L'ULTIMO MIGLIO DEL PD

Alessandro Giuli

Patriota del federalismo, Massimo Cacciari vuole rifare il Risorgimento. Quello storico non ha funzionato, bisogna tornare a Carlo Cattaneo e Vincenzo Gioberti, come ha detto di recente sull'Unità. Il Partito democratico del nord c'entra e non c'entra. Prima bisogna liberarsi di una minorità culturale a base centralista e avvicinare con operosità quel feticcio mineralizzato chiamato Costituzione italiana.

    Patriota del federalismo, Massimo Cacciari vuole rifare il Risorgimento. Quello storico non ha funzionato, bisogna tornare a Carlo Cattaneo e Vincenzo Gioberti, come ha detto di recente sull'Unità. Il Partito democratico del nord c'entra e non c'entra. Prima bisogna liberarsi di una minorità culturale a base centralista e avvicinare con operosità quel feticcio mineralizzato chiamato Costituzione italiana: senza revisionismi sui diritti civili e sulle conquiste del lavoro, ma senza paura di svellere la bandiera pluriventennale della retorica tardoazionista per imbracciare il realismo di Machiavelli, secondo il quale una città che cristallizza la propria Costituzione è destinata a rovina certa.
    Detto da sinistra, detto da un filosofo che amministra la città di Daniele Manin, detto da Venezia di cui Cacciari è al tempo stesso sindaco, Doge e maschera umbratile, detto con l'intenzione di superare la Lega quanto a coscienza cisalpina, il proclama travalica la provocazione. E in superficie promana un che di preunitario, asburgico perfino, troppo rarefatto per essere ascoltato dai veltroniani. Invece quella di Cacciari è un'idea potente e va incalzata.
    “Non sarà un caso se da anni si sta tutti discutendo sulla riforma in senso federalistico della Costituzione. Vuol dire che, se vi era un'ispirazione genericamente risorgimentale e unitaria nella Costituzione, questi tentativi di riforma rivelano la coscienza che quella ispirazione bisogna correggerla. Non è che io dica ‘prendiamo la Carta e buttiamola a mare' sui temi del lavoro e dei diritti della persona, dico che la Costituzione deve tener fermo un dato. La grande scommessa dell'unità nazionale, la creazione di un'unità culturale, sociale ed economica omogenea dalle Alpi al Lilibeo, non è stata vinta. Non è un'intuizione di Cacciari che non esista soltanto una questione meridionale; che si sia affacciata sulla scena una questione settentrionale; che i differenziali fra alcune regioni del nord e alcune regioni del sud, lungi dall'attenuarsi, vanno esplodendo.
    Ora, ci dobbiamo chiedere: questo dipende da qualche errore, da qualche incapacità di dettaglio da parte di questo o quell'altro politico, di questo o quell'altro governo, o forse ha anche radici più profonde nel modo in cui è andato formandosi lo stato unitario italiano? Dopo tante ricerche storiche sul Risorgimento, che ne hanno messo in crisi definitivamente le mitologie, e visto che siamo o dovremmo essere impegnati in un percorso di riforma costituzionale, io credo sia giunto il momento di affrontarlo con un po' di respiro storico e non soltanto per mettere mano a questa o a quella leggina”. Può sembrare una circumnavigazione intorno ai fondamentali del leghismo alfabetizzato, ma è di più. “Questi elementi che generano fenomeni nuovi e per certi aspetti tra virgolette positivi, come il leghismo, ci dovrebbero indurre a rivedere dei giudizi ormai superati e di carattere non più scientifico ma mitologico su come si è formato lo stato unitario. Tutto qua, ma non è poco”.

    Da Calamandrei a Miglio
    Tutt'altro. A Cacciari si può muovere l'obiezione di veleggiare verso un assetto preunitario.
