Black Christmas in America
Mi sono affacciato a New York e dintorni per dare un'occhiata all' America della transizione e ho visto alcune cose che voglio raccontare.
Obama è un effetto, non una causa. E' la naturale conclusione di un percorso, ultimo passaggio di un procedimento collettivo. Un sollievo e un'inevitabile ripartenza. Mi sono affacciato a New York e dintorni per dare un'occhiata all'America della transizione e ho visto alcune cose che voglio raccontare.
Ci vuole poco a intuire la benefica riduzione dei consumi in via di svolgimento. Ma se ne può parlare – come mesi fa fece in un memorabile articolo Bob Samuelson – solo a partire dallo strutturato rapporto col superfluo che gli americani hanno sviluppato e hanno colpevolmente fatto deflagrare. Il ricciolo terminale e nevrotico del rapporto con la felicità si è tradotto nella ricerca dell'effimera gratificazione, nel brivido decadente provocato dal buttare quattrini comprando cose inutili. Adesso i sensi di colpa hanno preso il sopravvento e gli editorialisti s'incolonnano a sancire la morte dello shopping spree, mentre l'incertezza è diventato il sentimento in circolo, i conti hanno cominciato a non tornare e la conclamata dichiarazione dello stato di generale di crisi in fondo fa sentire tutti più sollevati: è evidente, ci siamo dentro, l'abbiamo capito. Adesso lavoriamo per uscirne, perché non sarà facile. E visto dall'Italia, non è un atteggiamento complessivo disprezzabile.
E adesso comunque, prima che i giochi di Washington comincino davvero, prima che le mitragliatrici dei media riprendano a crepitare, mentre le feste coincidono con una generale sauna psichica, l'avvio dello sforzo comune e la relativa pacificazione del post-Bush a tutti appaiono tollerabili (tra due mesi potremo numerare traditori, delusi e acerrimi nemici) . Obama, semplicemente, non poteva non vincere: si sarebbe creato un assurdo schizofrenico. Adesso tutte le palline si sono infilate nei buchi giusti. E a chi tocca giocare si richiede tatto, sapienza, onesta, decisa capacità.
(Altra convinzione: durante la transizione Obama non ha sbagliato un colpo. Fosse una partita di bowling avrebbe fatto una fila di strike. La sua macchina fin qui non s'è inceppata). Epperò, mentre mi guardo intorno a seguire gli eventi, ecco che esplodono in rapida successione quelle che, a prima vista, potrebbero essere battezzate “Le Prime Contraddizioni di Barack”. Tre. Non poche: Blagojevich, Kennedy e Warren. E allora provo a ipotizzare cosa sarà tra 12 mesi, quando ci ritroveremo a stendere consuntivi sul dorso di un frastagliato, difficilissimo anno di politica americana. Cosa resterà di questo limpido 2008?
Il fattore Blago. Era dai tempi di Abramov che aspettavo un cattivo così, e non bastavano neppure le tardive teppistate di OJ Simpson. No: Blago è la sfrontata perfidia fatta persona, anzi fatto governatore – democratico per di più – dell'obamiano Illinois, forse perfino così vicino al lider maximo da sfiorarlo, non foss'altro tramite quel permanente angelo caduto che risponde al nome di Rahm Emmanuel (angelicissimo nome, appunto). La vicenda è nota: Blago, lasciato ai margini dall'irresistibile ascesa del senatore del suo Illinois, ha deciso di ramazzare le briciole, insomma di monetizzare la prerogativa di nominare il sostituto per il seggio abbandonato da Obama. Nel frattempo ha pascolato la serie di più incredibili intercettazioni telefoniche ascoltate da un pezzo, con Blago che, o è pazzo, o è scemo, oppure interpreta la politica (appunto: Chicago-style) come un gioco di potere puro, nel quale non vale la pena di perder tempo in convenevoli e moine, tanto vale dire pane al pane, mors tua vita mea, dammi tutto ciò che hai e vedrò cosa posso fare. Che non è lo stile di facciata di casa-Obama, dove non perdere la faccia è dovere primario. Inevitabile, perciò, la violenta collisione: perché di fatto, chi può seriamente credere che nulla e poi nulla sia intercorso tra coloro che si preparavano al trasloco da Chicago a Washington e quelli destinati a rimanere in città a fare affari? Chi può seriamente credere che nello staff del