente, resisterai alle pressioni amicali, clientelari e familistiche, e sceglierai come collega chi aiuta a innalzare il voto al tuo dipartimento. Questa strada ha un vantaggio, è semplice, ha una logica che produce risultati senza complicate sovrastrutture su cui finirebbero per pesare tutti i poteri di veto corporativi, aiuta a preparare i successivi interventi.
Giavazzi, com'è nel suo stile, vuole subito interventi risolutivi nel campo del reclutamento del corpo docente, denunciando la scandalosa organizzazione della prossima tornata di concorsi. Le sue osservazioni sono sacrosante ma hanno il difetto di indicare soluzioni che possono essere esercitate solo dall'alto, mentre oggi c'è bisogno di provvedimenti che frantumino dal basso la logica della solidarietà corporativa che, se non messa in crisi, paralizzerà tutto. Sono tante le questioni da risolvere: dal reclutamento alle tasse, dalle borse di studio alla governance degli atenei. Ma il problema è la leva su cui fare pressione: certificazioni più soldi per i dipartimenti, mi sembra la via non per indicare soluzioni astratte ma per aprire il processo che oggi è necessario.
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