    “La mia è ovviamente una provocazione. Non sarà un caso che le grandi ripartizioni, anche dal punto di vista dei comportamenti culturali e politici, siano rimaste le stesse. Non c'è dubbio che, quanto a omogeneità, nel nord si delineino due aree – come dimostra l'insediamento di certe forze politiche – il regno sabaudo e il Lombardo-Veneto. Nella storia ci sono delle onde lunghe. Le onde lunghe del nostro paese sono le città, che hanno ancora una loro configurazione e identità che a volte affonda nel medioevo; sono le loro reti, quelle che partono dalle città e non quelle in cui sono conglobate; sono non tanto le regioni, che come diceva Calamandrei rappresentano dei “catafalchi” e molte volte sono totalmente inventate, ma le macroregioni, sì, come diceva Miglio. E se andiamo a fare un discorso di macroregioni vediamo che queste grosso modo, con opportuni accorgimenti, possono ricalcare la situazione preunitaria. Non c'è nessuna nostalgia per come erano governate queste macroregioni nella fase preunitaria, ma non è casuale che ancora oggi ricalchino quella configurazione. Anche nelle regioni meridionali, come testimoniano ricerche scientifiche, prima dell'unità erano in atto profondi processi di trasformazione. Avrebbero potuto dare esiti positivi? Può darsi, certamente l'organizzazione unitaria dello stato ha bloccato quei processi, non li ha aiutati. Dal punto di vista storiografico questo ormai è passato in giudicato, non se lo inventa Cacciari”.

    Prima di toccare la figura di Miglio, la riflessione di Cacciari già s'inserisce in una scia di pensiero nobilissima: il Vincenzo Cuoco alle prese con la rivoluzione fallita del 1799, il Gramsci che riprende con esattezza le espressioni del Cuoco proiettandole sulla realtà del secolo successivo per lamentare il bisogno di partecipare alle masse quel che, bon gré mal gré, è stato l'esito risorgimentale. Lo stesso Cattaneo era un illuminista lombardo-veneto che ammirava gli Asburgo, ma nelle cinque giornate del 1848 li combatté come un oplita dicendo: “Tratteremo con loro solo a guerra vinta”. Gioberti era un presule che vagheggiava una federazione di principati guidati dallo stato pontificio e fondata sulla continuità del primato civile e morale degli italiani dalla preistoria ai giorni suoi. Quello di Cattaneo e Gioberti era un patriottismo di segno diverso, perché critico verso il metodo e il risultato del processo risorgimentale, ma c'era in loro un patriottismo di sottofondo che si avvertiva comunque.
    “Ha perfettamente ragione. E' esattamente questa la mia impostazione”.
    Si può definirla “patriottismo federale”.
    “Assolutissimamente sì. Il discorso federale è un discorso per l'Italia. Un'Italia così divisa, così frammentata, così percorsa da pulsioni e istinti secessionistici da tutte le parti può essere salvata soltanto all'interno di una struttura federale. Questa era l'idea forte di Cattaneo e Gioberti. Certo Gioberti non s'è reso conto che uno degli impedimenti per lo stato unitario federale era proprio lo stato della chiesa”.
    Mentre per Cattaneo “il papato è il secreto della debolezza d'Italia”.
    “Certo, questo era un vecchio discorso che veniva da Machiavelli e che evidenziava il vizio di fondo di Gioberti e per certi versi di Rosmini e di tanti grandi intellettuali cattolici”.
    E' anche un discorso molto umanistico, direi quattrocentesco. Le accademie fiorite in quel secolo a Roma, Firenze e Napoli, con figure come Lorenzo Valla, Pomponio Leto, i Medici e Giovanni Pontano, attraverso il recupero dei costumi antichi e del latino cercarono di trasformare la res publica literarum in un progetto politico e di federazione civile.
