Per saziare la nostra ingordigia animali di ogni specie vengono macellati senza riguardi

La malacarne

Stefano Di Michele

L'altro giorno, sul Corriere c'era scritto: “Mangimi tossici, di un'unica marca, contenenti il composto che in questo caso specifico deriverebbe da oli industriali bruciati. Il bestiame risultato positivo al test verrà abbattuto. ‘Nessun rischio per l'uomo', avverte Brendan Smith, ministro dell'Agricoltura”. (Nella foto, Bue squartato di Rembrandt, 1655)

    “Più vile di un lupanare/ la macelleria sigilla come un affronto la strada./ Sopra l'architrave/ una cieca testa di vacca/ presiede il sabba/ di carne sgargiante e marmi finali/ con la remota maestà di un idolo” (Jorge Luis Borges, “Macelleria”, 1923).

    L'altro giorno, sul Corriere c'era scritto: “Mangimi tossici, di un'unica marca, contenenti il composto che in questo caso specifico deriverebbe da oli industriali bruciati. Il bestiame risultato positivo al test verrà abbattuto. ‘Nessun rischio per l'uomo', avverte Brendan Smith, ministro dell'Agricoltura”. (Nella foto, Bue squartato di Rembrandt, 1655)
    Nessun rischio per l'uomo. Stesso giornale, il giorno prima: “Centomila maiali condannati all'eliminazione, un danno da cento milioni di euro…”. Cento milioni. Tutto qui: come ci salviamo e quanto ci perdiamo. Così si chiude, con coincidenza per niente singolare, l'anno: tra il baratro verso cui spinge l'avidità sconfinata di certi banchieri e manager, e l'ingordigia della carne (carne e sangue, carne da divorare – mica la carne inoffensiva del corpo di cui parlano, più che altro sparlano, in continuazione). Siamo riflessi, anche se non lo vogliamo, nel tremendo bue squarciato di Rembrandt – coltello e accetta, sangue che scivola sul pavimento, testa mozzata, zampe posteriori legate in alto, anteriori pendenti in basso: imploranti. O nelle foto dei cumuli, orrendamente evocativi, di animali ammazzati che cominciano ad apparire sui giornali. O su Internet, che potrebbe servire non solo per vedere il culo delle professoresse o per discorsi idioti o per magnificare imbecilli che distruggono per noia: i conigli sgozzati che attendono la sorte fissando il sangue che cola dalle gole dei loro simili appesi sopra la loro testa, i vitelli che tremano per la paura, la mucca che piange (piange la mucca), il maiale che urla, l'agnello terrorizzato. Ogni pezzo di carne che ingurgitiamo è passato attraverso un infinito terrore – che solo per comodità e per mancanza di immaginazione (il peggior crimine, diceva Oscar Wilde) viene ignorato. Il dialetto della sazietà, la paura vile del sazio, ha scritto il grande Elias Canetti – che è cosa diversa all'assenza della fame, e che finisce con l'esaurire ogni pietà. “Disprezza coloro che non sono riusciti, qualsiasi cosa succedesse, a continuare a mangiare” (“La provincia dell'uomo”, Adelphi).

