Dasvidaniya compagno Curzi
Poi, arrivava sempre Sandro. Col maglioncino color glicine o ciclamino e lilla, che quanti cavolo ne aveva, poi, di questi maglioni, e certi foulard che i liberali se li sognano – “communista” proprio con due emme, come quando diceva “ggente” (“ah, i puristi”, si lamentava lui), ma per nulla triste o di scuro vestito o di nero umore.
Leggi Memorie di Telekabul, l'ultima intervista di Curzi al Foglio
Poi, arrivava sempre Sandro. Col maglioncino color glicine o ciclamino e lilla, che quanti cavolo ne aveva, poi, di questi maglioni, e certi foulard che i liberali se li sognano – “communista” proprio con due emme, come quando diceva “ggente” (“ah, i puristi”, si lamentava lui), ma per nulla triste o di scuro vestito o di nero umore. C'era un seminario, un corteo, una manifestazione, un'adunata, un'assemblea, una conferenza, e la sua lucida capa si profilava a un certo punto laggiù in fondo – e quel capoccione liscio raccoglieva riflessi e luci – occhi da intelligente e paziente testuggine che scrutavano intorno. “Oh, Sandro! Oh, Sandro!” – tutti conosceva e tutti lo conoscevano. “Oh, ciao! Oh, ciao!”. Avanzava la testa lucente, e prima ancora, come un piccolo radar, la sua pipa. Con gli anni, le sue pipe erano diventate più leggere, schiumose e colorate, semplice ornamento, senza più fumo, vuote e vissute.
Se uno chiude gli occhi, così gli pare di rivedere Sandro Curzi: maglioni colorati, pipe colorate, foulard colorati. La testa, persino, si colorava, concentrando sulla pelle lucida il sole calante, la lampada centrale, la torcia protestataria. Ma meglio di tutto veniva il riflesso delle bandiere rosse – quando c'erano.
Ieri, chiunque diceva qualcosa su Curzi quasi sempre aggiungeva: era simpatico. E Sandro era simpatico davvero. Aveva la faccia che predisponeva alla simpatia, la stretta forte quando ti afferrava il braccio, lo sguardo furbo con cui ti piazzava una curiosità. Ogni tanto, fino a non molto tempo fa, eccolo apparire in Transatlantico, un blazer con bottoni dorati sul maglione color glicine, la pipa tra i denti che seguiva il lento andamento del suo sguardo. Tra capoccia e pipa – gliel'ho anche detto una volta – pareva un sottomarino in emersione che scrutava l'oceano circostante. “Seee, sottomarino… Però dell'Armata rossa”, mi rispose ridendo. Un martini, un'oliva, le noccioline della buvette che non erano più quelle di un tempo, un vecchio collega, un vecchio deputato, un giovane diessino… Aveva battute fulminanti, Sandro, e risate generose. Ah, beh, certo, i tempi di una volta… C'era anche la sua giustificata nostalgia, ma senza niente di troppo lamentoso e di nessuna accidia: un dato di fatto, se quello lì non è Giancarlo Pajetta che ci vuoi fare? Te lo tieni come lo trovi… Quando tornò a fare i suoi giri a Montecitorio, dopo l'ultima operazione, tutti a salutarlo, tutti a chiedergli come stava. E lui diceva che la bestia l'avrebbe battuta, e poi subito passava oltre – e la politica, e i giornali, e la televisione, e il partito…
Ecco, il partito. Sandro era di Rifondazione comunista, ma ogni volta che parlavamo del partito, o dicevamo “ti ricordi al partito?” o “beh, quando c'era il partito”, era di quel partito che parlavamo, era quel partito che negli occhi di Sandro accendeva ancora una strana luce, come nel fornello della sua pipa, quando ancora accendeva la pipa. Era il grande glorioso Partito comunista – e non ci sarebbe stato male, anzi sarebbe suonato di sicuro opportuno, mentre con Sandro se ne discuteva, aggiungere, come negli slogan degli anni felici, “di-Gramsci-Togliatti-Longo-e-Berlinguer!”, così, a cantilena, ritmata. Con Sandro, quasi sempre di questo si finiva a parlare – e poi, scusa, che nostalgia e nostalgia, se quella là non è Adriana Seroni mica è nostalgia, è dato di fatto. Certi del centrodestra, che in massa ieri hanno, con belle espressioni, salutato Sandro, insistevano pure sul fatto che non era un comunista dogmatico. Facevano ridere, le due parole insieme, “comunista dogmatico”, che vai a trovarlo un comunista dogmatico, oggigiorno – si scambia, semplicemente, la parodia per il dogma. Certo che Sandro non lo era, mica si metteva la sera a leggere i discorsi di Zdanov, e chissà se buttava un'occhiata a Mario Alicata, ma era sicuramente un comunista sentimentale, che è appunto tutt'altra cosa dal dogmatico, ma che spesso si nutre degli stessi ricordi.
