Diario di due economisti - Anticipazione dal Foglio di venerdì 5 dicembre
Le sorprese di Obama e l'hubris di Krugman
L'euforia che aveva elettrizzato il trasversale universo antiliberista all'indomani del crollo finanziario americano e del trionfo di Obama si è alquanto sgonfiata. Le recenti “nomine” del presidente eletto hanno ridimensionato certe aspettative da un lato e l'altro dell'Atlantico.
L'euforia che aveva elettrizzato il trasversale universo antiliberista all'indomani del crollo finanziario americano e del trionfo di Obama si è alquanto sgonfiata. Le recenti “nomine” del presidente eletto hanno ridimensionato certe aspettative da un lato e l'altro dell'Atlantico. C'è disappunto sia tra i liberal americani sia tra chi in Europa si era preparato a rifondare l'ordine finanziario globale con grandiose (e asimmetriche) architetture. Il “laissez faire c'est fini!” di Nicolas Sarkozy come premessa di una nuova Bretton Woods, di un contenimento protezionistico dell'Asia e un ritorno alla centralità geopolitica dell'Europa.
La squadra di Obama è fatta di “clintoniani navigati” (Massimo Gaggi, Corriere Economia, 1 dicembre), un “inedito sodalizio di residui bushiani e clintoniani per lo più di scuola realista” (Mattia Ferraresi, il Foglio, 4 dicembre). Come Bill Richardson, governatore del New Mexico e pupillo di Clinton, che è l'ultima scelta di Obama. Richardson, che guiderà il dipartimento del Commercio, è un sostenitore fiero del “free trade”. Queste scelte sono uno schiaffo all'America di sinistra, movimentista e radical. E non solo, a giudicare dall'attivismo prokeynesiano con il quale Paul Krugman, autonominatosi “coscienza liberal” dell'America, sta inondando il suo blog. La martellante tesi di Krugman è semplice. Nelle condizioni attuali l'America ha bisogno e in fretta di una sola cosa: una dose equina di stimolo fiscale. Krugman non ha chiarito se per caso sia meglio abbassare le tasse o aumentare la spesa, se vada bene nazionalizzare GM o aiutare le famiglie, se gli investimenti pubblici devono essere in energie rinnovabili o in autostrade, ha solo insistito che lo stimolo deve essere grande e in deficit.
Sono dettagli che non lo sfiorano: per lui l'America si trova in una keynesiana trappola della liquidità che rende la politica monetaria impotente e la politica fiscale l'unica risposta. Ma questi sono dettagli che dovrebbero interessarlo. E che interessano ad esempio uno come Greg Mankiw. Mankiw, che insegna a Havard e ha scritto uno dei manuali di macroeconomia più popolari del mondo, nel 2003 fu nominato da Bush a capo del Council of Economic Advisors. Mankiw è uno dei principali neokeynesiani in circolazione, uno di quelli che ha contribuito a dotare la teoria di Keynes di quei fondamenti microeconomici la cui mancanza era una delle critiche principali dei detrattori. Nel modello neokeynesiano con “prezzi fissi” la politica monetaria risulta in grado di stabilizzare il prodotto, e quindi è utile per affrontare le recessioni. Ma questi neokeynesiani sono stati sempre piuttosto scettici sulla politica fiscale. E' interessante come Mankiw affronta l'argomento nel suo blog (http://gregmankiw.blogspot.com). Senza le certezze di Krugman, giacché secondo Mankiw la politica fiscale resta un “puzzle”, che dovrebbe dissuadere dall'usare l'apparato keynesiano anche nelle straordinarie condizioni economiche che abbiamo di fronte. E nonostante sia stato “educato a vedere gli effetti di breve periodo della politica fiscale attraverso le lenti della teoria macroeconomica di Keynes”.
Non solo lui: si tratta della stessa struttura concettuale condivisa da molti degli economisti della nuova Amministrazione Obama, come Larry Summers, Christina Romer e Jason Furman. Anche tra i keynesiani moderni gli effetti di breve periodo della politica fiscale sono oggetto di discussione. La verità è che il ciclo economico resta un argomento sul quale la teoria macroeconomica non ha detto l'ultima parola e ogni economista che gli si accosta dovrebbe farlo con umiltà. Non con la hubris di Krugman. Quei dettagli che a lui non interessano possono dimostrarsi decisivi. Come ad esempio il dettaglio che un taglio delle tasse finanziato in deficit potrebbe essere la migliore politica fiscale, mentre un aumento della spesa sarebbe scarsamente efficace, e in più spiazzerebbe gli investimenti privati ma senza far aumentare i tassi d'interesse.
Tutti dettagli, emersi nella letteratura empirica recente, che falsificano il modello keynesiano standard. Certo questa è roba per iniziati, per i cultori dei test econometrici. Ci sono però anche i più accessibili test della storia. Come la Grande depressione. Che fu speciale non solo per la durata e la dimensione della caduta dell'attività, ma anche perché la ripresa fu lenta e fiacca. Una cosa che nessuna teoria standard del ciclo, compresa quella keynesiana, è in grado di spiegare. Lo choc fiscale in deficit del New Deal non si dimostrò quel farmaco portentoso di cui vagheggia Krugman. Il quale ha ragione su una cosa: “Nel lungo periodo Keynes è tutt'altro che morto”. E' vero, ma non per le ragioni che lui adduce. Piuttosto per aver anticipato di 25 anni la moderna teoria della crescita economica in “Economic possibilities for our grandchildren” (1930). Una teoria secondo la quale, tra l'altro, deficit e aumenti di tasse ritardano la crescita. Nel lungo periodo.
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