    “Di più di più. Si trattava di far capire alla chiesa che conveniva anche a lei la costruzione di uno stato nazionale unitario che certamente allora avrebbe avuto un carattere oggi da noi definibile come federale. Se solo la chiesa avesse dismesso da sola il potere temporale, e forse c'è andata vicina nel momento in cui sembrava aderire al moto risorgimentale”.
    Con il “primo Pio IX”.
    “Ecco esattamente, il primo Pio IX. Se la chiesa avesse compreso che ormai era superata la sua egemonia, che non poteva restare più su quella trincea ma poteva favorire il processo unitario togliendosi di mezzo come potere temporale, probabilmente avrebbe dato molto più spazio al discorso cattanèo all'interno del Risorgimento, che invece è rimasto totalmente spacciato. Ma perché? Ma perché sostanzialmente bisognava prendere Roma!”.
    Ci stiamo avvicinando a Miglio, bordeggiando una questione dirimente per varie ragioni. Dal momento in cui si accetta che il federalismo non oblitera il principio dell'identità nazionale.
    “Oggi il federalismo salva l'identità nazionale…”.
    E nel momento in cui si riconosce come il federalista Gioberti sostenesse che, dai tempi delle migrazioni preistoriche degli italico-pelasgi in poi, il nostro popolo è stato facitore di civilizzazione in tutto il mediterraneo, ecco che l'idea di patriottismo federale perde quell'alone generico di ripiego e diventa agguerrita e competitiva.
    “Un'idea ricca e competitiva”.
    Sopra tutto al nord dove, al di là delle questioni di contabilità politica, la Lega per dare forza alla propria ragion d'essere è costretta a formulare un'idea dell'Italia. Altrimenti non avrebbe senso la volontà di secedere dall'Italia.
    “La Lega non fa certo un discorso giobertiano. In questo quadro bisogna rivendicare con forza l'altezza del contributo meridionale al pensiero italiano. Il Mezzogiorno è una grande terra che ha prodotto intelligenze riattingendo in tutta la storia culturale italiana. Prenda a esempio il filosofo che ha cercato di valorizzare dal punto di vista teoretico la tradizione del pensiero italiano, il siciliano Giovanni Gentile. Certo dopo di lui c'è stato Garin, ma tutti partiamo da lì, quando vogliamo discutere della tradizione del pensiero italiano in tutta la sua forza, in tutta la sua nobiltà, in tutto il suo spessore e lo rivendichiamo anche rispetto a tanta esterofilia del cavolo che sta girando oggi più che mai. Ecco, l'operazione di Gentile è riassumibile con la formula ‘adesso vi spiego il pensiero italiano', ma il pensiero italiano è una composizione a volte armonica a volte disarmonica di radici diverse. Il linguaggio di Giordano Bruno è completamente diverso dal linguaggio di Machiavelli o di Guicciardini. Le loro sono lingue diverse e questa non è una debolezza, questa è la ricchezza italiana. Quindi anche la ricostruzione della grande tradizione italiana diventerebbe più forte se noi ci mettessimo dentro la componente regionale. Anzi direi ‘nazionale'. Perché lo stato nazionale, come insegnano tutti i veri federalisti, è una contraddizione in termini. Lo stato nasce facendo fuori le nazioni, quella d'Oc come quella catalana. Valorizzare allora queste componenti nazionali all'interno dello stato unitario, questo è il discorso culturale e federalistico forte”.
    Un passo indietro per saltare meglio in avanti, con una suggestione ardita. Quando esortiamo a valorizzare le componenti nazionali dalla cui federazione sorgerebbe la più grande nazione unitaria, dovremmo forse ammettere che questo può avvenire laddove esista qualcosa di condiviso al di là del dato plurale e naturale di partenza, un progetto che comprenda le oscillazioni tra Concordia e Discordia, le inamovibili divinità di cui parla Empedocle. Questa dialettica fra i particolari, che sono le piccole nazioni o macroregioni, e la tensione culturale all'unità, è presente almeno fin dall'epoca in cui si fronteggiavano i popoli italici e il popolo romano. Una dialettica di scontro e d'incontro che è confluita in un progetto civile repubblicano e peninsulare, in seguito addirittura in un impero intercontinentale, in nome del quale sono stati federati diversi popoli. Questa tendenza aggregativa e disgregativa ci ha sempre accompagnato dalla tarda antichità in poi, più occulta nel medioevo e di nuovo in fiore nel Rinascimento. Fra gli ultimi esempi storici, se pure irrealizzato, può essere contemplato l'esperimento del Fascismo.
