Vita dura per il socialismo in America

Christian Rocca

Il Senato di Washington, nella notte tra giovedì e venerdì, non ha raggiunto l'accordo sul piano di salvataggio pubblico delle tre grandi industrie automobilistiche di Detroit elaborato dalla Casa Bianca, sostenuto da Barack Obama e approvato dalla Camera dei rappresentanti e dai sindacati di categoria.

    New York. Il Senato di Washington, nella notte tra giovedì e venerdì, non ha raggiunto l'accordo sul piano di salvataggio pubblico delle tre grandi industrie automobilistiche di Detroit elaborato dalla Casa Bianca, sostenuto da Barack Obama e approvato dalla Camera dei rappresentanti e dai sindacati di categoria. General Motors e Chrysler sono in crisi, a corto di liquidità e non trovano banche disposte a finanziare le loro necessità di cassa. Senza il prestito federale da 14 miliardi di dollari, le “Big 3” di Detroit non potranno pagare gli stipendi e sarebbero costrette a dichiarare bancarotta entro la fine del mese. Ford è messa leggermente meglio, anche grazie a investimenti più accorti. Il voto del Senato ha costretto Casa Bianca e dipartimento del Tesoro, malgrado avessero promesso il contrario, a prendere in considerazione il piano B, ovvero l'ipotesi di utilizzare per Detroit parte dei 700 miliardi che il Congresso aveva già stanziato a ottobre per fare fronte all'emergenza finanziaria di Wall Street.
    George W. Bush e i leader democratici non sono stati capaci di trovare un punto d'accordo con quei senatori che hanno deciso di rappresentare al Congresso la crescente frustrazione popolare per il continuo ricorso ai soldi pubblici per riparare a errori privati di gestione industriale. Obama, pur favorevole al piano, ha preferito restare ai margini, limitandosi a esprimere dispiacere per il voto del Senato, ma anche per la lunga e cattiva gestione del settore da parte degli industriali dell'auto.

    Al Senato si sono opposti trentuno repubblicani e quattro democratici, ma dieci senatori conservatori hanno votato con i democratici che, quindi, avrebbero avuto i numeri sufficienti a procedere con il piano di finanziamento, se solo fossero riusciti a convincere tutti i senatori della maggioranza a votare a favore (oltre ai quattro “no”, altri quattro democratici non hanno partecipato al voto). L'accordo non è stato trovato perché il prestito non era vincolato a sufficienti garanzie che le “big 3” avessero cominciato una ristrutturazione aziendale tale da renderle competitive rispetto ai concorrenti stranieri. Il punto di scontro, in realtà, è stato tra i senatori del sud del paese e il sindacato automobilistico Uaw, United auto workers. Il sindacato, tradizionalmente molto vicino al Partito democratico, si è rifiutato di concedere una data certa per l'adeguamento al ribasso di stipendi e benefit per i lavoratori delle “Big 3”. I senatori contrari al piano, guidati dal rappresentante del Tennessee Bob Corker, chiedevano invece di fissare una data qualsiasi del 2009 per portare stipendi e benefit dei lavoratori di Detroit ai livelli di quelli in vigore nelle fabbriche Toyota, Honda, Hyundai, Nissan, Volkswagen e Daimler che si trovano nel sud degli Stati Uniti. Il costo del lavoro, a Detroit, è di 62 dollari l'ora, 14 dollari in più di quanto costa un lavoratore americano nelle fabbriche della Toyota al sud. Corker e gli altri senatori sono convinti che il prestito non servirà a nulla se Detroit non ridiscute i termini contrattuali con i sindacati, perché le sue automobili continueranno a costare sempre più di quelle straniere che hanno costi di produzione inferiori. In queste condizioni, hanno spiegato i sostenitori della proposta Corker, difficilmente Chrysler, Gm e Ford torneranno a produrre profitti e quasi certamente a breve serviranno altri soldi. Se la Casa Bianca non interverrà, saranno a rischio un milione di posti di lavoro, ma i contrari al salvataggio con denaro pubblico fanno notare che il socio di maggioranza di Chrysler, il fondo Cerberus, ha rifiutato di mettere denaro in Chrysler perché gli è impedito dallo statuto interno che vieta di investire più di una piccola percentuale dei propri fondi in un singolo investimento. Una specie di conferma interna del fatto che mettere soldi sulle Big 3, senza garanzie di ristrutturazione, è più o meno come gettarli al vento.