Mrs Robinson e il suo presidente

Annalena Benini

La battuta più feroce è del reverendo Jeremiah Wright, consigliere spirituale poi ripudiato da Barack Obama perché apertamente razzista verso i bianchi: “Se Obama vince le elezioni, sarà la prima volta che una donna nera dorme legalmente alla Casa Bianca”. Dal 20 gennaio Michelle Obama dormirà legalmente là, anche con la madre: quattro ragazze nere in un colpo.

    La battuta più feroce è del reverendo Jeremiah Wright, consigliere spirituale poi ripudiato da Barack Obama perché apertamente razzista verso i bianchi: “Se Obama vince le elezioni, sarà la prima volta che una donna nera dorme legalmente alla Casa Bianca”. Dal 20 gennaio Michelle Obama dormirà legalmente là, anche con la madre: quattro ragazze nere in un colpo. Da ieri è mrs Robinson la first lady d'America: “La mia migliore amica, la mia roccia, l'amore della mia vita”, ha detto l'altra sera di lei Barack Obama, ripetendo vecchie frasi di vecchi discorsi, ma il bacio che si sono scambiati loro due alla notizia della vittoria era un nuovo, vero bacio d'amore, sulla bocca, a ventosa, stretti l'uno all'altra, innamorati, nonostante il vestito nero macchiato di rosso che indossava Michelle (di Narciso Rodriguez, ma in abbinamento drammatico con l'abito rosso di Malia e quello nero di Sasha).

    Forse è davvero la prima volta: insieme al primo presidente nero, anche una monogamia non bacchettona riuscirà a infilarsi nelle stanze da letto della Casa Bianca, nonostante gli agguati crescenti di tutte le Scarlett Johansson all'uomo più figo del momento. Loro quattro insieme (più la nonna e il cucciolo che Barack ha annunciato al mondo regalerà alle figlie, in premio per averlo seguito sui palchi americani in cerca di vittoria: scarpette di vernice, calze di filanca e treccine, composte, beneducate e sorridenti e senza nemmeno un gattino, però, nella grande casa rossa di Chicago – diffidare di quelli che hanno il giardino e non hanno animali) sono una famiglia splendida, fotografabile, indivisibile. “Barack è l'uomo della mia vita, le mie figlie sono il primo pensiero quando mi alzo la mattina e l'ultimo quando vado a dormire. La mia felicità dipende dalla loro”, aveva detto Michelle  definendosi una “mamma in carica” (la sua madritudine moderna e in carriera ha oscurato i duecento figli di Sarah Palin, eccessivamente burina, il figlio al fronte di Cindy McCain, eccessivamente rifatta, e la maternità stiracchiata di Hillary, troppo ambiziosa per partorire più di una Chelsea), e adesso la felicità è completa, le ragazzine ridono sul palco, lei si prepara al trasloco anche se, quando Barack era solo un giovane senatore, diceva che mai e poi mai avrebbe lasciato Chicago e sradicato le piccole.

    Ma appena la missione e soprattutto il traguardo sono stati chiari, lei non si è tirata indietro, l'ha seguito dappertutto (a patto che lui smettesse di fumare, e infatti Obama mastica continuamente orrendi chewingum alla nicotina) ridendo e scherzando, ballando se necessario, facendo battute sul marito che non porta più giù la spazzatura e lascia biancheria sporca in giro per casa. Era il periodo delle frecciatine, ben studiate, era il momento in cui Michelle aveva deciso di mettere Barack ad altezza d'uomo perché lo accusavano di essere incorporeo, fatato, una specie di divo del cinema. Fu allora che Maureen Dowd, la democratica cattiva, scrisse sul New York Times: “Rabbrividisco ogni volta che Michelle Obama rimprovera suo marito trattandolo come un comune mortale (una routine comica che si basa sul presupposto che il resto del mondo lo percepisca come un dio, Obama)”. E' così, ed è perfetto: lui è il dio, lei è la donna forte che lo tiene stretto a sé, che lo saluta col pugno, che decide di non fare i regali di compleanno e Natale alle bambine per non viziarle, che le manda a letto presto e che quando dormono fa shopping online, per risparmiare tempo, o guarda i dvd di “Sex and the City”. Oppure fa l'amore con Barack. Perché loro due sono ancora molto appassionati, e basta guardare come lei l'ha stretto a sé per baciarlo, l'altra notte. Gli gli ha detto, sul palco: “Come here, mr President”, l'ha avvinghiato, immobilizzato con quelle lunghe braccia nude, e gli ha dato un bacio da pantera (tutti, poi, hanno immaginato il seguito dei festeggiamenti, una volta rimasti soli, e solo Carla Bruni e Sarkozy, finora, erano riusciti a dare quell'impressione, preceduta però dalla fama ventennale di Carla).

