Ma io amo Martini

Stefano Di Michele

Quando ero bambino, fissavo spesso il crocifisso vicino al letto di mio nonno. Un povero crocifisso – Cristo si fondeva e si confondeva, causa imperizia artigianale, con la croce stessa – nella camera da letto di un vecchio contadino. Ai suoi lati, nonno aveva attaccato una foto di Togliatti e una di Papa Giovanni. Quando veniva il prete per la benedizione pasquale, guardava prima il capo comunista, poi quello della cristianità e, severo e sorridente, mormorava al nonno: “Oddio, a Ste'...!”. Il nonno gli regalava un fiasco di vino: “Questo è buono per te, mica per la messa”.

Leggi Odi et amo di Giuliano Ferrara

    “Sentire Dio è la cosa più semplice e al tempo stesso la più importante nella vita” (Carlo Maria Martini).

    “…allora per un attimo sente tremare e fluttuare qualcosa che subito sparisce e che era, forse, Dio” (Natalia Ginzburg).



    Quando ero bambino, fissavo spesso il crocifisso vicino al letto di mio nonno. Un povero crocifisso – Cristo si fondeva e si confondeva, causa imperizia artigianale, con la croce stessa – nella camera da letto di un vecchio contadino. Ai suoi lati, nonno aveva attaccato una foto di Togliatti e una di Papa Giovanni. Quando veniva il prete per la benedizione pasquale, guardava prima il capo comunista, poi quello della cristianità e, severo e sorridente, mormorava al nonno: “Oddio, a Ste'...!”. Il nonno gli regalava un fiasco di vino: “Questo è buono per te, mica per la messa”. Da sempre ho sotto gli occhi quel crocifisso – ora vicino al mio letto, e sempre ho cercato di avvicinare il più possibile gli occhi alla faccia dell'uomo inchiodato lì sopra. Non che si capisse granché (mica l'aveva fatto il Bernini), anzi più lo fissavi e più quel volto diventava confuso, liquido – non si distingueva la barba dalla bocca, quasi la bocca dagli occhi stessi. Però il viso era sollevato verso l'alto, verso il soffitto della camera, fisso nella ricerca del cielo – era (è) un volto pieno di spavento e di stupore.

    Guardandolo, mai mi veniva in mente il Figlio di Dio, piuttosto sempre una domanda: perché? “Povero Cristo”, sentivo dire a casa quando qualcosa di peggio capitava a qualche disgraziato – e tutti credevamo che il peggio la sua vita l'avesse già toccato. Povero Cristo, ho sempre pensato guardando quel crocifisso, e poi tutti i crocifissi. Sì, certo: il Figlio di Dio, la Resurrezione, il Cielo – rammentava il prete, ma il nonno non si attardava su tali faccende successive. Lì, sul muro, c'era soltanto un povero Cristo che piangeva e forse urlava – e come fai ad aiutarmi, se sei tu che hai bisogno di così tanto aiuto? Stava lì a morire, come nella bellissima canzone di De Andrè, “e morì come tutti si muore/ come tutti cambiando colore” – color piombo, quel colore. Pensavo: se tuo padre è Dio, perché ti fa questo? E poi pensavo che forse neanche Dio qualche volta può essere di grande aiuto, o fa cose che gli uomini non capiscono – ma se Dio è incomprensibile agli uomini, chi altri deve comprenderlo, i teologi?

    Poi succede di aprire il nuovo libro del cardinale Martini (“Conversazioni notturne a Gerusalemme”, scritto con un confratello gesuita, Georg Sporschill), e subito, a pagina dieci, il grande biblista, il famoso arcivescovo, l'uomo di fede che fissa il suo tempo ultimo, racconta proprio questo: “Non riuscivo a capire perché Dio lascia morire suo Figlio sulla croce”. Non lo spiegava tutta la sua dottrina – tale e quale a come non riusciva a spiegarselo un bambino decenni prima. “Persino da vescovo, a volte, non riuscivo ad alzare lo sguardo verso il crocifisso perché questa domanda mi tormentava. Me la prendevo con Dio”. Dice pure, Martini, che soltanto in seguito, nell'avvicinarsi alla morte, ha capito: con la fine terrena (per così tanti fine di tutto), che chiude ogni uscita di sicurezza, “siamo costretti a riporre la nostra speranza in Dio e a credere in lui”. Eppure resta la paura – ci vogliono angeli e santi e amici anche per l'arcivescovo – per l'ultimo estremo abbandono. Riuscissimo pure, come nel famoso racconto di fantascienza, a mettere insieme i nove miliardi di nomi di Dio – e magari ad evitare che si spengano allora tutte le stelle – lo stesso non sapremmo niente di più, e né la nostra paura né il nostro stupore avranno cessato di esserci e di scuoterci.