presidente-eletto si siano dimenticati, con tutte le cose che avevano da fare, di sistemare la questione del seggio da lasciare in eredità, se possibile, a un fidato scudiero? Blago, in sostanza, con la sua vocina stridula nella sua autodifesa guascona, volgare, ormonale, lascia capire: non pigliamoci in giro. La politica, almeno qui – dove non è che vadano di gran moda le commissioni etiche – passa attraverso il travaso del potere e il mercato dei posti-chiave. Sennò come volete che possa funzionare? Lui ha il difetto di avere la bocca troppo larga. Ma è lì per servire. Certo: non solo il popolo, ma anche se stesso. Ma non è così anche per gli altri, con la differenza che sono più ipocriti? In tempo di change, difficile che un discorso del genere trovi consensi nello Studio Ovale. Ma, altrettanto, lasciare la questione-Blagojevich aperta, lasciare che la piaga continui a sanguinare mentre la presidenza diviene attiva non è consigliabile, perché da lì in poi la guerra di posizione con un avversario umiliato ma vivo come il partito repubblicano, si muterà in guerriglia di scorribande. E Blago è terra di conquista, destinato a raccattare le simpatie degli Obama-scettici, col suo “Combattere, combattere, combattere, fino all'ultimo respiro”. E comunque, quanto a questa grana dell'inizio di Barack, il momento cult assoluto, puro marzullismo d'Illinois, è la recita, occhi fissi nella telecamera e ciuffo in sospensione contro le regole della fisica, dell'insopportabile “If “di Kipling, in stile-Blago: “Se puoi restare a testa alta mentre gli altri abbassano la loro, se continui a credere in te stesso mentre tutti dubitano di te… etc etc etc. Vabbè.
Se poi s'abbina Blago al sorriso amletico e asfittico di Caroline Kennedy viene da pensare che il passaggio d'un diritto di parcheggio al Senato per gli americani sia un procedimento decisamente complesso, nonché con un vizio di forma. Comprimari: un governatore come Paterson – non un colosso decisionale – e Hillary che lascia il seggio senatoriale dello Stato di New York dopo che l'offerta di Obama si è resa accettabile. L'intenzione di Paterson è quella di passare, come lo consigliano quelli che contano, il seggio vinto da Hillary, alla Kennedy, che tanto s'è spesa nel nome di Obama. Il conteggio degli equilibri Clinton-Kennedy è troppo complesso per essere descritto qui. Quel che conta è che lei prima nicchia, attende, poi decide, ammette che sì, effettivamente le piacerebbe vedersi servito su un vassoio quel seggio che non ha mai vinto, sotto forma di gratitudine. In vista dell'imminente dipartita di Ted, ultimo leone Kennedy, la buona società manhattanite e più in genere l'ambiente mediatico, appaiono condiscendenti. Caroline è la ragazzina di Camelot, tutti sono abituati a vederla in giro, è una brava persona, per Obama si è esposta con entusiasmo. Perché no? Poco conta che Hillary così facendo non lasci strada a nessuno dei suoi veri rivali di partito. Un po' più importa – ma tutti fanno finta di niente – che sotto l'ombrello del “cambiamento” annunciato, il passaggio di testimone tra una Clinton e una Kennedy non sia coerente, con tutto quell'invocare la fine dei casati che eccoli riproposti da questa staffetta evitabilissima. Che c'entra Obama in questa storia? Poco, è probabile, se si vuole giudicare “poco” l'assenso a una risistemazione che tiene conto di spartizioni più antiche di lui. Obama e i suoi assistono con la compiacenza di chi vuole energizzare senza rompere. Che poi i Kennedy e i Cuomo diano vita a una cavalleria rusticano-newyorkese, con la cugina di Caroline, Kerry che si spende per stroncare le aspirazioni dell'odiato ex-marito Andrew Cuomo, ben più motivate di quelle della newcomer Caroline, è il suggello di un pasticcio supervisionato dal debole Paterson. Una prepotenza dell'elite, che in tempi meno euforici avrebbe destato ben altre turbolenze. Ma all'origine del tutto c'è la scelta di Obama e Axelrod: arrivati alla Casa Bianca, rimontare lo scheletrato di potere clintoniano, sottoscritto con la chiamata in causa di Hillary. Il caso-Kennedy è uno dei tanti scontrini da saldare in questo cammino.