    Michelle non è mai stata una ragazza facile: lui ha raccontato che è stata una conquista dura, si è negata a lungo. Lui era il pivellino dello studio legale Sidley Austin, lei quella col filo di perle che arrivava, come lui, da Harvard, si vestiva già da Jackie, odiava perdere persino a Monopoli, e non le andava affatto di far da badante al nuovo arrivato come le avevano chiesto. Era il 1989, l'anno dell'innamoramento (prima di Barack nessuno mai aveva meritato più di un mese di tiepide attenzioni, prima di Barack gli uomini erano banali o, peggio, bianchi). Lei lo guardò entrare nella stanza, le scappò un sorriso, lui la invitò a pranzo. Ma si rifiutò di accettare inviti serali, anche se lo trovò bello e gli raccontò di Princeton e di qualche momento buio, di quando la madre della sua compagna di stanza telefonò per ritirare la figlia da scuola, non voleva che dormisse con una nera. Michelle, con mossa astuta, presentò Barack alle sue amiche, ma era lei che lui voleva. Sapeva già come ci si veste, come si sorride, come si incanta: le disse di Honolulu, della politica, di quel padre strambo e della mamma fricchettona e sfortunata. Visto che lei non accettava inviti normali, vera donna che sa quando bisogna fingere di fuggire, lui furbissimo le chiese se voleva andare ad ascoltarlo parlare in una Chiesa di Chicago, perché si candidava nel quartiere. Michelle ci andò e lo vide, senza giacca e con le maniche della camicia arrotolate, raccontava com'è e come dovrebbe essere il mondo a una platea silenziosa e conquistata. Era fatta. Gelato e cinema, come due quindicenni, “Fa' la cosa giusta” di Spike Lee (Barack ha ringraziato pubblicamente il regista per avergli offerto quella magnifica occasione di rimorchio), ginocchio contro ginocchio.

    Da allora sono una cosa sola (iper raccontata nei comizi: lui che guida la macchina agitato per portare a casa dall'ospedale lei e la loro prima figlia, “determinato a darle tutto quel che lui non aveva mai avuto”, lui che torna da Washington anche solo per comprare l'albero di Natale, lui che quando sbaglia chiede scusa, le bimbe che la mattina hanno il permesso di passare qualche minuto nel lettone con mamma e papà), e a Michelle che ha voluto tanto, da subito, essere come Jackie, verranno risparmiate, si spera, le corna compulsive. “Non mandare tutto a puttane, amico”, gli disse nel 1994, alla Convention democratica, quando lo sconosciuto Barack Obama stava per salire sul palco a parlare, e vale anche adesso, vale per tutto. Michelle è un avvocato di successo, probabilmente ha più orgoglio nero di quanto Barack ne abbia dovuto nascondere per piacere a tutti: ha raccontato, e poi un po' ritrattato, la discriminazione razziale che ha subito a Princeton (“è stata normalmente dura”, ha detto lo scorso agosto, ma i suoi occhi mandavano lampi).

