Mi proteggo dal freddo. E dalle retoriche a buon mercato
Avvolto in una maglia di lana, poi in un pullover, poi in una nuova giacca di tweed, infine un bel giaccone, più sciarpa e berretto irlandese Donegal, il tutto giracchiando tra Roma e la Toscana del sud, non proprio zone polari, penso sempre a quel cazzone demagogo di Al Gore.
Avvolto in una maglia di lana, poi in un pullover, poi in una nuova giacca di tweed, infine un bel giaccone, più sciarpa e berretto irlandese Donegal, il tutto giracchiando tra Roma e la Toscana del sud, non proprio zone polari, penso sempre a quel cazzone demagogo di Al Gore, alla giuria del Nobel con quella vocazione imbrogliona di certa gente del nord, alla sindrome da riscaldamento globale di derivazione umana ovvero il cielo l'acqua l'aria e la terra devastati dai tubi di scappamento e da quattro capannoni con fumaiolo sparsi in una piccola parte di quel terzo di terre emerse che galleggiano nel pianeta liquido. Se questa è la scienza trionfante, mi viene di pensare che il sole gira intorno alla terra.
Ma non basta il freddo, non basta la neve, non basta quel che tocchiamo o sentiamo personalmente. Arrivano seminascoste le foto di ghiacciai molto in forma, che si allargano e si allungano e scendono a valle. I narvali di Hermann Melville non riescono a scappare dalla calotta polare che si chiude in anticipo sulle loro volute eleganti di grandi cetacei. Quanto al modo di riscaldarsi in tanta asprezza dell'inverno, apprendo (Herald Tribune, 27 dicembre) che le turbine a vento diventano freezer a pale, si fermano e spesso mandano in giro per l'aria pericolosi blocchi di ghiaccio; che i pannelli solari coperti di neve smettono di funzionare, e basta che uno solo sia completamente innevato per dare il via al black out dell'energia rinnovabile di tutto il sistema; che il biodiesel si raggruma nel freddo e molla lì, con i pullman ecologici fermi sulla strada 70 delle montagne del Colorado, e la ditta che li gestisce costretta a sospendere il servizio da novembre a marzo, essendo costoso andare a salvare passeggeri intirizziti e incazzati su per le vette, e per il resto a limitarlo al cinque per cento, perché in montagna fa freddo anche d'estate nonostante Al Gore. Ero negli Hamptons a ottobre e ammiravo nel giardino di un'amica dei funghi da illuminazione ben disegnati, di tratto e gestione leggera, senza rete elettrica, mossi da un quadratino di energia solare accumulata durante il giorno e pronta ad accenderli la sera al calar della luce. Ho domandato: "E quando non c'è sole durante il giorno?". Risposta: "Non si accendono".
L'America è percorsa da un'ondata religiosa di attaccamento idolatrico alle energie rinnovabili, alla televisione appaiono continuamente diverse facce di guru miliardiari che predicano la necessità di produrre e risparmiare energia come dicono loro, costosi spot fiduciosi in clamorosi ritorni: secondo certe poetiche obamite e centinaia di articoli di Tom Friedman da questa nuova industria sana dipenderebbe il futuro di generazioni, siamo nelle mani delle turbine a vento, e verrebbe da dire "in che mani siamo", e verrebbe da ubriacarsi del caro vecchio petrolio a buon mercato.
Un po' scherzo, un po' no. Piano con la messa al bando della ricchezza accumulata in questi anni nelle conoscenze, nelle banche, nei mercati e nell'economia globale trainata dal profitto. Piano con le prediche degli evangelici tedeschi contro la Deutsche Bank e la sua redditività al 25 per cento. Piano con la dannazione delle materie prime tradizionali. L'innovazione è una bella cosa. Le nuove tecnologie sono una cosa splendida. Ma la vecchia tendenza umana a consolarsi, edificarsi e salvarsi l'anima con le retoriche a buon mercato, quella è roba da cui guardarsi.
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