“Il sangue è sangue”. Così i medici israeliani curano i feriti di Gaza
“Le nostre sale operatorie non sono protette, possiamo essere colpiti in ogni istante”. Il dottor Ron Lobel era al lavoro al suo ospedale di Ashkelon, il Barzilai, quando ieri un altro israeliano è stato ucciso dai razzi di Hamas.
“Le nostre sale operatorie non sono protette, possiamo essere colpiti in ogni istante”. Il dottor Ron Lobel era al lavoro al suo ospedale di Ashkelon, il Barzilai, quando ieri un altro israeliano è stato ucciso dai razzi di Hamas, caduti sugli operai arabi che affollano i cantieri edili d'Israele. Ashkelon è una delle città dove la sirena dell'allarme “Zeva Adom” (colore rosso) dà quindici secondi per trovare riparo dal missile in arrivo. E' una città industriale di mare dentro ai confini riconosciuti di Israele, centoventimila abitanti con scuole, uffici e fabbriche. Ma è anche la città dei miracoli, dove l'ospedale Barzilai lavora notte e giorno per soccorrere i palestinesi feriti nelle incursioni israeliane. Dove le donne di Gaza vanno spesso a partorire e i medici israeliani si prendono cura di tutti, come nel reparto oncologia dello Schneider di Petah Tikva, dove il trenta per cento dei bambini è arabo. Come al Tel Hashomer di Tel Aviv, dove due mesi fa è arrivato un bambino iraniano per essere operato.
L'ospedale Barzilai è a una ventina di chilometri dal confine con la Striscia di Gaza. Con i suoi 490 posti letto, 250 medici e 700 infermiere, la struttura cura le vittime israeliane dei razzi, i militari con la stella di David feriti nelle operazioni e le vittime palestinesi della guerra tra bande e i nuovi nati delle madri palestinesi. E' un'isola di vita in un lago di morte. Se nel 2006 Israele ha concesso 4.932 permessi medici ai palestinesi di Gaza, nel 2007 il numero è salito a 7.176. Molti pazienti dell'ospedale di Ashkelon sono stati portati nel sottosuolo, per timore che l'ospedale venisse colpito come in passato. E sotto terra i pazienti del Barzilai sono tutti uguali, arabi ed ebrei, israeliani e palestinesi. I medici israeliani non chiedono la carta d'identità, si prendono cura di tutti.
“Israeliani e palestinesi sono distesi l'uno accanto all'altro” ci racconta Lobel, che a lungo è stato il responsabile sanitario dell'amministrazione israeliana a Gaza e oggi è il vice direttore del Barzilai. “Degli undici bambini presenti, due sono palestinesi. Il sangue è sangue. Per noi è il privilegio di essere medico. Ogni paziente che bussa per ricevere aiuto, lo riceve”. Haula Fadlallah, palestinese della Striscia di Gaza, è stata ricoverata al Barzilai per una gravidanza plurima: ha dato alla luce due maschi e due femmine, assistita da sette medici israeliani. Vania Suleiman di Jabaliya, località nella Striscia, a causa di un ictus aveva perso conoscenza quando era incinta. Al Barzilai ha partorito il suo terzo figlio. Ma lei non ce l'ha fatta. Poche ore dopo un missile si abbatteva presso l'ospedale, facendo tremare pareti e vetri. Se un Qassam dovesse centrarlo, a Gaza ci sarebbe festa nelle strade, senza pensare per un attimo ai palestinesi che vi vengono curati. Qui arrivano dopo che l'ospedale ha coordinato il trasferimento con i servizi sanitari di Gaza. Il dialogo non si interrompe mai, anche quando, come ieri, sono piovuti decine di missili su scuole e ospedali e i bambini devono ripararsi sotto i banchi. L'unico criterio è la lotta per salvare vite umane, anche e soprattutto quando fuori infuria la guerra. A marzo una coppia di gemelli palestinesi era appena venuta al mondo quando è caduto a soli cinquanta metri dal reparto. I gemelli sono stati portati nel bunker. “Avevo una forte paura che colpissero i miei bambini”, ha detto la madre, Iman Shefi di Beit Lahiya, a nord della Striscia. La cartella medica che le hanno consegnato era in ebraico, ma i medici le hanno parlato in arabo.
“E' il privilegio di essere medici”
Il dottor Lobel ci spiega che “il nostro ospedale è di media grandezza, ma siamo i più vicini a Gaza. Riceviamo così la maggior parte dei feriti di questa zona, siano israeliani o palestinesi. E' da anni che ci prendiamo cura di centinaia di feriti arabi. Il Barzilai è sempre stato l'ospedale di riferimento per gli istituti palestinesi, io stesso ho lavorato per tanti anni a Gaza. E c'era fin da allora un'ottima relazione professionale. Abbiamo avviato alla professione medica numerosi dottori e infermieri palestinesi. Gaza è stata aiutata prima che il mostro Hamas crescesse a dismisura. A Khan Yunis abbiamo da poco costruito un'unità di cure intensive. E anche dopo che Hamas ha preso il potere, ogni giorno arrivano dieci quindici palestinesi da Gaza”. Eppure la storia del Barzilai non affiora mai sui grandi media occidentali. “I giornali non sono interessati a queste storie, sono il sangue e l'odio che fanno vendere, l'amore e la riconciliazione restano in penultima pagina. Sabato, quando sono cominciati i bombardamenti, il mio ospedale ha ricevuto l'ordine di evacuare metà dei malati, che sono stati rispediti a casa o mandati in altri ospedali per far posto ai feriti. Ieri mattina è caduto un missile dall'altra parte della strada. Abbiamo predisposto anche un'unità nel sottosuolo come struttura d'emergenza. C'erano una trentina di feriti gravi, molti erano arabi israeliani che lavorano qui da noi”.
Il dottor Lobel sa che cosa significa vivere sotto la minaccia dei missili. “E' difficile lavorare così, ma quando arrivano i feriti, si pensa soltanto all'emergenza. Poi alla famiglia, ai figli, alla casa. Io vivo in una comunità agricola, Netiv Ha'asarah. E' accanto al passaggio di Eretz: la distanza fra la mia casa e il confine palestinese è di appena trecento metri. L'esercito israeliano mi ripete che sono fortunato perché i missili mi passano sopra la testa”.
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