L'affare-Warren rivela un altro aspetto dello stile-Obama del quale sarà bene tener conto. L'invito rivolto al reverendo che governa l'imponente Saddleback Church della California Meridionale in puro stile confessionale west-coast, è una mossa rivolta all'esterno della comunity dei fans, i quali inevitabilmente hanno reagito svariando tra amari sorrisetti di circostanza e formidabili arrabbiature. Il fatto è che l'occasione era ghiotta e facile: Barack poteva, sul passo d'avvio, dar prova di non aver dimenticato la sua promessa d'ecumenica trasversalità, il proposito di riunire la casa americana. Quale migliore occasione, tutto sommato inoffensiva e cavalleresca, che chiamare Rick Warren a pronunciare l'invocazione celeste sulla presidenza che s'inaugura il 20 gennaio? Certo Warren è un fervente pro-lifer, ma è anche un comunicatore sensazionale e in ascesa, se è vero che la Fox l'ha scelto come officiante della funzione di Natale del canale News, e se ad Atlanta hanno voluto lui come keynote speaker al servizio di commemorazione di Martin Luther King jr, rinnovando la liason tra middle class nera e conservatori cristiani “moderni”, che sembra transitare proprio per il suo personaggio. Già, ma – di nuovo – Obama che c'entra? Due risposte. Prima di tutto Obama ha già dimostrato d'essere uomo dalla memoria lunga, perché nel suo staff vige la regola che se si entra positivamente nella sua orbita, poi ci si può attendere un rapporto di progressiva interattività. D'estate Warren ospitò Barack, insieme a John McCain, per quella famosa “intervista parallela” centrata su temi personali, nella quale trattò con gentilezza del tocco il candidato democratico, al punto da smussare molti sospetti che l'elettorato cristiano nutriva nei suoi confronti. Obama uscì deliziato da quell'incontro, sentendosi rafforzato nella tesi che lo stesso Warren espone spesso: è impossibile andare d'accordo con tutti su tutto. “Per camminare insieme non è necessario star sempre mano nella mano”, dice Warren. Che è la stessa teoria del confronto senza rotture propugnata da Obama. E adesso Warren si può vantare: “Tre anni fa mi misero sulla graticola perché avevo invitato Obama nella mia chiesa. E adesso è lui a ricambiare”. I radical s'incazzano, ma prendere atto di quanto sia solido il credo di Obama nella possibilità di trovare consensi a 360 gradi, è un atto necessario per capire le tecniche della Casa Bianca 2009. Warren dice che lui prega per le stesse cose per cui prega Obama: integrità, umiltà, generosità. Dice che la povertà è il primo problema con cui entrambi vogliono fare i conti, dall'alto del rispettivo scranno di potere. Sul resto si discuterà. Il mal di fegato è pronto a servire coloro che s'aspetteranno slanci di partigianeria di altro indirizzo. E va almeno detto che la novità è consistente – se pure sul filo del ruffiano. E che tanti già stanno a guardare, così, per vedere l'effetto che fa.
Le terribili scarpe tirate contro Bush, al tempo stesso provvidenziale schivatore e attonito bersaglio, m'hanno fatto una terribile tristezza e m'hanno fatto pensare a quando sono andato a vedere Monticello, la casa di George Washington. M'hanno fatto venire in mente che non si tirano scarpe a un presidente, allora meglio sparargli, anche se gli arabi dicono che neppure il prezzo della pallottola vale la pelle del “cane”. Il problema sta nella capacità di odiare. Si può dire: bella forza non riuscire ad assaporarla, questa capacità, osservando le cose da turista affettuoso e American Express. Il fatto è che la grazia balorda dell'uscita di scena di George W., questo suo contare i giorni verso il ritorno nel soffice anonimato texano, il suo modesto tentativo di arrotondare gli spigoli appuntiti dei suoi due mandati, con qualche ammissione, qualche pretesa, qualche motivata richiesta di riconoscimenti e un discreto fardello di silenzi (certo, poi c'è sempre il modello Cheney, quello che quando gli dicono che 3 americani su 4 detestano la sua guerra in Iraq risponde: Sì e allora?), insomma questa angusta sunset street (i boulevard ormai sono tutti obamiani), ci spinge ad aspettare, a rinviare i bilanci mortiferi relativi al 43esimo presidente. C'è molto da arrabattarsi col change, tanto vale lasciare a lievitare gli eventi dei primi 8 anni del XXI secolo, prima di incasellarli. Quanto allo scarparo, vorremmo non ne uscisse furbescamente da eroe.