    “Irrealizzato perché, quando il progetto unitario è un progetto d'inglobamento omologante, inevitabilmente fallisce. Così è fallito, prima ancora del disastro bellico, nel Fascismo. Secondo me questa è una caratteristica europea e non soltanto italiana. Ecco l'importanza di riattingere alle origini e alle ragioni storiche del discorso federale. O noi siamo d'accordo culturalmente, prima ancora che politicamente, sul fatto che questo progetto federalistico sia veramente quello unificante, e allora è realizzabile, oppure se non ci siamo su questo presupposto neanche è il caso di procedere. Ed è quel che sta avvenendo”.
    Forse il ceto politico non si interroga se il federalismo sia, o meno, troppo importante per lasciarlo nelle mani dei federalisti di Bossi.
    “Il ceto politico teme la disgregazione, ha l'assillo risorgimentale, l'assillo fascista, l'assillo uscito vincente dal dibattito postfascista. Questa è l'organizzazione dei partiti che, anche a causa della situazione internazionale dell'Italia, non poteva che assumere caratteristiche molto centralizzate, perché l'Italia doveva confrontarsi anzitutto con il grande conflitto dei blocchi mondiali. I partiti dovevano piegarsi a quella realtà e questo ha fatto fuori tutte le voci federaliste che via via si erano espresse all'interno dei grandi partiti di massa del secondo Dopoguerra”.
    Poi qualcosa è riemerso alla fine della Prima Repubblica.
    “La grande crisi degli anni Novanta, tutto sommato, fra le varie cose punitive, ha riavviato questo dibattito. Un dibattito che sarà ancora lungo, mi rendo conto della sua difficoltà e della sua complessità, ma possiamo vederlo con chiarezza perché ormai sono anni che se ne discute nelle sue linee generali. Adesso dovremmo cominciare ad affrontarlo anche da un punto di vista storico e culturale”.
    C'è un ragionamento politico che si potrebbe fare con la Lega, un discorso forse destinato al fallimento ma non per questo fatuo. Il Risorgimento è stato in larga parte una grande operazione nata essenzialmente al nord, da un'élite borghese, aristocratica e militare permeata da un senso di pedagogia nazionale molto forte e direi molto in buona fede. C'era un fondamentale “imperialismo padano” che orientava un ceto dirigente ben inserito nel contesto europeo, basti pensare al rapporto tra Cavour e Napoleone III, e che s'ispirava all'esigenza settentrionale di prendere in custodia le sorti del nascente stato unitario.
    “Se ho capito bene lei sta alludendo al fatto che, se al patriottismo centralista si contrappone un altro patriottismo che valorizzi tutte le componenti nazionali di questo paese, bene. Sennò si è leghisti e si tende verso un nuovo stato padano ma centralizzato”.
    Il leghismo, se abbandonato a se stesso, tende a scantonare dalla possibile armonia delle macroregioni federate e va verso l'esasperazione del sistema centralista regionale.
    “Certamente sì, così nascerebbero nuovi piccoli stati centralizzati, come sta avvenendo – ahimé – in giro per l'Europa”.
    E proprio su questo punto si è consumato il rapporto tra Gianfranco Miglio e la Lega di Bossi. Stabilito che Miglio era un austriacante, dunque non esattamente il miglior amico dell'Italia, comunque lui non si attestava sulla linea della pura rivendicazione bottegaia, cercava d'indicare linee di sviluppo organiche. A volte al limite dell'inaccettabile, come quando suggerì a mo' di provocazione d'istituzionalizzare il potere civile della mafia.
