La grande petroliera s'è rotta
Arrivano i russi in Venezuela, a cementare il legame che dovrebbe collegare per un lungo futuro la nuova Russia al regime bolivariano. Ma il risultato pur abbastanza pareggiato delle amministrative di domenica lascia intravedere come questo futuro potrebbe anche non esserci. Nel contempo, è anche una flotta russa composta dall'incrociatore nucleare Pietro il Grande, da un cacciatorpediniere lanciamissili e da due navi appoggio.
Arrivano i russi in Venezuela, a cementare il legame che dovrebbe collegare per un lungo futuro la nuova Russia al regime bolivariano. Ma il risultato pur abbastanza pareggiato delle amministrative di domenica lascia intravedere come questo futuro potrebbe anche non esserci. Inizia oggi la visita a Caracas di Dmitri Medvedev. Il capo del Cremlino arriva innanzitutto a concludere nuove vendite di carri armati Bmp3, Mpr e T-72. Dopo i quattro miliardi di dollari in radar, aerei, kalashnikov e navi che Chávez ha già comprato dai russi tra il 2005 e il 2007, la Repubblica bolivariana ha infatti deciso di stanziare per il 2009 il 5,3 per cento del bilancio statale e l'1,3 per cento del pil per “comprare armi a Russia, Cina e Bielorussia”, come ha spiegato senza troppi giri di parole il responsabile del Comando strategico operativo delle Forze armate venezuelane, generale Jesús González. Ma si parla poi pure delle creazione di un'alleanza strategica tra la società statale venezuelana Pdvsa e un consorzio tra le principali omologhe russe: Rosneft, Lukoil, TNK-BP, Surguneftgaz e Gazprom. E anche di un accordo di cooperazione nucleare.
Nel contempo, è arrivata nelle acque territoriali venezuelane anche una flotta russa composta dall'incrociatore nucleare Pietro il Grande, da un cacciatorpediniere lanciamissili e da due navi appoggio, per esercitazioni militari congiunte che si propongono di lanciare un segnale preciso agli Stati Uniti, pure se la mancanza tra le unità russe di una copertura aerea è nel contempo, da parte di Mosca, un messaggio rassicurante. Come a dire: ci avete fatto arrabbiare e vi veniamo a rompere le scatole nel vostro cortile di casa; ma sappiamo bene che non dobbiamo spingerci oltre un certo punto: vi mandiamo dunque una squadra che in una guerra vera i vostri aerei farebbero a pezzi subito, e che dunque non è una vera minaccia militare. D'altra parte, il viaggio di Medvedev passa per il Venezuela e poi per Cuba, dopo una prima tappa a Lima in un vertice Apec in cui americani e russi si sono parlati direttamente. Un messaggio rassicurante l'ha dato pure Raúl Castro, che a sua volta sta per andare in Venezuela, e che ha promesso di non voler ospitare a Cuba né aerei né missili in condizione di minacciare gli Stati Uniti. Insomma, anche lui con Medvedev sarebbe propenso soprattutto a parlare di petrolio, con l'interesse delle imprese russe per i possibili giacimenti off-shore cubani.
Il petrolio caro, però, in questo momento è ormai fuori mercato: sia quello off-shore cubano sia quello “pesante” della Fascia dell'Orinoco venezuelana. Anzi, le imprese russe rischiano addirittura di dover abbandonare i giacimenti del Mar Bianco. Il prezzo del greggio venezuelano, ormai precipitato sotto i 40 dollari il barile, rischia anzi di mettere in crisi lo stesso regime di Chávez, anche se lui ricorda di essere andato al potere “quando il prezzo era a sette dollari”. Ma il bilancio di previsione adottato dall'Assemblea nazionale era basato su un'ipotesi di 64 dollari, e il greggio rappresenta il 65 per cento delle entrate venezuelane. Verranno inoltre meno i 150-200 milioni di dollari alla settimana che il governo acquisiva grazie a un'imposta speciale alle entrate petrolifere che sarebbe scattata oltre i 70 dollari.
Un altro problema è costituito dal crescente logorio dell'apparato petrolifero venezuelano, per le grandi somme che la Pdvsa ha dovuto dirottare dalla manutenzione alla creazione del consenso interno ed esterno, oltre che per la sostituzione massiccia di tecnici ideologicamente non allineati con personale fidato, ma non preparato: ben 11.500 pozzi fuori uso su 32 mila. Fatti quattro conti: sono 105 mila i barili di petrolio che Chávez invia ogni giorno a Cuba, e altri 195 mila che dà a Nicaragua, Guatemala, Repubblica Dominicana, Argentina, Uruguay e Bolivia. Tutti regalati o a prezzo politici. Alla Cina vanno 80 mila barili al giorno, per coprire un credito da 4 miliardi di dollari. Al Giappone altri 40 mila, in cambio di un prestito da 3 miliardi. Con Chevron, Total, Eni e Repsol vi sono accordi che impongono di lasciar loro 380 mila barili al giorno. Insomma, quel che resta a Chávez di redditizio da rivendere agli Stati Uniti è di appena un milione di barili al giorno: a 40 dollari al barile farebbero 14,6 miliardi, che è appena poco più dei 10-12 miliardi di debito interno pubblico e privato. Come finanziare i 50 miliardi di import all'anno, che al Venezuela servono per sopravvivere, è un bolivarianissimo rebus.
