L'America e le sue auto

Se persino Stiglitz dice che non è il caso di salvare Detroit

Stefano Cingolani

Persino Joe Stiglitz tira un sospiro di sollievo. Il salvataggio dell'auto non s'ha da fare, i dinosauri di Detroit non lo meritano, ha scritto sul Financial Times. Sì, persino il vate dei liberal, il premio Nobel dei cui giudizi si nutre il mercatismo progressista, dà ragione ai repubblicani che al Senato hanno respinto il piano da 14 miliardi di dollari, approvato dalla Camera dei rappresentanti.

    Persino Joe Stiglitz tira un sospiro di sollievo. Il salvataggio dell'auto non s'ha da fare, i dinosauri di Detroit non lo meritano, ha scritto sul Financial Times. Sì, persino il vate dei liberal, il premio Nobel dei cui giudizi si nutre il mercatismo progressista, dà ragione ai repubblicani che al Senato hanno respinto il piano da 14 miliardi di dollari, approvato dalla Camera dei rappresentanti. Il fronte del no, dunque, è trasversale. E come dargli torto? La sconfitta al Senato è stata preparata da una commedia degli errori dall'incredibile profumo italiano.
    Cominciamo dal management. La General Motors piazza una inserzione su Automotive News, la bibbia di Detroit, per chiedere scusa ai clienti e a tutti gli americani: “Vi abbiamo deluso, perdonateci”, ammette Rick Wagoner, alla vigilia del voto al Senato sul pacchetto di salvataggio. Ma poi il big boss non se ne va. Anche se nei suoi otto anni di gestione non ne ha azzeccate molte, si è fatto infinocchiare dalla Fiat e ha strapagato il divorzio, ha visto scivolare su un piano inclinato il valore del gruppo (da 75 a 3 dollari per azione), ha rinviato (cautela o pavidità?) le scelte tecnologiche e organizzative più avanzate, come l'auto elettrica. Quanto ai sindacati, si presentano con il cappello in mano e la minaccia di un armageddon sociale, ma rifiutano di concedere un allineamento dei salari alle imprese concorrenti, come Toyota e Nissan. I democratici hanno fatto loro da sponda, anche se consideravano il salvataggio una scelta strategica, un'ipoteca sulla politica economica di Obama. Sono giunti a un pelo dall'accordo bipartisan, poi hanno ceduto al richiamo delle Unions.
    E adesso? La Casa Bianca anticipa che si potrà attingere al fondo Paulson di 700 miliardi. Intanto, i legali della Gm studiano le procedure del “Chapter 11”. Il gruppo è a corto di liquidità. Chrysler annuncia che non è in grado di pagare i fornitori. Mentre Ford può far ricorso alla Fondazione, la cassaforte di famiglia. Nessuna delle Big Three può sfuggire a scelte drastiche. “L'industria dell'auto non sarà chiusa – scrive ancora Stiglitz – ma ha bisogno di essere ristrutturata”. Gli azionisti saranno puniti per non aver esercitato il loro dovere di controllo sull'operato dei manager, e il costo non cadrà sui contribuenti. Soprattutto “viene mandato un messaggio forte”. A quel punto, i produttori potranno ricominciare su basi nuove, costruendo auto che la gente vuole, meno energivore, ecologiche, competitive.
    L'ottimismo della volontà e il rispetto dei fondamentali economici non cancella il terremoto economico, sociale e industriale, che travolge Detroit, a cominciare da Gm, con un fatturato da 181 miliardi di dollari, 270 mila addetti e un indotto che dà lavoro a sette milioni di persone. Una ricaduta immediata ci sarà anche in Europa, dove il destino della svedese Saab è segnato, quello della tedesca Opel in bilico, sull'inglese Vauxhall pende un punto interrogativo.
    Nata fin dall'inizio come una holding per la Buick, Gm acquisì la Oldsmobile e via via una serie di produttori indipendenti incapaci di andare avanti da soli (Chevrolet, Cadillac, Pontiac). Il mitico Alfred Sloan aveva razionalizzato quella sorta di confederazione di marche e di modelli, riuscendo a governarla con il suo paternalismo autoritario e le sue scelte visionarie. Nel dopoguerra, tutto filò liscio finché durò l'età dell'oro.

    Ma con la crisi petrolifera degli anni Settanta, e la prima grande ristrutturazione, divenne più difficile gestire un gruppo tanto variegato, secondo una logica unitaria e trarre vantaggio dalle economie di scala. Sia chiaro, anche Ford ha attraversato i suoi guai, nonostante abbia una struttura del tutto opposta, integrata, verticistica, sotto il controllo di un azionista forte. Quanto a Chrysler, è stata salvata ben due volte e si è via via ridimensionata. Sull'auto americana (e poi anche su quella europea) s'è abbattuto lo tsunami giapponese degli anni Ottanta, con il modello Toyota e la sua organizzazione produttiva post fordista. Gm, però, è entrata in crisi di identità. Negli anni della finanza facile ha pensato di compensare con i profitti di carta gli scarsi utili industriali. Ma non ha potuto evitare la periodica convulsione del suo core business.
    Quando Wagoner ha preso il comando, nel 2000, il gruppo perdeva 30 miliardi di dollari. Il gigante buono, con il suo aspetto da allenatore di basket, è cresciuto in azienda e la conosce come le sue tasche. Ha tagliato quasi centomila posti di lavoro e chiuso 12 impianti. Nel 2003 è riuscito a scrivere in bilancio un utile di 4 miliardi. Ma non è bastato. L'Economist ricorda che le pensioni e l'assicurazione sanitaria aggiungono 1.400 dollari a ogni veicolo che esce dalle catene di montaggio. Persino ridurre i dipendenti è quasi più costoso che tenerli grazie a un accordo negoziato vent'anni fa che garantisce un salario quasi pieno a chi viene messo in mobilità.
    Anche per questo il “Chapter 11” è il minore dei mali; anzi, è un bene. Non è la bancarotta vera e propria, quando si portano i libri in tribunale. Ma una fase che consente di regolare i rapporti con creditori e azionisti. Rappresenta una sanzione per chi ha sbagliato. E mette tutti con le spalle al muro. Wagoner ha cercato di evitarla a ogni costo. Sostiene che darebbe un colpo all'immagine e allontanerebbe i compratori. Ma, come ha confessato, i clienti si sono già allontanati da auto costose, brutte, fuori tempo rispetto ai concorrenti giapponesi ed europei. Probabilmente, a questo punto tenta soltanto di difendere la poltrona che, con l'amministrazione controllata, dovrebbe lasciare. Già si cerca un manager con tutti gli attributi. Torna a farsi sentire il vecchio Lee Iacocca, l'italoamericano che salvò Chrysler e cercò di rifilarla a Romiti. E' troppo vecchio, ma sempre ascoltato, al pari di Bob Lutz (protagonista della mancata fusione Ford-Fiat nel 1985). Molti guardano a Carlos Ghosn, il franco brasiliano che ha risanato Nissan e rilanciato Renault. La crisi è un'occasione unica. Nessuno può sfuggire alla grande metamorfosi.