Poi ci sono le cose che non cambiano, che ti aspetti di ritrovare e che per fortuna ritrovi sempre. Le luci natalizie nel freddo natalizio, che saranno un'emozione semplice, ma scaldano il cuore, basta passeggiarci in mezzo e pare che tutto si ricomponga, che quella bellezza è impossibile che vada perduta. O le partite dei Knicks al Madison, che tra poco lo chiudono e verrà sostituito dal terzo building con quel nome, assecondando la regola che pretende che New York si evolva nel parco a tema di se stessa. I Knicks, poi, sono diventati una squadra pazzesca, da quando l'ha presa in mano coach D'Antoni, sebbene del ragazzo-prodigio Danilo Gallinari ci sia solo la delusione di non vederlo in campo, distrutto da improvvidi allenamenti che gli hanno infiammato una schiena che non vuole saperne di mettere giudizio. Ma i Knicks sono uno spettacolo: non vincono molto, hanno solo un paio di talenti veri nel roster (gli orgonici Harrington e Robinson) e un mazzo di comprimari, ma si sono assoggetati al dettato di gioco del nuovo allenatore: seven seconds or less, arrivare al tiro in un baleno, fare tutto di corsa, trasformare un gioco che già è parossistico per velocità e muscoli, in una folle corsa-con-tiro-al-bersaglio, una corrida che manda in visibilio i tifosi, anche se la classifica non brilla. Almeno sotto i canestri la depressione a New York è svanita, e anche qui il bello deve ancora venire, dal momento che per luglio 2010 l'appuntamento è fissato per l'atterraggio di LeBron James, il re designato, il gigante che domina questo sport e diventerà, in blu-arancione, l'amore legittimo di una città in cerca di modelli positivi.
“Il tempo fuori fa paura / ma il nostro caminetto è delizioso / e dal momento che non dobbiamo andare da nessuna parte / lascia che nevichi / lascia che nevichi. Pare proprio che non voglia smettere / e io ti ho portato un po' di granturco da far saltare / abbassiamo le luci / e lascia che nevichi / lascia che nevichi” (Let It Snow, 1945). Poi ci sono le canzoni di Natale. Mi fa impazzire come gli americani affrontino la questione in modo totalitario e implacabile: arriva Natale? Allora che dapertutto, in qualsiasi negozio, centro commerciale, casa, stazione o luogo pubblico risuonino, senza interruzione, le canzoni di Natale, che in tutto poi saranno una ventina. Il bello è che funziona: per quanto le versioni varino dal jazz, al country, alla new age ai vecchi crooner, dopo un po' t'entrano in circolo e non se ne vanno più. Ti svegli la mattina e cominci a sentirle suonare ed è così per tutto il giorno. Un'ossessione, ma anche un lenzuolo di suoni e ricordi nel quale puoi lasciarti avvolgere. Nei suoi limiti di buon gusto e di effimero, il Natale americano alla fine non permette a nessuno di restare indietro o di far finta che la festa non ti piaccia. Nell'aria risuona un colossale tintinnio di campanelle ed è come se il cielo fosse solcato da dozzine di squadriglie di renne. Conviene abbandonarsi alla sia pur stanca prosaicità intermittente delle feste newyorkesi.
