Chi paga il pranzo di Barack. Lingotto, aiuto
Come cambierà il mercato dell'auto dopo che Mr O. entrerà pure nel capitale delle 3 big di Detroit
“There is no free lunch”, dicono gli americani. Ed è proprio così: se qualcuno ti invita a pranzo, si può star sicuri che in cambio vorrà qualcosa. Lo si sta vedendo nella vicenda del salvataggio del settore automobilistico statunitense. Le tre big di Detroit – General Motors e Chrysler in particolare, ma anche la Ford – stanno attraversando la peggiore crisi della loro secolare storia.
“There is no free lunch”, dicono gli americani. Ed è proprio così: se qualcuno ti invita a pranzo, si può star sicuri che in cambio vorrà qualcosa. Lo si sta vedendo nella vicenda del salvataggio del settore automobilistico statunitense. Le tre big di Detroit – General Motors e Chrysler in particolare, ma anche la Ford – stanno attraversando la peggiore crisi della loro secolare storia. Le prime due hanno già lanciato sos al governo americano: “Se non intervenite subito, non riusciremo ad arrivare alla prossima primavera”, è stato l'accorato appello che ha disorientato l'opinione pubblica americana. La terza, la Ford, sta un pochino meglio, ma anche i suoi manager hanno fatto sapere a Washington che con le loro sole forze non ce la faranno a tirare avanti. Dunque: ci vogliono aiuti di stato, tanti e subito. I liberisti puri hanno reagito come se gli avessero raccontato una barzelletta sporca in chiesa: hanno respinto al mittente la richiesta di soccorso sostenendo che non ha senso salvare con soldi pubblici un settore industriale ormai decotto e aggiungendo cinicamente che sarebbe meglio lasciarlo fallire. Il mercato poi provvederà.
Ma il presidente eletto, Barack Obama, è di parere opposto: non se la sente di mandare a morte uno dei settori manifatturieri più importanti del suo paese che, con l'indotto, conta milioni di dipendenti. Nel programma elettorale del 44° inquilino della Casa Bianca c'era la creazione di 2,5 milioni di nuovi posti di lavoro per evitare all'America una depressione tipo 1929. E può un politico che ha appena vinto le elezioni con un simile programma permettere che la crisi faccia chiudere le fabbriche di Detroit mandando a casa centinaia di migliaia di persone? No, non può. E infatti ecco che gli aiuti sono arrivati (o almeno sono stati promessi).
Il piano di sostegno non è quello previsto originariamente che parlava di 35 miliardi di dollari da stanziare a favore dei tre colossi in difficoltà: ora ci si è fermati a 15 miliardi che dovrebbero essere elargiti sotto forma di prestiti obbligazionari a favore di GM, Ford e Chrysler convertibili in parte (20 per cento) in azioni delle società. Insomma, un ingresso bello e buono dello stato nel settore auto. Le partecipazioni statali in stile Iri sono uno dei primi caposaldi dell'era Obama.
Ma con delle condizioni ben precise (appunto “no free lunch”). I compensi del management dovranno stare al di sotto di certi tetti; il governo nominerà un advisor (soprannominato zar) per controllare che i soldi pubblici siano usati correttamente dai beneficiari; se entro una data ravvicinata (marzo 2009) il settore non avrà dato segni di reagire alla cura, lo zar imporrà un piano di ristrutturazione che a quel punto avrà valore di legge.
(segue dalla prima pagina) E questo in un mercato globalizzato come quello attuale è una distorsione della libera concorrenza. Che inevitabilmente crea problemi agli altri produttori dagli europei fino ai giapponesi. Alcuni hanno già adottato contromisure: in Francia, un bonus per la rottamazione di 1.000 euro per auto; la Germania studia aiuti alle società finanziarie legate al mondo dell'auto (in altre parole, facilitazioni al sistema degli acquisti a rate); in Italia si parla di un'ipotesi governativa per prolungare di un anno la rottamazione che altrimenti finirebbe il 31 dicembre prossimo.
Oltre a cercare l'appoggio pubblico, i grandi costruttori cercano delle strategie per la sopravvivenza. Una è quella dell'ad della Fiat, Sergio Marchionne: “L'unica strada percorribile è quella delle integrazioni, delle fusioni perché avrà successo solo chi potrà contare su una produzione di almeno cinque milioni di auto ogni anno. Di qui a pochi anni prevedo sopravvivranno solo sei grandi case automobilistiche in tutto il mondo”. Ma ha fondamenti reali questa profezia? E che cosa significherà per l'Europa e in particolare per l'Italia? “Ciò che avverrà negli Stati Uniti determinerà il riassetto globale dell'industria dell'auto – dice al Foglio Giuseppe Berta, per anni direttore del centro storico Fiat e ora professore di Economia alla Bocconi di Milano – Se per esempio GM e Chrysler decideranno di fondersi in tempi brevi, allora questo processo si riprodurrà a cascata in tutti gli altri paesi, a partire dall'Europa”. Proprio John Elkann ha ribadito in un commento inviato al Wall Street Journal che “la priorità va a trovare un partner e la combinazione giusta”. Aggiunge Berta: “Non credo comunque che lo scenario per la Fiat sia così fosco. Anzi penso che il futuro del settore si presenti positivo. Oggi circolano 700 milioni di auto nel mondo; secondo l'Economist per la metà del secolo saranno tre miliardi. E' un business colossale. Certo dovranno essere modelli diversi dagli attuali: dovranno essere sobri, essenziali, minimali e con motori ecocompatibili”. E la Fiat sa produrre soprattutto questo tipo di veicoli: “In effetti la Fiat non è messa male, ma da sola non ce la farà. Anche lei dovrà fondersi con un altro produttore. Quale? Non saprei, non ha nemmeno senso adesso porsi la domanda perché è troppo presto”. Anche Paul Betts del Financial Times ritiene che la Fiat sia più sana di altre case e possa giocare carte migliori quando comincerà la partita delle fusioni. Ieri sullo stesso quotidiano inglese “Lex Column” ha però scritto che l'intervista di Marchionne sembra quasi “un'inserzione per la rubrica dei cuori solitari”. Non resta che aspettare e vedere se qualcuno risponderà.


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