    Nelle parole del cardinale si avvertono pensieri vertiginosi, ma più ancora e soprattutto la suggestione di ritrovarli anche là dove inciampi, nella terra, dove ti affanni a cercare risposte che nessuno ti dà, e dove nessun credo e nessun atto di fede e nessuna gloria è in grado di spiegare e di placare un tuo piccolo, insopportabile dolore. E a volte nemmeno tutta la fede basta, e il cardinale lo sa, e si resta muti (e forse è nel silenzio, Dio), e c'è solo da allargare le braccia. “Non riesco a comprendere tutto…”, gli capita di dire. E se ciò che è più necessario a volte sembra solo un fruscio, un momento di bene che veloce passa accanto, allora senti che puoi fidarti di un uomo di Dio che allarga le braccia – perché anche tu sai che non ci sono tutte le risposte. E dunque, il libro di Martini è libro di domande piuttosto che di risposte – le sue domande come le tue domande – libro su dubbi e illuminazioni, su ciò che è così essenziale eppure così sfuggente: le vie misteriose attraverso cui arriviamo non a comprendere, ma almeno a “sentire” Dio. Non sono i proclami, la noia di sottilissime dispute teologiche che calano solo polvere sulla vita della gente, il grottesco confermare e riaffermare ed imporre – ove nessuno si fa più imporre e nessuno più presta orecchio.

    Un trionfo di scenografie, senza passioni e senza stupori. Dice il cardinale: “Quando vedo la bellezza, non so spiegarla, eppure lo stupore può condurmi a Dio. E quando poi sento anche che lui non mi lascia cadere, che mi dà forza nei momenti difficili o quando accetto missioni audaci, allora mi sorprende sempre. Nel silenzio, nella quiete e nell'ascolto ci si avvicina molto a Dio”. E così che molti pensano e “sentono” Dio: carico di stupori e di silenzi, rivelato in un filo d'erba e in uno sguardo e in una paura, a volte. Quelli che sanno che dentro certi occhi – umani, persino aminali – c'è più Dio che in tutte le cattedrali del mondo. E sapendo questo, sanno anche con certezza di non arrecare offesa alcuna al Dio ritrovato. E' della mano rassicurante di Dio che c'è bisogno, non del suo artiglio – che secondo me Dio nemmeno ha, ma che tanti che parlano in suo nome agitano minaccioso.

    Ho un'idea molto approssimativa di Dio, dunque. Non credo però che molti ne abbiano di più precise. Leggendo la bellissima conversazione di Martini, mi è capitato di pensare che Dio lo puoi trovare in gesti e pensieri così umani da farsi divini – e non vederlo in nessuna burocratica notificazione delle sue volontà. Martini sa che c'è un'immenso bisogno di Dio, nel tempo stesso in cui sembra esserci una fuga da Dio. “Dio ci conduce fuori, nell'immensità. Ci insegna a pensare in modo aperto”, perché poi “senza la mia devozione, Dio rimane un mistero distante”. E dice, il cardinale, della “paura e indifferenza” presenti nella chiesa, di certa “contemplazione narcisistica”. Dice, soprattutto: “Significa anche non fermarsi qui, non dire mai: noi siamo a posto e non abbiamo più nulla da aggiungere”. E' un tempo, questo, nel campo della fede, di puri e duri, di tenerezze che sanno di obblighi e di certezze che generano nuovi dolori. Amo le parole di Martini non perché propone un Dio insapore o inodore (ma che vogliono, uno chef per Padre della chiesa?), al contrario: chiede di più della banalità del codificato, dei divieti e delle norme che dicono poco e spaventano nulla.

    Leggendo le risposte del cardinale, mi è venuto da pensare che a Dio si può arrivare per strade diverse. A volte troviamo Dio (e la sua necessità) in un solo gesto, in una sola frase che potrebbe persino passare inosservata. E forse allora è Dio stesso che ce la mette nelle orecchie. Ogni volta che penso a Dio, io penso a una cosa che mi disse un giorno Natalia Ginzburg (che sull'Unità scrisse la più bella e commovente difesa del crocifisso in classe). Mi disse: “Dovremmo sempre pensare che dire: Dio non c'è, è una crudeltà”. Dopo la sua morte, ho ritrovato in un libro questa sua annotazione: “Chi non crede, tenga conto che ci sono persone, alle quali il mondo senza Dio sembra atroce”. Ecco, persistenza e inafferrabilità di Dio: così è per buona parte degli uomini, e su questa linea fragile ed essenziale hai l'impressione che ti conduca la riflessione del cardinale. Un Dio non privato degli uomini e delle loro debolezze – che anzi, senza questi e senza quelle, di cosa sa mai Dio? Il più delle volte, tutto è troppo complicato intorno a lui, un giro tortuoso di troppo teologismo e di troppa normativa che toglie respiro al suo alitare – lo nasconde, e forse nasconde noi a lui.

