La guerra dell'America raccontata dalle viscere

Giulio Meotti

“Raccontare sempre il dolore degli altri”. E' questo il lavoro di Filkins. E infatti sono citazioni di Cormac McCarthy e Hermann Melville ad aprire il libro. Non è la storia di due guerre, ma la carne viva di due conflitti, “coraggio, caos, depravazione e morte” scrive Feith, storie di vittime e combattenti. Non è facile leggere il libro, ogni dieci pagine bisogna fermarsi, assuefatti all'odore di bruciato.

    La penna di Dexter Filkins in questi anni ha penetrato il cuore del terrore islamico. A incoronarlo sono ora i falchi dell'Amministrazione Bush. Il nuovo libro del corrispondente del New York Times, “A forever war” (Knopf), è stato elogiato da Douglas Feith come “modello di corrispondenza di guerra”. Feith è uno che stava dall'altra parte e che la guerra l'ha fatta come vice di Rumsfeld al Pentagono. “Volevo scrivere un libro non intellettuale, ma viscerale” dice Filkins. “Lo sapete che significa essere vicino a un'autobomba?”. Dice di aver imparato a Tel Aviv, “guardando gli ebrei ortodossi raccogliere ogni frammento dopo un attentato”. Filkins narra in prima persona, ma non scade mai nel genere avventure da reporter.

    “Raccontare sempre il dolore degli altri”. E' questo il lavoro di Filkins. E infatti sono citazioni di Cormac McCarthy e Hermann Melville ad aprire il libro. Non è la storia di due guerre, ma la carne viva di due conflitti, “coraggio, caos, depravazione e morte” scrive Feith, storie di vittime e combattenti. Non è facile leggere il libro, ogni dieci pagine bisogna fermarsi, assuefatti all'odore di bruciato. Filkins non è moralista come può esserlo Robert Fisk dell'Independent. Ha il passo del patologo, ci parla di un ragazzo afghano, Faiz Ahmad, “senza barba, diciassette anni, con il copricapo, il suo insegnante gli ha spiegato che ‘è scritto nel Corano di uccidere gli infedeli'”. E lui: “Non c'è fine al jihad, continueremo fino alla fine”. A Yacob Yusuf, Saddam ha annientato la famiglia. Un giorno un funzionario del Baath lo chiama per ritirare il corpo del fratello. “Sei fortunato, la maggior parte neanche riceve il corpo”. Yacob deve pagare i proiettili dell'esecuzione. “150 dinari”. Tariffario della morte.

    Secondo Newsweek, Filkins offende per i particolari che irrorano la sua scrittura. E' il suo merito, perché “l'astrattezza è nemica della verità”. Non è il razionalismo ad avvicinarci alla verità, ma il destarsi brutale delle emozioni che dormono nel profondo. Come il toccante ritratto di un padre giordano che mostra le foto del figlio suicida, si domanda come ha fatto “quel ragazzo che amava l'America e le ragazze in bikini di Santa Monica” a fare 166 morti a Hilla. I soccorritori usarono cassette di frutta per recuperarne i resti. Filkins incontra il padre dell'attentatore, Mansour, un disperato: “Per favore dica agli americani che noi li sosteniamo in Iraq”. E quel medico che spiega come “la democrazia ha rovinato il mio ospedale”. Rimpiange Saddam? “Mai, gli americani hanno fatto un gran lavoro con il tiranno”. Filkins racconta cosa significhi alzarsi con un boom. “All'inizio pensavo fosse un rituale dei kamikaze entrare in azione prima dell'alba. Poi ho realizzato: attaccavano quando c'era più gente per strada. E più corpi nell'esplosione”.

    Anche nelle pagine più brutali si respira compassione. Come per l'iracheno che si sarebbe vendicato dei terroristi: “Ashrab min damhum”. In arabo significa “berrò il loro sangue”. “Filkins ha un senso dell'assurdo fino al maniacale, ma non è cinico” spiega Feith. Il libro è un giacimento di storie. Quella di Wijdan al-Khuzai, laica che si muoveva senza scorta, finisce con un proiettile in faccia lungo una strada. “Ogni volta che la prospettiva della normalità si affacciava, una fila di iracheni rispondeva” scrive Filkins. “Giornalisti, pamphlettisti, giudici e poliziotti. Sono andati a morire. Cuore della nazione”. Nemmeno i soldati sono statistica da macelleria. Parlano del loro patriottismo. Come Abdul Hamza, gendarme a Diwaniya. “Ogni mattina mi alzo per servire con passione il mio paese”. Questo libro ha il merito di onorare il sacrificio di decine di migliaia di iracheni. “Il parco di fronte alla casa dove ho abitato, sul Tigri, era un posto morto, morente, spettrale. Oggi è pieno di famiglie con bambini e donne che camminano anche di notte. Inconcepibile nel 2006”.

    • Giulio Meotti
    • Giulio Meotti è giornalista de «Il Foglio» dal 2003. È autore di numerosi libri, fra cui Non smetteremo di danzare. Le storie mai raccontate dei martiri di Israele (Premio Capalbio); Hanno ucciso Charlie Hebdo; La fine dell’Europa (Premio Capri); Israele. L’ultimo Stato europeo; Il suicidio della cultura occidentale; La tomba di Dio; Notre Dame brucia; L’Ultimo Papa d’Occidente? e L’Europa senza ebrei.