    La carne che abbiamo davanti tutti i giorni ha cancellato ogni traccia del suo spaventoso percorso. Confezionata, selezionata, tagliuzzata, è sotto la luce, a volte nella plastica, innocua, impassibile. Morta, appunto, anche del suo stesso dolore. Depurata – così che i nostri occhi riescano a renderla accettabile al nostro stomaco. Non sappiamo quasi niente, e ciò ci rende disponibili a quasi tutto. La carne ha il sangue, ma al sangue non pensiamo mai – neanche quando vediamo le foto di un intero oceano mutato in color rosso per il sangue delle balene, splendide e innocenti, braccate e assassinate dai cacciatori sulle baleniere. E' con i secoli, e con i sensi (solo) esteticamente più raffinati, che l'abbiamo cancellato dal nostro orizzonte, il sangue. Nello straordinario “Il sugo della vita” (Mondadori), Piero Camporesi ha raccontato in maniera suggestiva il suo scorrere tenebroso ai lati della nostra vita. “La cucina partecipava di questo diffuso, universale gusto del sangue: migliacci, sanguinacci, scervellati, budini di carne sanguinolenta, sangue bollito, frittelle di sangue, ambigui pasticci dall'oscura amalgama nei quali il ‘brodo scuro', lambiccato alla carne sanguinante, costituiva il fondo denso, vischioso e saporito”. Così che ciò che mangiamo forse è ciò che diverremo, raccontava il grande studioso in un altro libro, “Il paese della fame” (Garzanti), citando un'antica sacra rappresentazione popolare sull'Anticristo e il giudizio finale: “Rostite a guisa de porchecte;/ Zabatù or n'aggie cura,/ Fa encendar bien lo forno,/ E volta bien l'arosto atorno”. E dunque: “Cucina e, insieme, mattatoio, in cui le carni umane, prima che cotte, vengono sottoposte a squartamenti d'ogni genere”. Di tutto questo, tra rubriche culinarie e programmi televisivi, non c'è traccia – è tutto solo colore o candele o tovaglie candide, e accorgimenti similari.
    Il niente di buono di quest'ultima follia finita sui giornali – uomini che per pura ingordigia avvelenano, dandogli da mangiare “oli industriali”, animali tenuti prigionieri per divorarli, e quindi costretti ad abbatterli anzitempo perché la loro stessa ingordigia li divorerebbe: logico, la salute (nostra) e i soldi (nostri), ma non dice nient'altro tutto questo? – è forse nel vedere le carcasse, i corpi, i musi contratti in dolore e stupore, la vaga possibilità di essere ricondotti, per emozione e pietà, all'origine della carne. “Chi mangia ha sempre meno pietà, e alla fine non ne ha affatto”, sosteneva Canetti. Ma secoli prima, era stato Plutarco (“Del mangiare carne”, Adelphi) a stendere la più straordinaria requisitoria contro la nostra passione nel divorare il corpo dell'animale, “ammissibili piaceri contro natura”, altro che quelli dell'altra carne (e ci risiamo) su cui discettano senza stanchezza e (pure qui) con scarsa misericordia. Già Plutarco sapeva, inevitabile come oggi, che era impossibile dare “un taglio alla nostra ingordigia e alla nostra sete di sangue”. E allora: “Mangeremo sì la carne, ma spinti dalla fame e non per ingordigia. Uccideremo sì un animale, ma provando per esso pietà e dolore, e non usando la violenza né torturandolo”. Era commosso e furente, Plutarco: “Tali sono le sevizie che, oggi come oggi, vengono sovente commesse: alcuni sgozzano i maiali conficcando loro nella gola degli spiedi arroventati, perché il sangue, emulsionato dal ferro affondato nella carne e diffuso per tutto il corpo, renda la carne più tenera e delicata. Altri invece balzano sulle mammelle dello scrofe prossime al parto prendendole a calci, perché dopo che l'animale ha versato, Zeus Purificatore!, sangue vivo, latte e sangue rappreso dei feti, morti insieme alla madre nel momento del parto, possano mangiarne la parte più tumefatta. Altri ancora cucinano gli occhi delle gru e dei cigni, li chiudono nell'oscurità, e fanno così ingrassare questi animali…”.

    In certe vetrine, nel centro di Roma, fanno orrenda mostra le teste dei piccoli maiali arrostiti (“porchecte”, avrebbe detto Camporesi): la bocca spalancata, il muso levato in alto, la morte in dolore e poi il fuoco. L'odore di carne che brucia invade i marciapiedi, odore per molti appetitoso e invogliante, per altri invadente così che ti entra dentro e raggiunge lo stomaco – e vorresti essere in altro luogo o chiudere le finestre o tappare il naso. La foto di un tenero maialino in una macelleria napoletana che dice “I don't speak english”: vivo, dice: mangiami, sono sicuro. C'è del senso, in questo? Con la carne – per necessità, per stupida ritualità, per consuetudini – conviviamo da sempre. Si è solo cercato di cancellare (cioè di occultare) l'aspetto più feroce che conduce dalla mucca alla bistecca, dal maiale alla salsiccia. Tutto il contrario andrebbe fatto, il dipinto di Rembrandt andrebbe affisso ovunque si consuma carne, i filmati delle mattanze mandati in onda, le registrazioni delle urla trasmesse per radio. Nel 1972 Marguerite Yourcenar – che al suo Zenone, nell'“Opera al nero”, non faceva mangiar carne, e così il medico caduto nelle mani dell'Inquisizione si rifiutava di “mandar giù certe agonie” – scrisse un piccolo saggio sui nuovi mattatoi di Parigi. “Alla Villette, alle catene n. 2 dei nuovi mattatoi, i vitelli e i bovini, questi ultimi dopo una brusca caduta, vengono in bell'ordine appesi prima dell'esecuzione, cosa che consente (time is money) di procedere più alla svelta. Questo sistema naturalmente è proibito (da un decreto del 16 aprile 1964), ma ciò non toglie che resti utilmente in uso. I muri dei nuovi mattatoi (una bella realizzazione tecnica , non c'è dubbio, provvista come si vede di tutte le innovazioni) sono spessi: non vediamo queste creature torcersi di dolore, non ne sentiamo i laceranti muggiti, che neppure il più accanito adoratore di bistecche potrebbe sopportare. Gli effetti della coscienza pubblica sulla digestione non sono da temere”. E invocava, la scrittrice, ciò che oggi qualche coraggioso è riuscito a realizzare e a rendere pubblico. “Auspico un film pieno di sangue, di muggiti, e di un terrore più che autentico, che forse può far piacere ad alcuni sadici, ma può anche suscitare migliaia di proteste” (“Il tempo, grande scultore”, Einaudi).

