Le crudeltà gratuite
La morte imminente di Eluana Englaro a Udine è agghiacciante perché gratuita. Non c'è niente che spinga in quella direzione, tranne l'astratta volontà della legge. Per Terri Schiavo c'era almeno una iraconda contesa familiare.
La morte imminente di Eluana Englaro a Udine è agghiacciante perché gratuita. Non c'è niente che spinga in quella direzione, tranne l'astratta volontà della legge. Per Terri Schiavo c'era almeno una iraconda contesa familiare, la colpa di ammazzare una persona si condensava in una specie di scommessa maritale sulla proprietà di quella donna. Aveva ragione Dostojevskij, che ora può essere facilmente parafrasato: se la proprietà della vita non è più di Dio o del mistero, tutti possono considerarsi suoi proprietari. Nel nostro caso, il comportamento del padre della ragazza è al di sopra di ogni giudizio possibile. Ma non quello di chi lo consiglia, lo asseconda o, peggio, si difende ignobilmente dietro lo scudo del suo cuore. Inscenando una operazione ideologica spericolata, che con la denuncia radicale ai danni del ministro Maurizio Sacconi comincia a profilarsi per quello che è ed è sempre stata: una campagna per l'eutanasia ben dissimulata, come fu per Piergiorgio Welby (e questo della dissimulazione è un peccato contro lo spirito che i moribondi e vitalissimi radicali pagheranno con l'inferno).
Cerco di spiegare bene questa idea tremenda di gratuità di una morte imminente. La ragazza vive. Vive come in uno stato di leggera sedazione. Vive ed è curata con amore, dunque attinge il meglio della vita sebbene in una condizione non vigile, che le offre il peggio della vita, la disabilità più grave immaginabile. L'amore delle suore misericordine, quello della sua famiglia e dei medici curanti sono assicurati. Richiesi di portare acqua per lei, simbolica, una quantità di italiani la portarono. Se deve morire, e morire in esecuzione di una sentenza giudiziaria, è solo per dimostrare al mondo che l'uomo è padrone della propria vita. Non nel senso gentile, ovvio, tradizionale secondo cui tutti dobbiamo e possiamo accettare il limite naturale della nostra vita, e anche abbandonarci ad esso quando siamo stanchi (“vivere è imparare a morire”, la frase di Montaigne l'ho pronunciata orgogliosamente davanti al pubblico cattolico di mille assemblee, in questi anni). La dimostrazione non riguarda Eluana né suo padre, riguarda la cultura della nostra comunità occidentale, diffusamente eutanasica in molti paesi, e il diritto nella sua versione statolatrica, positivista, utilitaristica, e antagonista dei principi di diritto naturale.
Non è la prima volta nella storia che un quid apparentemente solo filosofico diventa oggetto di passioni civili e politiche sfrenate. Non è la prima volta che una stagione della storia umana si definisce sulla base di premesse filosofiche e religiose, di ragione e di fede insieme. Siamo padroni della nostra vita, ma non possiamo ordinare a nessuno, tantomeno per legge, di togliercela o di assisterci mentre ce la togliamo (la vita degli altri è infatti indisponibile in senso assoluto). Siamo padroni della nostra vita, ma se non siamo in grado di dare direttive, c'è una sola direttiva che un altro possa dare a proposito della nostra vita: la cura amorevole (la vita degli altri è infatti indisponibile in senso assoluto).
Una morte imminente gratuita, per niente. Lo stesso vale in entrata. Lo stesso vale per la gratuità della pillola Ru486, la kill pill. Per eliminare i bambini dal grembo delle loro madri esistevano fino a venticinque anni fa metodi “sicuri” (la parola tra virgolette va pronunciata con appassionato disgusto). Poi un medico di mondo, che vorrebbe anche regalare alle donne l'eterna giovinezza, come certi maghi e maghetti dei nostri incubi, ha inventato la cosa più inutilmente crudele del mondo. Una pillola avvelenata, un ormone sintetico, che fa fuori il nucleo di un bambino ma comporta più dolore di qualsiasi aspirazione o raschiamento, comporta il compimento dell'aborto in stato di veglia, in solitudine, in un abisso di tristezza e di rischio. Perché dunque? E' tutto molto chiaro. Perché abortire in stato di veglia, in ambito domestico, vuol dire banalizzare l'aborto oltre ogni limite; vuol dire vincere la battaglia per l'aborto come diritto privato e come privacy femminile; vuol dire deresponsabilizzare ulteriormente il maschio e il medico; vuol dire stabilire il punto finale, abortivo, dichiaratamente abortivo, della catena anticoncezionale. Dalla pillola di ieri, quella contro cui si batté Paolo VI in solitudine, anche nella chiesa, a quella di oggi, contro cui si battono i soliti solitari. E' uno scontro di culture, uno scontro intorno alla ragione e alla natura dell'uomo nell'epoca post moderna. C'è solo da sperare che a queste battaglie non venga a mancare, cosa che certi segnali purtroppo suggeriscono, il contributo decisivo, compatto, significativo e univoco dei cristiani e della chiesa cattolica. Lo so anch'io che seguire Cristo è più importante, più decisivo, che qualsiasi battaglia etica. Ma le battaglie etiche sono il terreno di incontro tra i seguaci di Gesù e quei cani perduti senza collare che non vogliono accettare gli effetti devastanti della secolarizzazione scristianizzante. E poi, seguire Cristo vorrà ben dire dare da bere agli assetati.
Il Foglio sportivo - in corpore sano