Diffidare delle sentenze, delle ordinanze e delle carte con troppi aggettivi (vedi il caso Romeo)

Claudio Cerasa

Quando si racconta qualcosa – almeno così insegnano – meno aggettivi ci sono, meno commenti ci sono, meno avverbi ci sono, meno parole che lasciano intendere opinioni ci sono, e meglio è. E questo vale anche per le sentenze.

    Dicono che la differenza tra un bravo giornalista e un cattivo giornalista sta nell'avere così tanto materiale da avere la possibilità di raccontare un fatto senza aver bisogno di descrivere nient'altro che quello che si è raccolto, o quello che si è visto. Quando si racconta qualcosa – almeno così insegnano – meno aggettivi ci sono, meno commenti ci sono, meno avverbi ci sono, meno parole che lasciano intendere opinioni ci sono, e meglio è. Punto.
    La stessa cosa, dovrebbe valere per le sentenze, per le ordinanze e per tutto ciò che magistrati e gip scrivono per informare di un reato commesso e per provare a inchiodare un indagato. Quando un articolo di cronaca è pieno di aggettivi c'è qualcosa di strano: sembra quasi che ci sia qualcuno che ti voglia convincere di qualcosa senza avere argomenti sufficienti per farlo. Con “le carte” spesso funziona allo stesso modo, e allora dopo aver letto la nota che la procura di Napoli ha scritto sul gran casino napoletano c'è un aspetto che va notato, perché sempre più spesso capita che ci siano gip che scrivono sentenze o ordinanze dando l'impressione di non riuscire a essere totalmente distaccati. Quasi come volessero convincerci di un fatto non solo offrendoci le notizie di reato ma provando a persuaderci con l'uso di aggettivi e avverbi giusti.

    Leggete qui. “Da quelle parole, ascoltate nel corso di una telefonate che egli, amabilmente, intratteneva con Giorgio Nugnes…”. Romeo, “padre-padrone di uno dei maggiori gruppi imprenditoriali romani”. “Si affrettava a replicare il pubblico funzionario infedele”. “Esclusivo ed egoistico interesse di Alfredo Romeo e delle sue imprese”. “Una commistione impressionante…”. “Dirà un esaltato consigliere comunale nel parlare con Romeo…”. Ecco, naturalmente questo non basta per dire che c'è puzza di bruciato. E' vero, ci sono alcune cose che non tornano, il reato contestato agli indagati di Napoli non sembra essere ancora del tutto verificato. Si parla di appalti e si parla di tangenti, ma dalle carte non solo non risulta esserci nulla che riesca a dimostrare in modo chiaro che i politici indagati hanno ricevuto chissà quale beneficio dalla società Romeo (per capire: non si parla di mazzette, non si parla di favori fatti ai politici, etc etc), ma in più due di quei famosi appalti per cui sono finiti sotto indagine anche gli assessori della giunta di Napoli non risulta proprio che siano mai andati in porto, dato che l'appalto che doveva finire in mano alla Global Service dei Romeo (quello sulle strade del napoletano bandito dalla provincia di Napoli) è stato bloccato, e quello che invece era stato bandito dal comune di Napoli è stato stoppato da un ricorso al tar del 28 febbraio.

    • Claudio Cerasa Direttore
    • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.