    “Io il federalismo l'ho imparato proprio da Miglio alla fine degli anni Settanta, quando nessuno ne parlava. Un po' alla volta ho compreso queste idee che mi erano allora totalmente estranee, come credo a tutti quelli della mia generazione educati a una visione che non definirei nemmeno italiana ma addirittura esterofila. Miglio mi ha fatto capire il carattere innovativo e riformatore del tema federalista, che noi a scuola vedevamo come un relitto, come appunto a scuola si poteva considerare Gioberti. Non c'è dubbio che Miglio se ne andò dalla Lega poiché si rese conto che Bossi voleva costruire un nuovo piccolo stato, ovvero un grande stato se si considera che il Lombardo-Veneto piccolo non è e la Padania intera è ancora più grande. Al di là di questo Miglio era culturalmente lontano dall'idea statalista della Lega. Punto. Il suo discorso macroregionale suggeriva di rivedere insieme l'unità italiana su basi federalistiche autentiche. Ed è chiaro che per realizzare questo obiettivo non ci possono essere il Molise, l'Abruzzo, la Basilicata. Bisogna anzi ricomporre e aggregare queste aree sulla base della loro omogeneità storica e culturale”.
    Se mi consente l'audacia comparatistica, Ottaviano Augusto aveva svolto già il tema nel primo secolo dell'era volgare. Aveva unificato l'Italia in undici macroaree sotto il segno dell'affinità etnico-linguistica e con i nomi di Lucania-Brutium, Sannio, Etruria, Transpadania, Venetia-Histria e così via.
    “Appunto, aree culturali omogenee”.
    E' quella cosa lì in fondo.
    “E' quella cosa lì, si tratta di ricostruirla. Ci sono onde lunghe, situazioni che si possono ripetere mutatis mutandis, ma bisogna raccontarlo con questo coraggio, con questo spirito di vera innovazione. Credo sia la sola strada, ripeto, per salvare l'unità di questo nostro paese”.
    E' immaginabile che Cacciari si senta un po' solo in questa sua battaglia. Quando un intellettuale di sinistra come lui si mette a esclamare – se ci passa la sintesi giornalistica – che bisogna “rifare il Risorgimento”, va incontro non soltanto a resistenze di nomenclatura partitica, che sono anche comprensibili quando si tratta di politici che devono gestire consensi elettorali non sottoposti alla stessa unità di misura e allo stesso ritmo dei grandi processi storici. Cacciari va sopra tutto incontro alla necessità di avvicinare interlocutori sul fronte della maggioranza di centrodestra, per esempio, nonché di una platea selezionata ma pesante di compagni d'avventura militanti nel suo stesso campo d'idee e nel suo partito, il Partito democratico.
    “Faccio un esempio. Non più di qualche mese fa ho presentato un dibattito sulla Costituzione che è stato concluso in modo molto aperto dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Ci sono state due relazioni, una di Giuseppe Duso e l'altra di Mario Bertolissi, professori a Padova di Scienze politiche e di Diritto Costituzionale, che stanno curando collane e riviste centrate sui temi di cui stiamo parlando. Loro si sono espressi in modo ancora più radicale di quello con cui mi sono espresso io, erano di fronte a Napolitano che si è dimostrato molto attento e molto disponibile rispetto a queste provocazioni. Ne uscirà un piccolo libro. Mi pare insomma che non siamo più a quindici anni fa, quando una cosa del genere sarebbe stata totalmente inconcepibile. Quindi io sono realista ma non pessimista. I tempi saranno lunghi ma la classe politica italiana può assumere questo spirito costituente nella direzione voluta dalla nostra stessa Carta, vista come il patto fondamentale per conservare unito il paese ma tenendo conto delle sue condizioni storiche: “Il modo migliore di far ruinare una città è mantenere costante la sua Costituzione', insegnava Machiavelli, che pure voleva l'unità del paese. Allora mettiamoci a un tavolo per lavorare, discutere, dibattere ciascuno con le proprie convinzioni, ma in questo spirito, e credo che ce la possiamo fare. Perché questo paese non è un paese di sottosviluppati mentali, politici, culturali ed economici”.
