Parla il politologo (di destra) Campi
Perché la sinistra ha fallito puntando sul tricolore di Ciampi
La scoperta di una nuova prospettiva politica per la sinistra, costruita sul federalismo. O forse una resa incondizionata, una Caporetto intellettuale. Sull'Unità di martedì, in una lunga intervista, Massimo Cacciari ha fatto cadere uno dopo l'altro i bastioni dello stato unitario attorno a cui si è arroccata per quindici anni buoni la difesa della sinistra italiana.
La scoperta di una nuova prospettiva politica per la sinistra, costruita sul federalismo. O forse una resa incondizionata, una Caporetto intellettuale di fronte al trionfante pensiero leghista. In ogni caso, un gesto di revisionismo storico quasi violento. Sull'Unità di martedì, in una lunga intervista, Massimo Cacciari ha fatto cadere uno dopo l'altro i bastioni dello stato unitario attorno a cui si è arroccata per quindici anni buoni la difesa della sinistra italiana. Il sindaco-filosofo di Venezia ha detto che “il Risorgimento ha prodotto un disastro, era evidente che avevano ragione i federalisti di allora”.
Che “l'Italia andava costruita come uno stato federale, sulla base di quelle macroaree che ereditavano una storia secolare”. E che “ancora oggi, c'è poco da fare, esiste un'area sabauda, l'area lombardoveneta, lo stato pontificio e il Regno delle Due Sicilie. Avevano ragione Gioberti e Cattaneo. E Venezia doveva rimanere un Land autonomo proprio come Amburgo”. Il tutto sull'Unità, il giornale che da organo del Pci-Pds prima e dei Ds-Pd poi lungo tutta la Seconda Repubblica s'era fatto un punto d'onore di essere baluardo dell'Unità nazionale contro “il cancro della disgregazione” rappresentato dalla Lega. La radicale revisione storica, a Cacciari, serve ovviamente come strumento per propugnare la necessità (anzi l'urgenza, pena il “massacro politico”) di ripensare il Partito democratico su basi completamente federaliste, come un insieme di partiti a base territoriale autonomi nelle scelte e nelle alleanze, “esattamente come la Dc bavarese rispetto alla Cdu o i socialisti catalani rispetto al Ps spagnolo”.
Ma ovviamente non solo di questo – di battaglia politica interna, di visione del partito e di coordinamenti vari – si tratta. Le parole del filosofo vanno più a fondo, nel loro tentativo di creare un disordine nuovo nella cultura politica della sinistra. E da questo punto di vista, commenta Alessandro Campi, politologo e direttore scientifico della finiana fondazione Fare Futuro, il segnale culturale rappresentato dall'intervista del sindaco di Venezia è in effetti forte: “Innanzitutto per il luogo scelto, l'Unità appunto”. Ma anche perché, pur dettate da necessità politica, le idee espresse da Cacciari “non rientrano, se non marginalmente, nella cultura politica della sinistra. Certo, è vero che esiste qualche filone di pensiero ‘eretico' rispetto alla questione nazionale, e che soprattutto c'è il filone della critica gramsciana al Risorgimento, definito come la ‘rivoluzione mancata'. Del resto esiste anche la tradizione dell'austromarxismo alla Otto Bauer, una corrente di pensiero attenta a conciliare le istanze marxiste all'interno di un impianto sopranazionale come quello dell'impero. Un filone di pensiero che Cacciari ovviamente conosce bene”.
Ma le parole del sindaco di Venezia, che appaiono come la punta avanzata del dibattito in corso nel Pd nordista e cambiano il tipo di risposta alla sfida ormai pluridecennale posta dalla cultura federalista della Lega. In quale direzione? Negli anni più recenti il tentativo di opporsi alla cultura politica leghista che di fatto nega l'esistenza stessa dello stato unitario – l'Italia errore storico, insomma, come dice oggi anche Cacciari – è avvenuto secondo Campi lungo tre direttrici, tutte inadeguate, e su registri deboli.
Partendo da destra, zona più funzionale a Campi, “alla Lega si è opposto in sostanza il tradizionale approccio patriottico-retorico, da ‘custodi dell'unità della patria”, ma senza troppa efficacia. Ma soprattutto, a fare da collante nazionale in grado di inglobare la sinistra c'è stato “quello che si può definire il ‘patriottismo costituzionale', formalistico, incarnato dai richiami alla retorica del tricolore e dell'inno nazionale tipici del settennato di Carlo Azeglio Ciampi – e della dismisura moralistica di Oscar Luigi Scalfaro, ndr – che nella sua tradizione laica ha spinto verso una sorta di ‘patriottismo delle regole' come valore condiviso”. Ad esso gli eredi del Pci si sono aggrappati fino quasi a identificarsi, miscelandolo inoltre con il terzo tipo di opposizione al leghismo individuato da Campi: “Il tentativo di radicarsi in un europeismo di maniera, generico, di cui il massimo esponente oggi è forse Giorgio Napolitano”. Per il resto, la sinistra non ha mai avuto un pensiero politico forte, una cultura dello stato nazionale adeguata da opporre alla visione suggestiva e di forte impatto, comunque la si voglia giudicare, del leghismo.