A me piaceva stare con Sandro perché anch'io sono un comunista sentimentale – Sandro magari più comunista, io più sentimentale. O magari il comunismo non c'entra un cavolo: c'entrano le persone, un tempo e forse anche una forma di rigore. Quando sul Foglio apparve un articolo sulla dissoluzione – anche solo come idea, come immaginario – di ciò che era stato il Pci dopo la nascita del Pd, articolo intitolato “La scomparsa del bue primigenio”, Sandro mandò un'allegra missiva in cui rivendicava la sua parte di divertita collaborazione alla lunga e proficua vita del magnifico bovino. Il comunista sentimentale ricorda tutte le facce e le parole e i giorni: sa di aver attraversato un mondo, e sa pure che quel mondo è finito, ma ha riserve di gratitudine e di magnifici ricordi per quel tempo. Non credo che a Sandro passasse neanche di sfuggita sopra la pelata l'idea di andare a fare il comunismo da qualche parte, ma sapeva pure che quella vissuta era stata una stagione degna, persino migliore per tanti aspetti – e non la cedeva in cambio né di un certo flaccido moderatismo né di un certo inconcludente movimentismo. Un tempo di lotte e risate e amori e speranze, e se pure le lotte erano andate come erano andate (ma non tutte male e parecchie non sbagliate) amori e speranze e risate erano rimasti.
Certo, è difficile immaginare che ci sia un posto dove Sandro possa, adesso, ritrovare quel mondo. Di suo, è imperscrutabile come paradiso, ma è da escludere pure che sia l'inferno. Ma se ci fosse, uno se l'immagina lì com'era tutte le volte che lo incontrava di qua. Ed era così: la pipa passava dalla bocca al palmo della mano, il palmo si stringeva intorno al fornello della stessa, Sandro sospirava e poi, immancabilmente, cominciava: “A Ste', ma me pare de capi'…”. Oppure: “Io gliel'ho detto, ai compagni: ah compagni…”. Un evento di oggi, lui lo riallacciava a uno di ieri, una faccia (brutta o bella) a una faccia (brutta o bella) dell'altro ieri. Non ne abbiamo mai parlato, e forse Sandro non ha mai letto i gialli di Agatha Christie (io, per dire, li leggevo di nascosto e in sezione andavo con qualche tomo degli Editori Riuniti sotto il braccio), ma c'è un personaggio dei suoi libri, Miss Marple, una vecchietta investigatrice – da tutti presa per sbadata, e che invece con l'aiuto di un paio di ferri da maglia incastrava i peggio criminali – che di fronte a ogni nuovo evento trovava un raffronto con il panettiere del villaggio, la zitella sua vicina, il postino del paese accanto, siccome “la natura umana è sempre uguale”. Purtroppo non è sempre uguale, e per fortuna non lo è, ma l'onore della memoria che Sandro ha saputo conservare fino alla fine, senza mai mutarlo in sterile nostalgia, aveva qualcosa di sorprendente e di curioso.