    Siccome i simboli contano, se ne può dedurre che il federalismo non uccide il tricolore come federazione armonica di tre colori afferenti ad altrettante funzioni ideali. Già nella Roma classica erano raffigurati assieme il verde della generazione, il bianco dell'intellettualità e il rosso della sovranità. Che poi erano anche i simboli cromatici delle tre tribù federatesi nella civitas.
    “Questo ci richiama al grande tema romano della Concordia, secondo il quale una città non può essere retta da uno. Vi si oppone l'assillo dell'unità, la cattiva metafisica dell'Uno che ha sempre condizionato la politica moderna, pensi al disegno sul frontespizio del ‘Leviatano': il re solo, dentro al suo corpo tutti i sudditi, in una mano il segno del potere religioso e nell'altra il segno del potere politico. Invece la sovranità può e deve essere divisa, i sovrani possono essere molti, il problema è appunto di assicurare la Concordia intorno alle leggi che stabiliscono le funzioni di ognuno. Ma si dovrebbe trattare di funzioni nelle quali io sono effettivamente sovrano, non come capita a me che come sindaco sono subordinato a tutti secondo la logica piramidale più oscena. Perché io non posso fare nulla in materia di urbanistica che la regione non voglia, non posso fare nulla in politica finanziaria che lo stato non voglia e così via.
    Nella Costituzione riformata c'è scritto che la Repubblica è composta da stato, regioni, province e città metropolitane. Ma dove? Lo stato è una piramide alla base della quale ci sono ancora gli enti locali, tale e quale a venti trent'anni fa. Questo viene denunciato, non da Cacciari, ma da quasi tutti i sindaci d'Italia. Una sensibilità diffusa che va nella direzione che abbiamo indicato esiste, a differenza di una generazione fa. Ripeto, non c'è da scandalizzarsi che processi di questo genere possano durare anche due generazioni”.
    Osservazione conclusiva. In questa esigenza di una nuova Concordia federale italiana espressa da Cacciari e dai suoi colleghi, influisce una piccola verità che l'utilizzo pigro della lingua italiana ha codificato come “radicamento nel territorio”. Si tratta di un rapporto con la realtà circostante assai meno mediato rispetto all'impersonalità che si vive a Roma. I sindaci e gli amministratori locali sono tenuti a partecipare in forma palpabile a una serie di micro ritualità quotidiane nel cui alveo non si è ancora del tutto consumata la sconsacrazione della cosa pubblica. Più concretamente: guidare l'Italia da Roma, città sempre più astratta da se stessa, per la media dei nostri deputati e senatori può essere più deresponsabilizzante del compito di amministrare la città che ospita la Biblioteca Marciana del cardinal Bessarione.
    “Venezia in un riassetto federalistico sarebbe la prima città a dover diventare come Amburgo, con un'amministrazione a sé, autonoma. E' talmente chiaro: noi sindaci sappiamo cogliere le differenze specifiche che da Roma non si vedono. A volo d'uccello certe configurazioni del terreno non le vedi, più ti alzi e più le smarrisci. Noi sappiamo che a terra ci sono tante cose e sono quelle che si muovono e vanno governate nel rispetto delle differenze specifiche. Il buon dio sta nei particolari”.(nell'immagine: Giuseppe Garibaldi con sua moglie Anita entrano in Como nel 1859, litografia a colori della scuola francese, 1880, Bibliotheque des Arts Decoratifs, Parigi - foto Alinari)