C'è un museo a NY che mi piace più degli altri, perché non è ingorgato di turisti, non c'è quasi mai nessuno, a parte le scolaresche la mattina, e ti accolgono con sollievo alla biglietteria, per non dire delle ore che poi spenderai nel più goloso gift shop della Grande Mela. Si chiama New York Historical Society, si affaccia sul lato occidentale del Parco in un'autorevole building color cipria, e s'occupa di tener conto e di spettacolarizzare, con mostre dalle modeste pretese accademiche ma dalla vivida struttura rappresentativa, la storia della città, ma soprattutto la formazione degli Stati Uniti, attraverso il succedersi di partenze, fermate, strade sbagliate, deviazioni e prodigiose ripartenze. Negli anni scorsi sono andate in scena due belle mostre sul tema della schiavitù e della riconciliazione, “Slavery in New York” e “New York Divided: Slavery and the Civil War” che affrontavano il problema di petto, prima di tutto nella sua troppo trascurata componente economica. Questa volta la NYHS presenta “Grant and Lee in War and Peace”, dove le due incarnazioni viventi del dilemma originale americano – la schiavitù e il paese orizzontale da una parte, il grande potere centralizzato e l'aspirazione alla nazione-modello dall'altra – vengono descritti con gran messe di documenti e parafernalia, incluso un mirabile cyclorama di Gettysburg. Esco dalla mostra portando nel sacchetto una stampa su alluminio di una foto del generale Grant immortalato al centro del suo staff, inclusi un paio d'indiani in giubba blu. E' un'immagine imponente, le pose sono altere, c'è l'atmosfera di chi ha vinto una guerra incredibile e deve operarsi per far ricominciare la vita. Le assonanze siano sufficienti per considerarla un'icona augurale di quanto succederà il 20 gennaio. Quando il generale nero dovrà occuparsi di fare le scelte per tutti, e più di una sarà dolorosa.
A un certo punto del mio soggiorno, una mattina, sono andato a dare un'occhiata a Montauk, la punta estrema di Long Island, su fino al faro, nel gelo vetrificato di un dicembre che lì appare irrisolvibile, almeno finché all'orizzonte non scintillerà la teoria dei Suv e delle familiari che trasportano i ricchi di New York e gli irriducibili alternativi che il Natale lo passeranno tra caminetti, ostriche e pesce fritto, in un delirio di golfoni melange e doposci calzati sulle dune bianche. Il motivo di arrivare fin là, tre ore di traffico faticosissimo dopo il tunnel che scaraventa fuori da Manhattan, è che per un verso il posto ti s'annida dentro, e per l'altro continua a essere – a portata di mano – un'irrinunciabile occasione per dare a una banale vacanza americana uno spruzzo di misticismo. Una cosa breve, istantanea, forte. Basta parcheggiare la macchina, sfidare il grigiore e i sibili d'Atlantico, mettersi alle spalle le luci pallide del villaggetto, accese anche di giorno, e camminare senza ritmo sulla spiaggia. La purezza riaffiora subito, la predominanza dello spazio torna sovrana in pochi minuti. L'opportunità è lì, a portata di mano, tra colori lividi, ammonimenti dell'oceano, il tutto lasciato a se stesso. E' irresistibile e ciclica la tentazione di capire come sia stato, di avere una sommessa intuizione di ciò che è transitato di qui, della solennità e delle elettrizzanti prospettive di coloro che ebbero in sorte il titolo di capostipite, l'occasione di ricominciare da capo – irripetibile – che cotituisce il fondamento santo d'America. Ben prima di Grant e Lee, prima dell'ordine e delle sue inattese conseguenze, prima della fiera delle vanità, dei sogni infranti, delle rincorse, delle cadute, prima della maturità invocata e della banalità in agguato. A un certo punto della passeggiata ci s'arresta, di colpo il vento è troppo forte, il freddo sale, deflagrano gli spruzzi d'acqua che arrivano dal mare o dal cielo. E' delicato asserire che un modesto tracciato mattutino di questo genere possa perfino essere motivo sufficiente per il viaggio nel suo insieme. Ma chi soffre della malaria intellettuale che fa sembrare l'America un miracolo offerto all'umanità, a dispetto della sua autodistruttività, capirà. Come in un posto così, ci si possa spingere a cercare un mistero dello spirito.
(Di ritorno, allo sbarco a Fiumicino. Mia figlia, in coerente adesione ai temi della sua personale esperienza Usa, chiede perché diamine si sia intitolato quell'aeroporto a tal barbogio Leonardo da Vinci, e non, più coerentemente, al suo omonimo Leonardo Di Caprio, assai più carino. Aeroporto Leonardo Di Caprio di Roma. Buone Feste!).
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