Leggendo il decreto anticrisi

Tremonti mercatista liberista

Francesco Forte

Leggendo il decreto anticrisi del governo si scopre che il ministro Giulio Tremonti, l'antimercatista, è molto più liberale o liberista dei suoi colleghi degli altri stati europei e perfino dei professori Alberto Alesina e Francesco Giavazzi, in costante polemica con l'antimercatismo tremontiano.

    Leggendo il decreto anticrisi del governo si scopre che il ministro Giulio Tremonti, l'antimercatista, è molto più liberale o liberista dei suoi colleghi degli altri stati europei e perfino dei professori Alberto Alesina e Francesco Giavazzi, in costante polemica con l'antimercatismo tremontiano. La linea Tremonti di questo decreto è più coerente con l'economia sociale di mercato neoliberale di Einaudi e Ropke (e con l'economia di mercato “sociale” di Vanoni) anche rispetto alle tesi di Mario Monti, che si autodefinisce paladino dell'economia sociale di mercato. Infatti il decreto mobilita 80 miliardi di impulso all'economia, ma costa solo 6 miliardi di euro, lo 0,4 per cento del pil. Non rilancia l'economia mediante il metodo keynesiano d'espansione della domanda con il deficit fiscale. Monti aveva sostenuto che ogni governo europeo deve fare un deficit aggiuntivo dell'1 per cento del pil, abbattendo l'Iva in misura indifferenziata per incrementare la domanda globale. L'economia sociale di mercato di Einaudi e Ropke non vuole che la politica anticrisi sia fatta con la fiscal policy keynesiana o neokeynesiana. Ma neppure Vanoni, fautore di un'economia di mercato sociale orientata allo sviluppo dell'occupazione e del reddito e alla riduzione degli squilibri sociali e territoriali prescriveva il deficit di bilancio come terapia strutturale o congiunturale. Accettava i deficit soltanto per gli investimenti del governo ai fini dello sviluppo.

    Il decreto tremontiano destina buona parte della nuova spesa pubblica corrente ai bonus per otto milioni di famiglie a basso reddito e a sostegni di reddito ai lavoratori cosiddetti precari. Queste due misure, apparentemente keynesiane, in quanto le famiglie e i precari aiutati utilizzeranno tali modeste somme di denaro per consumi, in realtà sono tipicamente neoliberali. Si collegano alla tesi per cui le crisi fanno parte del sistema di mercato. Vanno mitigate negli aspetti sociali e in quelli economici più dirompenti, ma devono avere il loro corso, affinché operi la concorrenza, correggendo gli errori compiuti dagli operatori e dai governi. Per altro, perché ciò possa accadere, occorre che i meno favoriti siano tutelati, onde evitare che la selezione del mercato si trasformi in inumana selezione darwiniana dei più deboli socialmente, che di tali errori non hanno colpa. Ma gli interventi sociali vanno moderati (Epifani ascolti, posto che gli interessi l'economia sociale di mercato e quella di mercato sociale) per evitare di premiare l'irresponsabilità e di anteporre, entro i limiti del bilancio, il consumo all'investimento, cioè l'uovo oggi alla gallina domani.

    Mentre il decreto mobilita 1,3 miliardi di spese pubbliche di investimento, già stanziati, nello stesso tempo ricapitalizza le banche, che lo vogliono, con obbligazioni perpetue, non con partecipazioni al loro capitale. Lo stato non entra nelle banche, diventando partecipe dei profitti e delle perdite, come ha teorizzato una schiera di economisti che ritengono ciò compatibile con il loro liberismo o mercatismo. Così il contribuente presta soldi a interesse, non li azzarda nella roulette con il nero degli affari e il rosso della politica. E i banchieri che ottengono questi soldi sottoscrivono un codice etico – non un impegno legale – a evitare prebende troppo alte e a dedicare le risorse aggiuntive così rese possibili a impieghi nell'economia. Lo stato non si fa etico, stravolgendo criteri di mercato. Raccomanda ai banchieri che prendono soldi pubblici di comportarsi correttamente, nell'ambito di principi economici, perché la pubblica opinione li giudicherà. E mi auguro che a ciò ci si attenga.