Dal jihad al jihad, passando (pacificamente) a Guantanamo
A Guantanamo si trovano 270 detenuti. Obama vuole reimpatriarne la maggioranza e per “50-80” di loro, ancora da precisare il numero esatto, ancora da istruire le pratiche processuali. Secondo il Wall Street Journal, sono storie che rovineranno il sonno di senatori e congressmen. Ma soprattutto del presidente in pectore Barack Obama.
Secondo il Wall Street Journal, sono storie che rovineranno il sonno di senatori e congressmen. Ma soprattutto del presidente in pectore Barack Obama. E' lui che si è assunto il compito di chiudere Guantanamo. Ma c'è una cifra che pesa come un macigno sulla liquidazione idealistica del carcere americano a Cuba. A Guantanamo si trovano 270 detenuti. Obama vuole reimpatriarne la maggioranza e per “50-80” di loro, ancora da precisare il numero esatto, ancora da istruire le pratiche processuali (non chiare le modalità, se il diritto penale puro o la forma ibrida delle “corti speciali” ideata del professor Amos Guiora).
Trenta è il numero di combattenti rilasciati dalla base e tornati sui campi di battaglia jihadisti. Per morire da “martiri” o essere catturati dagli americani. Ne ha scritto il senatore repubblicano John Cornyn su Usa Today: “Almeno trenta ex detenuti di Guantanamo sono tornati a combattere contro gli americani”. La cifra è ufficiale e arriva dal Pentagono. E' altissima. Perché questi trenta non sono parte del centinaio di “irriducibili”, i vestiti con le tute arancioni, sbattuti in isolamento in celle di colore bianco e con lo stretto necessario. Sono detenuti che hanno saputo celare la propria fede fanatica e dissimularla al punto da convincere anche il Pentagono.
L'ultimo recidivo in ordine cronologico è il kuwaitiano Abdullah Saleh al Ajmi, a maggio ha fatto otto morti a Mosul, in Iraq. La sua storia è tanto più incredibile perché le sue poesie sono entrate a far parte di una collezione di versi dei detenuti. Sono raccolti in “Poems from Guantanamo”, pubblicato dalla casa editrice dell'Università dell'Iowa e curate da Mark Falcoff, l'avvocato difensore di alcuni prigionieri yemeniti a Guantanamo. Un board member domandò al giovane prima di rilasciarlo: “Credo che la devozione alla tua religione sia genuina, che strada e direzione questa tua devozione prenderà se ti lasciamo andare?”. Ajmi rispose: “For peace”. Forse intendeva “for pieces”, per fare a pezzi i nemici.
C'è il caso del mullah Shazada, rilasciato l'8 maggio 2003 e ucciso un anno dopo a Kandahar. Maulavi Ghaffar è rimasto ucciso mentre programmava attacchi suicidi contro la polizia afghana. Mohammed Ismail lasciò Guantanamo nel 2004 e dopo pochi mesi era ancora una volta nelle mani americane. “Ho passato un buon periodo a Cuba” aveva detto. “Mi hanno dato lezioni di inglese”. Ruslan Odizhev è stato ucciso nel giugno 2007 dalle forze russe.
“E' nostra intenzione combattere contro gli americani e i loro alleati fino alla morte”, aveva spiegato il mullah Mehsud ai cronisti pachistani. Proveniente dall'omonimo gruppo tribale dei Mehsud, che gli inglesi chiamavano “i lupi” per la ferocia in combattimento, il jihadista cadde nelle mani degli americani mentre era al fianco dei talebani. Aveva con sé una carta d'identità afghana. Per due anni viene interrogato a Guantanamo. Si prende gioco degli inquirenti, i cui metodi d'interrogatorio non sono così crudeli come è stato detto, riesce a convincerli di essere di “scarso interesse”, uno smarrito nel mezzo di avvenimenti più grandi di lui. Lascia il “Gulag dei nostri tempi”, stando alla definizione di Amnesty, con un impegno a non farsi più coinvolgere nel terrorismo islamico. Torna in Waziristan, instaura il suo emirato, scuoia le vittime e si fa saltare in aria pur di non lasciarsi catturare di nuovo.
Al Ajmi il recidivo è l'autore della poesia “Miranda” apparsa nell'antologia di versi: “Il nostro rilascio non è nelle mani degli avvocati e dell'America. Il nostro rilascio è nelle mani di Colui che ci ha creato”. Il New York Times prese una sonora cantonata paragonando i suoi versi alla “habsiyya”, la tradizionale poesia araba che canta la sofferenza dei detenuti. La verità è che nessuno conosce fino in fondo le storie di questi buchi neri rinchiusi in una base ai tropici. Obama non potrà soltanto chiudere gli occhi e sperare che non accada nulla di male. Molti di loro hanno sognato il momento del rilascio per tornare a uccidere “servi negri” come lui.
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