Qualche mese fa l'ho incontrato nel suo ufficio a viale Mazzini. Aveva una brutta tosse quel giorno, Sandro. Certe parole si spezzavano. Gli avevo chiesto una mano per preparare una storia di Telekabul. Abbiamo rivisto insieme alcuni momenti televisivi, riascoltato la telefonata che al “Maurizio Costanzo Show”, nei giorni della sua cacciata, fece Indro Montanelli. Un bellissimo complimento, da Grande Moderato a Grande Comunista: “Oscar Wilde diceva che bisogna sapersi scegliere i propri amici e i propri nemici. Con Curzi mi ero scelto un nemico magnifico…”. Sentimentale, e appunto non dogmatico, Sandro, così che i nemici lo incuriosivano, li cercava, li interrogava. Ieri erano molti a destra, anche della destra estrema, a rimpiangerlo e a salutarlo – lui che mai ha fatto nemmeno finta di rinnegare un giorno del suo passato. Lui, che quando tante anime delicate a sinistra se la prendevano per il braccio teso in campo di Di Canio, difese il calciatore laziale (da laziale, diciamo, più che da compagno) con passione. O la curiosa simpatia con cui accoglieva sempre Pietrangelo Buttafuoco, e la divertita curiosità con cui bazzicavano una bottega di barbiere vicino al Senato – e uno sta ancora lì a chiedersi che diavolo doveva farci, Sandro, con un barbiere. Curzi era sempre Curzi, anche in quella sua stanza, al vertice del potere della sua amata televisione. E perciò uno andava a curiosare negli scaffali e scopriva che anche lì aveva portato, nientemeno, gli scritti di Togliatti (edizione Editori Riuniti, ovviamente, che ogni compagno di retto sentire comprava a rate presso la locale sezione), la storia del Pci (di Paolo Spriano, ovviamente), una composizione in travertino raffigurante falce e martello, il cappello dei compagni del nord Vietnam, l'elmetto degli operai dell'Eni, un bustino di Stalin, “ma è una bottiglietta, dentro c'era la vodka”. Un certo aggiornamento era rappresentato da un cappelletto della Cnn. E più in là, l'elmetto di un soldato di Saddam, residuato di uno storico evento: quando un carro armato iracheno si arrese a una troupe di Telekabul, durante la prima guerra del Golfo: “Italia! Italia!”. E tutti a dire di quella Telekabul, e Sandro sempre ricordava che la trovata fu di Giuliano Ferrara al congresso socialista dell'Ansaldo, a Milano, (“Telekabul!, disse. Alé, avevamo fatto bingo, il giorno dopo tutti i giornali parlavano di noi: un marchio di fabbrica”), e comunque il suo telegiornale era stato relegato, nei padiglioni del congresso craxiano, giù in cantina, e Mariolina Sattanino sobbalzava quando qualche sorcio attraversava di corsa la precaria redazione.
Se c'è un posto dove andare, Sandro ci andrà. Troverà compagni e bandiere rosse e qualche televisione da raddrizzare pure da quelle parti. Stringerà la pipa tra le mani e dirà: “Me sembra de capi'…”. Perché poi, la tecnica di Miss Marple a volte produce sorprendenti effetti sociali. Tu gli chiedevi di Santoro, di come fu inventata “Samarcanda”, e magari ti aspettavi una dotta disquisizione su potere e informazione, e la gente e la televisione (insomma, solita noia sociologica), e Sandro ti raccontava che era roba dei comunisti del dopoguerra, che a Roma, tutti i giovedì sera tenevano nelle sezioni delle assemblee (sarebbero gli attivi, e attivi li avrebbe correttamente chiamati Curzi) per parlare di vari problemi, microfono aperto per tutti, e un attivista più preparato di altri che dava la parola. Pare niente: un colpo di genio. Ha riconosciuto anche Bruno Vespa: “Arrivava un fax in redazione e Curzi gridava ‘la ggente ci scrive', arrivavano dieci fax e Curzi gridava al ‘popolo dei fax'. La piazza diventava il più importante soggetto politico italiano. Curzi si rivela un autentico genio della comunicazione politica”. C'è chi ci arriva avendo praticato, per dire, il Wall Street Journal e chi, invece, avendo bazzicato Pattuglia e Nuova generazione – e del resto, nel caso, lui pronto raccontava quello che gli diceva Togliatti: “I giornali devono essere cose diverse dal partito e anche dalla propaganda”.