Ora le parole di Cacciari invitano a un cambio di prospettiva: “Ma mi sembra più una resa politica che altro”, obietta Campi: “In sostanza, il Pci aveva fatto un lungo percorso per affermarsi, forse unico caso tra i partiti comunisti europei, come un vero partito nazionale”. A questo proposito, ricorrendo alla suggestione di un'immagine sintetica, Campi ricorda che “la parte della classe dirigente comunista che più ha contribuito in questa impresa di fondazione di un partito statual-nazionale è una classe dirigente in larga parte ‘sabauda', se non per anagrafe, almeno per formazione e radicamento geografico, da Gramsci a Togliatti a Longo, fino a Occhetto o Fassino. E ora è significativo che sia proprio il sindaco di Torino, Sergio Chiamparino, a tentare di liquidare dall'interno quella tradizione nazionale”. La critica dei Chiamparino e dei Cacciari, obiettiamo, va però alla radice, al tema delle differenze culturali e territoriali dell'Italia: “E' vero che Gramsci aveva criticato il Risorgimento – risponde Campi – denunciandolo come un'operazione d'élite che aveva escluso amplissimi ceti popolari. Ma la risposta organica data da lui e dal Pci fu esattamente l'opposto di quella che viene indicata oggi: fu quella di integrare le masse nel nuovo stato repubblicano, in questo in sostanziale continuità con il tentativo del fascismo di integrarle nello stato unitario. E, sostanzialmente, in modo non molto diverso da quello che provò a fare la Dc. Ora invece Cacciari, nell'ansia di recuperare su un terreno che smotta sotto l'urto ormai decennale leghista, finisce per prendere la strada opposta a quella della tradizione della sinistra: se lo stato unitario ha fallito, lo si abbandoni”.
E per il politologo che osserva il fenomeno dall'altra sponda della politica questa non è la soluzione giusta, nemmeno per la sinistra. “Bisognerebbe riflettere anche sul fatto che i grandi partiti repubblicani erano sì partiti nazionali, anzi molto romanocentrici, ma allo stesso tempo non hanno mai avuto un problema – o almeno non in termini così devastanti come li ha adesso il Pd – di rappresentanza locale, di capacità di interpretare le istanze territoriali. Anzi, per quanto centralisti, questo vale soprattutto per il Pci, sapevano esprimere una classe dirigente ben radicata sul territorio, capace di rappresentarlo con le sue caratteristiche. Roma era la camera di compensazione per partiti che erano fortemente locali. Le due cose non sono in contraddizione. Forse allora, il problema del Pd di oggi – ma una certa misura anche per il Pdl – è la mancanza di una cultura politica propria, e di una struttura organizzativa adeguata. In fondo, bisogna dire anche che Cacciari la butta un po' troppo sulla storia per non affrontare un problena di natura politica”. Resta il merito di aver aperto il dibattito, rompendo con una sorta di tabù sempre meno difendibile.
Ma alla sinistra (come anche alla destra), secondo Campi continua a mancare una cultura politica adeguata alla sfida reale posta dal pensiero leghista. A un certo punto, il pensiero di Cacciari sembra evocare il modello delle macroregioni di cui aveva parlato quasi vent'anni fa il politologo e teorico del federalismo Gianfranco Miglio, che muovendosi dall'area illuminista-cattolica era stato uno degli interlocutori più forti dell'establishment nordista, prima di legarsi a Umberto Bossi. Ma Campi, che al politologo comasco ha dedicato attenzione, non ne vede oggi un possibile utilizzo sulla strada evocata da Cacciari: “Quello di Miglio era stato un tentativo da raffinato intellettuale, un'architettura costituzionale: attraverso le macroregioni, Miglio immaginava una Italia ‘cantonale' sul modello elvetico. Molto ipotetica, teorica”.
La fotografia sociale ed economica del nordest scattata da Cacciari è però nitida: il nord, ha detto, “è rappresentativo di qualche decina di milioni di abitanti, come dire il Belgio e l'Olanda messi assieme e moltiplicati per due”. “Produciamo il 60 per cento del prodotto lordo manifatturiero, ci rendiamo conto? Se questo fosse uno stato a sé sarebbe di gran lunga il primo d'Europa per crescita del prodotto lordo a livello di esportazione”. Ma Campi avverte: “In tutti i grandi stati nazionali esistono asimmetrie di sistema e disparità economiche. E' un problema di governo e amministrazione. Dire per questo che lo stato unitario è fallito è una cosa diversa”.
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