    In Italia c'è da alcuni anni una legge che ha tentato di rendere meno crudele (ma rendere meno crudele è una frase stonata, insensata), diciamo che prova ad evitare certi accanimenti, la macellazione degli animali. Ma l'animale – sempre – riconosce la morte, e sempre il suo ultimo sussulto di terrore noi getteremo nel nostro stomaco capace. Insensato anche questo, per Canetti, che sognava una rivolta degli animali miti contro di noi, “degli animali pazienti, delle vacche, delle pecore, di tutto il bestiame che è nelle nostre mani e non ci può sfuggire”. E quindi, al premio Nobel per la Letteratura capitò una cosa: “Da quando ho visto uno stomaco umano, nove decimi di uno stomaco umano, tagliato via da meno di due ore, capisco ancor meno perché l'uomo mangi. Era identico ai pezzi di carne che si fanno arrostire in cucina, persino la grossezza era quella solita di una cotoletta. A che scopo questa trasformazione di una cosa in un'altra identica? A che scopo questo giro vizioso? Perché la carne deve incessantemente passare attraverso i visceri di un'altra carne? Perché proprio questo deve essere la condizione necessaria della nostra vita?”. Chi ha visto uccidere un animale, o addirittura chi si è fatto macellaio del suo stesso cibo, forse si porterà per sempre dentro, se non un'auspicabile ripugnanza, almeno un permanente segno di disagio. “Non mangerò mai qualcosa che ha due occhi”, promise Leonardo da Vinci – se mai hai visto quegli occhi. Il bue squartato, i quarti di bue, i poveri agnelli con la testa nelle buste di plastica – così che il sangue non coli fin verso di noi – le tenere oche ingozzate con ferocia, gli enigmatici conigli, così bianchi e così nulla, il pollo che non ha né fuga (magari le galline fossero davvero in fuga) né intelligenza (dicono quelli che lo uccidono), la capra che resta immobile anche all'avvicinarsi della lama, perché è vicina alla madre: il nostro gusto ha un retrogusto di ingiustificabile crudeltà. E tutti di buon appetito, ma tutti tesi a liberarsi del sangue: la traccia indelebile che a quella crudeltà riconduce. Dovremmo procedere noi all'ammazzamento – come auspicava Plutarco, così come il re di Amerindia, rievocato da Raffaele La Capria nel suo “Guappo e altri animali” (Mondadori) – e vedere la paura, sentire l'urlo, lavare personalmente il sangue. E quindi mettersi a tavola. Invece, quello che a molti grandi è apparso come il più improbabile dei nostri cibi, a un certo punto era diventato addirittura il tutto. “Ciò che non avete forse mai immaginato è che quel che si chiama ‘Carne' con la C maiuscola, non è solo la carne ma tutto ciò che si mangia, verdure comprese: la ‘Carne' del re è il suo pasto”, rivela Philippe Beaussant nel suo esemplare “Anche il Re Sole sorge al mattino. Una giornata di Luigi XIV” (Fazi Editore). E Luigi Malerba, in uno dei suoi capolavori, “Il fuoco greco” (Mondadori), racconta così un pasto alla corte di Bisanzio: “Mentre si mangiavano arrosti di capretto, salsicce di oca farcite di aglio e cipolla, prosciutti di cinghiale e petti di pavone, si discuteva se quella di Aristotele fosse vera filosofia, se la vera filosofia coincida sempre con la vera religione come fonte di verità…”. Discorso elevato, ma con stomaco pesante.

