Dimenticare Ippocrate

I medici e il nuovo mito dell'autodeterminazione

Nicoletta Tiliacos

Non si tratta, infatti, di non accanirsi su una malata terminale, ma di interrompere i sostegni vitali che molto spesso nemmeno ai terminali (ed Eluana non lo è) vengono negati.

    “Una struttura idonea e un medico disponibile”. Sono queste, per usare le parole della governatrice piemontese Mercedes Bresso, le premesse per realizzare quel distacco del sondino che una sentenza civile ha definitivamente autorizzato per Eluana Englaro. Un medico disponibile. In teoria ce ne sarebbero. C'è il neurologo Carlo Alberto Defanti, che segue la ragazza da anni (ieri annunciava che “l'ipotesi estrema” di portare Eluana a casa per farla morire sarà presa in considerazione solo nel caso in cui “non dovessimo riuscire a trovare una struttura ad hoc”). E c'è sempre il torinese Silvio Viale, che disponibile si è già proclamato “se la nostra regione apre agli Englaro”: da buon militante di Exit, l'associazione che vuole l'eutanasia in Italia. Ma tra aperture, chiusure, ipotesi quasi certe che sfumano nel giro di poche ore, imbarazzi e dietrofront, si sta mettendo in scena una grande impasse deontologica. Si sta infatti rivelando molto profonda la distanza tra quella che è – che dovrebbe essere – la pratica medica di cura e la realizzazione di un atto che cura non è, ma il suo opposto.

    Non si tratta, infatti, di non accanirsi su una malata terminale, ma di interrompere i sostegni vitali che molto spesso nemmeno ai terminali (ed Eluana non lo è) vengono negati.
    Il magistrato Amedeo Santosuosso, in linea con la Consulta di bioetica della quale fa parte, dice che i medici del servizio sanitario nazionale sono tenuti, in nome dell'articolo della Costituzione che tutela la salute, a rendersi disponibili a dar corso alla sentenza su Eluana. Un paradosso abbastanza acrobatico che non convince il professor Antonio Carolei, neurologo all'Università dell'Aquila, appena chiamato dal ministero del Welfare a far parte del gruppo di lavoro su “stato vegetativo e minima coscienza”, presentato ieri a Roma. Al Foglio, Carolei dice che “quella sentenza andrebbe semplicemente ignorata. Non aggiunge nulla al nostro bagaglio culturale sulle persone in stato vegetativo e chiede la complicità dei medici in qualcosa che nega la loro funzione. Che è di approfondire, di studiare, di ricordare che se ci si fosse arresi all'evidenza dell'incurabilità – penso alle malattie psichiatriche gravi – nessuno avrebbe fatto un passo nella conoscenza di situazioni che oggi, a differenza di cent'anni fa, sappiamo fronteggiare”.

    Ma quanto, dell'antico giuramento del medico, può sopravvivere in uno scenario nel quale il diritto di disporre della propria vita diventa l'altra faccia del diritto (addirittura dell'obbligo) della categoria medica di procurare la morte dei propri pazienti? Investire la classe medica del potere di praticare l'eutanasia (di questo si tratta) non finisce per influire in modo irreversibile su tutti i malati e tutti i medici? E non significa minare il vincolo di solidarietà sociale, la protezione delle persone rese fragili dalla malattia, l'integrità stessa della professione medica? Il professor Francesco D'Agostino, presidente onorario del Comitato nazionale di bioetica, dice che “mettere al centro di tutto l'elemento dell'autodeterminazione ci fa entrare in una logica per cui la medicina diventa mera attività tecnica al servizio della volontà del paziente-cliente. Il quale chiede una prestazione tecnica a un medico esonerato da qualsiasi valutazione etica e deontologica della richiesta che gli viene fatta. Spero proprio che i medici, a questo, si ribellino – dice D'Agostino – perché non siamo alla liberale accettazione dell'autodeterminazione nella scelta di uno stile di vita. Nel caso della medicina si tratta di alterare il bene salute, che è di rilevanza pubblica”.

    Anche Gian Luigi Gigli, neurologo all'Università di Udine, vede profilarsi la minaccia di “un punto di non ritorno nella nostra professione. C'è chi pensa che vadano riscritte le regole del rapporto tra medico e paziente, che la base ippocratica che regola la deontologia sia da considerare superata. L'autodeterminazione del paziente è il nuovo feticcio. Eppure nessuno come noi medici sa quanto quell'idea dell'autonomia sia fragile, in condizioni di malattia. E quanto sia facile la prevaricazione nel caso degli incapaci, per i quali l'‘autodeterminazione' è esercitata da terzi”.