    Mai ho visto, come sul volto di Natalia Ginzburg – il suo volto: quasi di legno intagliato, volto che aveva conosciuto la paura e la crudeltà degli uomini e la passione politica e il dubbio su ciò che ci attende dopo la fine – una simile concentrazione nel cercare scarne parole, povere parole, come tutte le parole che servono per le cose necessarie, per spiegare quella crudeltà nel negare la presenza di Dio, che poi magari è solo “una candela accesa tra vento e pioggia”. Ma una certezza l'aveva raggiunta: che a Dio non debbano piacere “complicate e tortuose costruzioni intorno al suo nome, costruzioni nelle quali necessariamente è presente ferro e pietra; e Dio, del ferro e della pietra, non se ne sa cosa fare”. E allora “la nostra Chiesa è un po' timida”, confida oggi Martini. Di fronte a tanta spettacolarità, a così tanto mondo calato nel cuore dello spirito, avverte: “Non saranno né il conformismo né tiepide proposte a rendere la Chiesa interessante. Io confido nella radicalità della parola di Gesù che dobbiamo tradurre nel nostro mondo: come aiuto nell'affrontare la vita, come buona novella che Gesù vuole portare. Tradurre non significa svilire”. Il Dio trionfante – degli eserciti, figurarsi! – e tuonante e minaccioso, ecco, a chi vive sulla debole linea tra necessità e incomprensione, risulta un Dio oscuro e lontano, spaventevole e forse lui stesso spaventato. Dio di cartapesta, da sagra politica, povero scudo di (poco) umane velleità. Vociante ma non severo, il Dio della quotidianità mediatica – a non voler scambiare per severità certe torsioni in suo nome che mutano grandezze in crudeltà. Pietra e ferro, appunto. Martini, l'occhio limpido puntato verso l'ultimo orizzonte, non mostra né pietra né ferro – “gli parlo in modo normale, per nulla devoto”.

    E' debole, la sua chiesa apparentemente trionfante, il cardinale lo vede e lo dice: le sfuggono cuori e pensieri e corpi. “In passato la Chiesa si è forse pronunciata anche troppo intorno al sesto comandamento. Talvolta sarebbe stato meglio tacere. L'amore tocca direttamente le persone, esse non possono essere escluse dalla ricerca di una risposta e di una vita”. Sorride ironico, se ricorda che in Brasile l'avevano soprannominato “cardéal da camisinha”, più o meno “cardinale dei preservativi”, dopo che intervenne sulla questione – in modo poco ortodosso e molto veritiero: “Anche l'ipotesi di consentirne l'uso come ‘male minore' alle coppie che hanno contratto l'Hiv non è sufficiente”. Racconta i limiti disastrosi dell'“Humanae Vitae”, pur ricordando con ammirata tenerezza – e netto dissenso – la decisione di Paolo VI di promulgarla contro (quasi) tutti e contro tutto. “La cosa più triste è che questa enciclica ha contribuito a far sì che molti non prendessero più in seria considerazione la Chiesa come interlocutrice o maestra. Soprattutto la gioventù dei paesi occidentali, che non pensa quasi più a rivolgersi a rappresentanti ecclesiastici per questioni riguardanti la pianificazione familiare o la sessualità. Riconosco che l'enciclica ‘Humanae Vitae' ha purtroppo prodotto anche un effetto negativo. Molte persone si sono allontanate dalla Chiesa e la Chiesa dalle persone. Ne è derivato un grave danno”. Rammenta le “indimenticabili ammissioni di colpa che oggi, secoli dopo l'ingiusta condanna di Galileo Galilei o Darwin, hanno grande effetto”, ma avverte: “Per i temi che riguardano la vita e l'amore non possiamo in nessun caso attendere tanto. Sapere ammettere i propri errori e la limitatezza delle proprie vedute di ieri è segno di grandezza d'animo e di sicurezza”.