    Però, non è che assistere allo squartamento di un animale inevitabilmente provochi ripensamenti. Oliviero Diliberto, capo dei Comunisti italiani, ha raccontato di come personalmente proceda, nell'occasione, all'uccisione del capretto che farà al forno: per niente pentito e piuttosto fiero. Franco Grillini, leader dell'Arcigay, ha rievocato la sua infanzia contadina in questo modo: “Da sopra sentivo lo stesso le urla strazianti del maiale, che capiva benissimo cosa stava succedendo, perché i maiali sono animali intelligenti; io lo sapevo e lo sentivo, e stavo malissimo per lui e per me. Ma mi consolavo perché la fase della lavorazione, invece, era bellissima, e mi piaceva il modo in cui tutta quella buona carne diventava salame, prosciutto, ciccioli, bistecche” (“Ecce Omo”, Mondadori). Proprio come diceva Canetti: “Non si è mai abbastanza tristi per riuscire a migliorare il mondo. Si torna ad avere fame troppo presto”. Peter Heller, in un libro uscito da poco, “I guerrieri delle balene. La battaglia per salvare i più grandi mammiferi della terra” (Corbaccio), fornisce il terrificante resoconto di come vengono ammazzati i delfini (i delfini: come cazzo si può ammazzare, un delfino?) in Giappone, dove non vanno tanto per il sottile neanche con le balene. Li spaventano, li spingono in una piccola baia chiusa, e lì il massacro comincia. “Immergendosi, un uomo raggiunge un delfino e affonda un punteruolo a T, lungo 60 centimetri, dietro lo sfiatatoio. Emerge un fiotto di sangue e il delfino si agita e trema. Urla e si ribalta sul fianco, in acqua, incapace di liberare lo sfiatatoio, e comincia ad annegare. Lungo tutta la linea della cima altri uomini stanno facendo lo stesso ad altri del branco. La baia si riempie di sangue. I piccoli terrorizzati si dibattono tutt'intorno, impazziti per le urla delle madri. I delfini legati lungo la spiaggia tremano e si dibattono. Certe volte i pescatori gli tagliano la gola o li trafiggono ancora col punteruolo. Molti ci mettono mezz'ora a morire. Altre volte, quando hanno recintato trenta o quaranta delfini o globicefali – un'altra specie un po' più grossa – i balenieri vanno ancora meno per il sottile e semplicemente passano con le barche aperte attraverso il branco, infilzando e trafiggendo gli animali. I delfini feriti e moribondi si inclinano e si rovesciano nel sangue, e alcuni che ancora nuotano cercano di tenere a galla i compagni con il rosto, immergendosi sotto di loro”. Ecco, questo straordinario particolare: la feroce determinazione dei cacciatori, l'umano (così disperato, così ingenuo, dunque così divino) tentativo dei delfini ancora non colpiti che cercano di mantenere a galla, di salvare i loro compagni – gli uomini spesso non lo sanno fare.

    Forse, alla fine, tutta l'ingordigia presenterà un prezzo immenso. Nell'impressionante “Ecocidio. Ascesa e caduta della cultura della carne” (Mondadori), Jeremy Rifkin fornisce l'angosciante racconto della macellazione in un moderno – ben più di quello parigino che indignò la Yourcenar – impianto del Kansas. “I vitelli entrano nel macello in fila. Appena entrati vengono uccisi con una pistola pneumatica; mentre l'animale crolla a terra, un inserviente gli aggancia rapidamente una catena a uno degli zoccoli posteriori. L'animale è sollevato meccanicamente dal pavimento e lasciato appeso a testa in giù. Uomini con tute da lavoro intrise di sangue e muniti di coltelli dai lunghi manici, tagliano a ciascuno la gola, infilando profondamente la lama nella laringe per uno o due secondi, e recidendo la vena giugulare e l'arteria carotidea quando la estraggono; il sangue schizza sul pavimento imbrattando uomini e macchine”. Ciò che era vivo, ora non lo è più. La seconda fase: “L'animale morto si muove lungo una catena di smontaggio. Alla prima stazione viene scuoiato: la pelle viene incisa lungo la linea centrale del ventre e una macchina scuoiatrice lo libera dal suo involucro, lasciando la pelle intera. Poi la carcassa viene decapitata, la lingua tagliata e rimossa; la testa e la lingua vengono attaccate a ganci che scorrono lungo la catena di smontaggio. La carcassa, quindi, viene eviscerata: fegato, cuore, intestini e altri organi interni vengono rimossi. Dopo la rimozione delle viscere, nella stazione successiva, la carcassa viene squartata con una motosega lungo la colonna vertebrale, e privata della coda. La carcassa squartata viene lavata con un getto d'acqua tiepida, avvolta in un tessuto e mandata nelle celle frigorifere per ventiquattr'ore. Il giorno seguente, i macellai muniti di seghe a nastro smembrano la carcassa nei tassi canonici: filetto, costata, girello, spalla eccetera. I tagli vengono posti su un nastro trasportatore per la selezione e il confezionamento. I tagli di carne, affettati, pesati e confezionati sotto vuoto, raggiungono così i banchi refrigerati dei supermercati di tutto il paese, dove vengono esposti e offerti in vendita”. Il sangue è corso via, inghiottito da cunicoli bui. Quasi scomparso – a non voler cercare bene. Per chi vuole, ora la bistecca è pronta: buon appetito.