    Questo grandioso spettacolo l'hanno costruito insieme. Quand'è stato il momento, quando la storia hawaiana con tocchi di Indonesia e Kenya di Barack sembrava non bastare, Michelle ha raccontato di suo padre, il signor Robinson, operaio turnista all'acquedotto comunale di Chicago, al quale a trent'anni venne diagnosticata la sclerosi multipla. “Nonostante la sua malattia, mio padre ha lavorato ogni singolo giorno senza un lamento. E non ha mai smesso di sorridere e di ridere. Non ha mai smesso di prendersi cura della sua famiglia. Io penso a lui ogni giorno. Ogni singolo giorno. Penso a lui quando guardo le mie ragazze, quando rido con mio fratello, quando parlo con mia madre. Lui è il mio eroe personale e il mio miglior maestro. E ho pensato a lui durante questa campagna, come in ogni grande esperienza della mia vita. Sento sempre la sua voce nella mia testa. In ogni cosa che faccio, provo a renderlo fiero di me”. Fu lei a chiedere al padre a bruciapelo di andare a Princeton: “Sono molto più intelligente di mio fratello: perché lui sì e io no?”, e da allora ha azzeccato sempre tutto, tranne il vestito della vittoria, tranne “i chili elettorali” in più, come lei stessa li ha definiti, tranne l'aspirazione a dare un tocco esotico all'arredamento della Casa Bianca, tranne forse quel risentimento nero che comunque è riuscita ad addomesticare in corsa.

    Non è stata la vittoria storica, commovente, patinata, modaiola, di un uomo nuovo, giovane e fotogenico, questo è il trionfo di una famiglia che è già un logo. Gli Obama. Tutti vorrebbero essere loro, molti possono aspirare a diventarlo (è più difficile sognare di essere John McCain, nonostante l'eroismo). Stare a piedi nudi dentro casa, adorare il cheeseburger, mangiare uova e pancetta a colazione, lasciargli guardare le partite, avvinghiarlo nella stretta della pantera, faticare per comperare quella casa vittoriana, sentirsi finalmente chic (essendosi comunque sempre vestiti, entrambi, da ragazzi di buona famiglia, perché la prima impressione è fondamentale), adorare i servizi fotografici, dare un dollaro di paghetta settimanale alle figlie, guadagnare parecchio, lei persino più di lui, permettersi il sarcasmo sui difetti del marito e su quelli dell'America, amarsi ancora dopo diciannove anni, dopo tutta la strada fatta, e con quell'ambizione bruciante addosso.

    “Facevamo una vita meravigliosa”, ha detto lei raccontando i dubbi iniziali sulla corsa di Barack verso la Casa Bianca (in venti mesi di campagna lui ha trascorso il 98 per cento del tempo fuori casa, ha contato Michelle), ma forse era una posa, un altro modo per sembrare normale, spiazzata, inadatta. “Ho imparato che si è adatti a un sacco di cose”, ha detto subito dopo, e già stava nella classifica di Vogue delle donne più eleganti, dava consigli allo staff del marito, preparava il proprio perfetto discorso, entrava a testa alta e con senso dell'umorismo in tutti i necessari salotti televisivi, dando un'impressione di sensuale concretezza (una che, diversamente da Sarah Palin, Cindy McCain e Hillary Clinton, si può vestire nei saldi facendo bella figura). Non c'era mai stata, prima, una family life così: i Kennedy erano tanto affascinanti, ma lui ha trasformato la Casa Bianca in un motel; i Clinton hanno portato grande tamarraggine: a parte la faccenda del tavolo a luci rosse, c'era anche una vasca idromassaggio a sette posti. Ora la Casa Bianca sarà il posto della potenza dell'amore familiare e della modernità disinvolta ma fedele e, se Michelle riuscirà a resistere alla tentazione del tocco esotico, questo è davvero l'inizio del nuovo mondo.

    • Annalena Benini
    • Annalena Benini, nata a Ferrara nel 1975, vive a Roma. Giornalista e scrittrice, è al Foglio dal 2001 e scrive di cultura, persone, storie. Dirige Review, la rivista mensile del Foglio. La rubrica di libri Lettere rubate esce ogni sabato, l’inserto Il Figlio esce ogni venerdì ed è anche un podcast. Ha scritto e condotto il programma tivù “Romanzo italiano” per Rai3. Il suo ultimo libro è “I racconti delle donne”. E’ sposata e ha due figli.