    Amo nel cardinale Martini ciò che è detto così semplicemente, eppure è così difficile da fare – sempre, per ogni cosa semplice. Il suo ricondurre Dio presso gli uomini è un problema per noi, prima che per la chiesa. Dire: qui c'è una riposta, proviamo a cercarla, è ben diverso dal calare un pronunciamento di pietra e ferro: questa è la riposta, eseguite! Nell'idea imprecisa e incerta di Dio, ho piccole immagini – un anziano prete operaio che una sera dice messa in un appartamento di un quartiere degradato di Torino, una spiga di grano su un tavolo coperto da una tovaglia bianca, il volto sofferente di don Luigi Di Liegro travolto dagli insulti in un quartiere ricco di Roma, l'urlo della colomba che non trovava più i suoi piccoli e che restò per sempre, con spavento, nel cuore di Anna Maria Ortese, una vecchia che da anni aspettava alla stazione il treno di sua figlia che non arrivava – e viene da pensare che chissà se è vero che Dio ha scritto sul palmo della sua mano il nome di ogni essere vivente e che non lascia cadere nessuno: sarebbe bello, ma come crederci? Dice il cardinale: “Non dobbiamo abituarci ai peccati globali, che sono per noi una sfida: la piaga dell'Aids, le catastrofi ambientali e la fame, la povertà, le guerre e la miseria dei profughi, i bambini che non hanno accesso a medicine e istruzione, le donne maltrattate”.

    Chi di Dio ha solo la percezione di un bisbiglio, una luce fioca e instabile, un soffio come di piccolo vento, capisce le parole di Martini come le proprie: incerte e vere. Perché anche nel suo nome si può praticare ipocrisia e si può causare dolore. “Tutto ciò che è buono può essere oggetto di abuso, persino l'Altissimo. Quando si conducono guerre d'aggressione in nome di Dio, quando il cristianesimo viene usato in modo populistico in campagna elettorale, sento suonare campanelli d'allarme”. E' “ripugnante” – dice così il cardinale, “è ripugnante parlar di Dio e non essere fedeli alla sua caratteristica principale: la giustizia”. Allora, chi ha una fede fragile e insistente è di parole come queste che ha bisogno. Il poco che riesci a intravedere, il poco che riesci a sentire, il poco che ti accade di raccogliere: ecco, anche in quel nulla è Dio, ti raggiunge e ti senti non invano. Non solo una corsa a mettersi sempre in regola, a professare atti di fede, a formulare obbedienze insensate. Dio è dove cadi, dove abitano il tuo dubbio e la tua paura, dove nemmeno lo cerchi e forse non hai neppure voglia di incontrarlo. “Dio ci conduce fuori, nell'immensità”. Uomini e chiesa, ricorda il cardinale, e una non meno degli altri, “corrono sempre il rischio di porsi come assoluti”. Spiega: “Illusioni e divieti non portano a nulla”. Si spinge dove altri prelati non hanno il coraggio di osare, fino a “una nuova cultura della sessualità”, dentro la sofferenza “incommensurabile” imposta ai divorziati. “Nella mia cerchia di conoscenze vi sono coppie omosessuali, persone stimate e altruiste. Non mi è mai stato chiesto, né mai mi sarebbe venuto in mente, di giudicarle”, racconta al suo confratello. “Nel rapporto con l'omosessualità, tuttavia, nella Chiesa dobbiamo rimproverarci di essere spesso stati insensibili”. Comunque, “pressione e insistenza solo sui doveri hanno esaurito le loro forze”.

    Il cardinale dentro il suo ultimo orizzonte, verso la fine terrena, arriva – nonostante tanta fede e tanta sapienza – come tutti: spaventato e ignaro. “Io parto dal principio che Dio non pretenda troppo da me: sa cosa possiamo sopportare. Forse in punto di morte qualcuno mi terrà la mano. Mi auguro di riuscire a pregare”. Ma poi, Dio dice “ti amo in modo speciale” proprio ai più impauriti, ai più deboli, a quelli che inciampano, a quelli che hanno fissato per l'intera vita una piccola luce – e non hanno capito se era Dio o solo un loro riflesso, e si scoprirà che nemmeno per Dio è questa la cosa più importante – e chissà lui cosa avrà visto di noi, anche nell'attimo esatto del nostro farsi ombra. Non capire sempre tutto e non inchiodare, senza scampo né misericordia, la vita della gente alla durezza (nei secoli aleatoria) di dottrine impastate con pietra e ferro. Soprattutto questo il vecchio cardinale mi ha aiutato a capire: la mano tesa e paziente di Dio, appunto, e non l'artiglio per afferrarci alla gola.

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