Quando fu nominato nel consiglio di amministrazione della Rai, al Foglio inventammo una rubrica intitolata “Agenda Curzi” dove davamo conto, calcando sul romanesco del diretto interessato, di surreali appuntamenti, dalla rassegna sul neorealismo con Citto Maselli ai pratici consigli al compagno Bertinotti (“Ah segreta', guarda che a la vigna de li cojoni, tutti l'ucelli ce fanno er nido”) al racconto delle grandi fatiche televisive (“Me so' fatto 'n culo come 'n acchiappatopi”), e lui si divertiva tantissimo, e casomai Bruna, sua moglie, chiamava per far allegramente presente che il nostro romanesco zoppicava alquanto sulle doppie e sugli accenti.
Che poi, si potevano fare tutte le battute immaginabili, ma la realtà era lo stesso meravigliosamente popolare e netta. Così quando un gruppo di deficienti inviò, a lui e ad altri giornalisti, dei disegnini con sopra una bara con la croce, e scritte del genere “La pagherai” o “Sporchi comunisti”, commentò efficacemente: “Davanti a certe parole e disegni me so' grattato”. Poi, quando andavi a casa sua per una chiacchierata, tra risate e ricordi, allora ti invitava a scendere al piano di sotto, e ti apriva (da comunista sentimentale a comunista sentimentale) le porte del suo personale museo, dove emergevano berretti dell'Armata rossa, vecchi manifesti, materiale di antica propaganda, busti di personaggi politicamente fuori corso. Memoria, mica rimpianto. Era sempre una divertita kermesse, un ideale allestimento di una sezione del Pci tra anni Cinquanta e Sessanta.
“Me pare de capi'…”. Non era un nostalgico. Neppure del suo tiggitré, così che poche settimane fa, quando in redazione hanno protestato con uno spot non proprio felicissimo, perché dovevano cedere la serata alla Dandini, lui non è stato d'accordo e l'ha detto. Così come quando non ha votato, in consiglio di amministrazione, la cacciata del “nemico” Agostino Saccà, dopo le famose intercettazioni telefoniche. Perché il sentimento ti concede anche il gusto del color glicine e della risata, mentre la nostalgia pesa troppo e riproduce solo se stessa. Un giorno, dalla Camera a casa sua, abbiamo fatto una lunga passeggiata, e sempre lui diceva che forse bisognava scrivere un libro su quel partito che fu così carico di errori e così ricco di suggestioni. Chiacchiere sentimentali tra i Fori – e del resto, se quello lì non è Giorgio Amendola, pure se sta nella segreteria del partito, forse che è colpa nostra? Però ne ha fatti altri di libri, Sandro. Uno, “Il compagno scomodo”, una domenica mattina andammo a presentarlo insieme nella sezione (mica tanti anni fa, ma le sezioni non si chiamavano ancora circoli, che fa piuttosto circolo di compagnia) sotto casa.
Scomodo non so, sorprendente certo, il compagno Curzi. Come quando nel libro scriveva (e ai compagni spiegava): “Un altro giorno ancora ho incontrato Silvio Berlusconi, persona simpatica e affabile. Non mi è apparso come il diavolo, non ne ha nemmeno il physique du rôle, avete mai visto un diavolo in doppiopetto?”. Perché il sentimento verso certe storie è cosa seria, altroché, non casinismo organizzato, e persino la “ggente”, certe volte, comprende e apprezza. Sandro ha avuto la sua bella vita, “mi accorgo di quanto questo mestiere sia stato in fondo una cuccia calda per le mie idee e la mia morale”, le sue belle certezze, la sua sfottente ironia. Persino dalla radio bulgara, a comunismo finito e digerito, è stato intervistato. E sai le risate, quando Berlusconi, a talebani cacciati, si offrì di ricostruire la televisione afghana: la Telekabul reale che superava quella immaginaria. Me pare de capi', caro Sandro, che non ci si rivedrà alla buvette di Montecitorio – ma tanto hai visto ormai che noccioline? Se si va da qualche parte, tieni aperta la sezione. E attento a non dimenticare la pipa.
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