L'acido afghano

Toni Capuozzo

Una stupida deformazione professionale. E' per questo che, quando ho visto il titolo dell'agenzia – “Brucia viva la ex cognata per il telefonino”– sono andato a vedere come per un riflesso condizionato. In realtà la cronaca non raccontava una nuova diabolica trasmissione del male.

    Una stupida deformazione professionale. E' per questo che, quando ho visto il titolo dell'agenzia – “Brucia viva la ex cognata per il telefonino”– sono andato a vedere come per un riflesso condizionato. In realtà la cronaca non raccontava una nuova diabolica trasmissione del male. Il fatto è che, se hai una qualche dimestichezza con le strade irachene o afghane, sai bene che qualcuno che prende in mano il telefonino può essere qualcuno che sta attivando l'esplosione di un ordigno esplosivo, ai bordi della strada. E' per questo che alcuni blindati sono dotati di un congegno che si chiama jammer, che spegne il segnale dei telefonini nel raggio di qualche centinaio di metri. No, la cronaca raccontava di un immigrato sudamericano, tale Josè Eder Diaz Mosquera, che aveva bruciato, lo scorso 3 gennaio nel quartiere catanese di San Berillo, l'ex cognata, che alla fine della relazione con il fratello dell'imputato si era tenuta un telefonino, come fosse un ricordo, un risarcimento, un alimento da moglie separata. Condanna esemplare: trent'anni di carcere per omicidio volontario, aggravato dalla ferocia e dai futili motivi. Fin qui tutto a posto, e l'orrore della vicenda suonava per me perfino consolatorio: la ferocia maschile non è solo dell'islam, tutto il mondo è paese: Catania e Bogotà. Non fosse stato per una coincidenza: la sera prima avevo partecipato, non troppo volentieri, a un incontro di Smileagain, un'organizzazione non governativa che si occupa delle donne “acidificate” in paesi come Pakistan e Bangladesh. Malvolentieri perché le fotografie di queste donne sono difficilmente sopportabili. Sono donne giovani, e spesso belle, punite per aver rifiutato una offerta di matrimonio, o per il sospetto di un tradimento, o per la delusione provocata da una dote non corrisposta secondo le attese. Vengono punite spesso nel momento in cui sono più indifese, nel sonno o mentre attendono di raccogliere l'acqua, le mani strette attorno alle taniche. Ma il peggio è il dopo, e del resto qui sta la differenza con la barbarie latinoamericana-catanese di cui all'agenzia. Non si getta l'acido per uccidere, ma per marchiare la sopravvivenza. C'è un equivoco, in cui cadono anche le organizzazioni umanitarie e progressiste, attente alla correttezza politica, e pronte a leggere quest'orrore come la sopravvivenza di una brutalità primitiva. No, è una vicenda moderna, come moderno è l'acido che serve a rimpinguare le batterie d'auto, che costa pochi centesimi e sta nelle dispense maschili anche dove le automobili sono il lusso di pochi. Il primo caso di “acid attack” venne registrato ufficialmente in Bangladesh nel 1967. Alla fine del secolo i casi registrati erano duecento l'anno: un orrore moderno, che spesso ha a che vedere con il tentativo femminile di decidere qualcosa, di rapportarsi in qualche modo alla modernità. E in quanto tale punito, e vissuto spesso come una punizione che in qualche modo marchia la colpa della vittima, che se l'è cercata. Dunque, poco a che vedere con altre pratiche barbare e molto a che vedere con la morale corrente in molti paesi musulmani: sottomissione della donna, mutilazione della sua libertà, che si incarni in una chioma, nello sguardo, o nella possibilità di essere guardata. L'estremista Theo van Gogh, che venne sgozzato nel centro di Amsterdam, pensò di raffigurare tutto questo in modo semplificato: i versetti del Corano istoriati sulla schiena di una donna. Esagerazioni, ma anche quello che sta succedendo in Afghanistan è esagerato.

    L'informazione italiana non ha dato peso a quanto è avvenuto a Kandahar, una ventina di giorni fa. Un commando di uomini, in motocicletta, ha aggredito tre gruppi di ragazze che, riconoscibili dalla divisa si stavano recando alla Mirwaia Nika Girls High School. Gli assalitori hanno gettato loro addosso dell'acido, versandolo da bottiglie di plastica. Un insegnante di matematica, un giovane uomo, è stato ustionato alle spalle. Due sorelle, Latefa e Shamsia, di 18 e 16 anni, hanno riportato ustioni gravissime al volto. L'azione non aveva bisogno di essere rivendicata: sotto il regime talebano alle ragazze l'istruzione era vietata, e oggi l'incendio delle scuole femminili è un'attività tra le più frequenti della guerriglia talebana. Le due sorelle sono ricoverate in un ospedale di Kabul. Dieci talebani, sospetti autori dell'incursione, sono stati arrestati. Alcuni di loro hanno confessato, raccontando di aver ricevuto duemila dollari come ricompensa per l'azione. Ma il risultato più immediato è che i genitori trattengono ora a casa le figlie, per timore di guai. E la provincia di Kandahar già brillava per la timidezza del cambio: su 110 mila alunni, solo 26 mila le ragazze. A Herat gli alpini italiani stanno costruendo una casa d'accoglienza per i familiari che accompagnano le vittime ricoverate al centro grandi ustionati: incidenti domestici, donne e bambini. Come diceva quel film di umore dissacrante, nei Balcani: i piccoli, graziosi villaggi bruciano meglio.