In più, c'è l'inflazione oltre il 30 per cento, e un livello di criminalità che è ormai il peggiore dell'America Latina. Date queste premesse, e ricordando pure la sconfitta al referendum costituzionale dell'anno scorso, Chávez non è andato affatto male al voto di domenica. Partiva infatti con 16 governatori su 22, visto che 4 dei 20 governatori conquistati dalla sua coalizione nel 2004 erano poi passati all'opposizione, proprio per dissensi su quel progetto di riforma che gli avrebbe consentito di ricandidarsi a ripetizione e che poi l'elettorato ha bocciato. E molte analisi avevano individuato come un settore in crescita quello degli ex chávisti, potenziale terza forza decisiva tra chávisti e antichávisti. Tra questi la stessa ex moglie divorziata di Chávez, Marisabel Oropeza Rodríguez, che si era candidata a sindaco di Barquisimeto, quarta città del paese. Ma è andata malissimo: appena l'1,97 per cento dei voti, contro il 55,21 del candidato di governo e il 41,38 per cento di quelle dell'opposizione. Più in generale, la pretesa terza forza si è squagliata, e i chávisti hanno riguadagnato tutti e quattro gli stati dei governatori “traditori”: Trujillo, Aragua, Guárico e Sucre. Bilancio totale: da 16 governatori sono saliti a 17.
Eppure, malgrado l'alleata stampa cubana salutasse la “vittoria di Chávez”, le facce dei chávisti nelle sedi dei comandi elettorali erano scure, e lo stesso Chávez al momento di parlare ha pensato per una volta di non arrampicarsi sugli specchi, ma di riconoscere i successi dell'opposizione. “Dimostra che non sono un tiranno”, ha detto. Perché è vero che l'opposizione ha conquistato soltanto cinque stati, più il cosiddetto “Distretto Capitale”. Ma tra queste sei entità ci sono le quattro più popolose del Venezuela. Zulia, lo stato della seconda città Maracaibo: già in mano all'opposizione, e cassaforte petrolifera del paese. Miranda: grande hinterland della capitale Caracas. Carabobo, lo stato della terza città Valencia: cuore industriale del Venezuela. E il “Distretto Capitale” della stessa Caracas. L'opposizione ha poi confermato Nueva Esparta, lo stato del paradiso turistico dell'isola di Margarita. E ha conquistato lo stato andino di Táchira, al confine con la Colombia. Lì con la connivenza del governo venezuelano sono sfollati in massa i resti delle Farc, per sfuggire alle offensive d'annientamento dell'esercito di Bogotá. Ma la gente è esasperata per le loro prepotenze, e ha dunque mandato un chiaro segnale di protesta.
Dopo che era sembrato a lungo in bilico Chávez ha invece salvato il natio stato di Barinas, dove al posto di suo padre Hugo de los Reyes è diventato governatore il suo fratello maggiore Adán. In particolare, sembrano aver funzionato a contenere le perdite i comizi a catena che Chávez ha fatto, e anche nuovi faraonici stanziamenti clientelari. Assolutamente controproducenti invece le minacce di “tagliare i fondi” alle comunità che avessero votato per l'opposizione e di “mandare i carri armati” in caso di “vittoria dell'oligarchia” a Zulia e Carabobo. Se ne deve essere reso conto anche lui, perché si poi è congratulato con i vincitori, invitandoli a “cooperare” col governo nell'interesse del popolo.
Mentre i chávisti facevano le facce lunghe gli antichávisti festeggiavano: specie per quella vittoria nella capitale di cui si erano detti sicuri, ma di cui si è ora capito che in fondo non ci credevano troppo. Vista dall'esterno, però, la situazione è più correttamente di un pareggio: certo, più nel campo dello stesso Chávez che in trasferta. L'opposizione, comunque, in base a questi dati difficilmente si arrischierà a tentare una nuova raccolta di firme per un referendum revocatorio tipo quello del 2004: in teoria dal 2009 sarebbe possibile, ma una vittoria pur di misura di Chávez comporterebbe il rischio di restituirgli smalto. D'altra parte, anche Chávez aspettava questo risultato per capire se poteva arrischiarsi a rimediare alla sconfitta referendaria tentando una riforma costituzionale per la rielezione attraverso qualche altra strada: per esempio, una proposta di legge in Assemblea nazionale. I numeri li avrebbe, ma soltanto una sicura vittoria a queste amministrative gliene avrebbe dato un'autorizzazione morale a farlo. E questa autorizzazione, evidentemente, non è venuta.
Insomma, dovrebbe essere tutto rinviato per lo meno alle politiche del 2010. Se Chávez per allora riesce a ottenere un plebiscito come quelli del suo periodo d'oro, i due anni residui potrebbero bastargli per imporre una qualche riforma che gli consenta di ricandidarsi nel 2012. Se no, dovrà cercarsi un successore. Il problema è che tutti e tre i suoi delfini in pectore in queste elezioni si sono screditati con disfatte umilianti. Diosdado Cabello, che dopo essere stato suo compagno di golpe, vicepresidente e ministro era diventato governatore di Miranda, ha appunto mancato la riconferma, prendendo soltanto il 46,64 per cento dei voti contro il 52,56 di Henrique Capriles Radonski, un leader del partito di centro-destra Primero Justicia. Aristóbulo Istúriz, il ministro dell'Educazione protagonista della cosiddetta “Missione Robinson” di alfabetizzazione alla cubana, si è fermato solo al 44,92 per cento nella corsa per l'“Alcaldía Mayor” di Caracas, contro il 52,45 di Antonio Ledezma, fondatore del partito socialdemocratico Alianza Bravo Pueblo. E Jesse Chacón, altro protagonista del golpe del 1992 ed ex ministro dell'Interno e della Giustizia, è stato sconfitto nella candidatura a sindaco della città di Sucre: 43 per cento contro il 55 di Carlos Ocariz, anche lui di Primero Justicia.
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