Per la rivista dell'Aspen Institute (presieduto dal ministro dell'Economia) la crisi non produrrà una débâcle degli Stati Uniti

Perché la tremontiana Aspenia non vede più apocalissi americane

Michele Arnese

Macché declino americano, la crisi è passeggera – e benefica, per molti versi – e gli Stati Uniti continueranno a essere sempre l'unica, vera superpotenza.

    Macché declino americano, la crisi è passeggera – e benefica, per molti versi – e gli Stati Uniti continueranno a essere sempre l'unica, vera superpotenza. Non si rintracciano toni apocalittici, versione Giulio Tremonti, nell'ultimo numero di Aspenia, la rivista dell'Aspen Institute Italia presieduto dal ministero dell'Economia, Giulio Tremonti. Anzi, la tesi di Aspenia è chiara fin dal titolo che condensa saggi, analisi e interventi, tra economia, finanza e geopolitica: “La crisi senza declino”. Di tesi, d'altronde, parla proprio l'editoriale della rivista diretta da Marta Dassù e Lucia Annunziata: “Sì, la nostra tesi è che l'America resterà al centro del sistema internazionale. Resterà il numero uno”. Ciò non vuol dire che al termine della crisi l'economia mondiale tornerà ad avere i connotati pre-bolla: “La distribuzione del potere economico è un vincolo anche per l'America, è vero; ma il mondo in cui quel potere si sta ridistribuendo la mantiene nel ruolo di perno dell'intero sistema globale”. Merito anche dell'assetto economico e istituzionale degli States: “Ancora oggi gli Stati Uniti restano il paese (e forse il governo) meglio attrezzato a reagire. Per capacità innovative, rapidità di aggiustamento alle novità e agli choc, massa critica (mercato interno e sbocchi esterni) e per alleati e partner disposti a collaborare”.

    A ristabilire la fiducia, come nelle crisi del passato, ci sarà “l'attivazione di sostanziosi interventi pubblici”. Ma l'interventismo statale, secondo Aspenia, sarà temperato: l'approccio basato su tagli fiscali, aiuti di stato e nuovi investimenti è il segno che “Obama può contare sul controllo del congresso democratico ma non vuole governare da liberal: sa che l'America è un paese diviso”: il 46 per cento dell'elettorato americano “ha votato comunque per i repubblicani e si autodefinisce di centro”.
    Alle analisi su genesi ed effetti della crisi – affidate tra gli altri a economisti (Piercarlo Padoan e Mario Deaglio) e a giornalisti (Federico Fubini e Stefano Feltri) – si legano quelle più di prospettiva geopolitica. In vista non ci sono nuove locomotive mondiali: “Se la globalizzazione a guida americana ha permesso la crescita di altri poli economici – in parte autoritari – la sua crisi produce anche quella dei potenziali rivali”. Basti guardare al colpo già inferto alle ambizioni economiche russe, con una fuga di capitali descritta nel saggio di Sergio Rossi, o al “terrore di Pechino per un rientro dei tassi di crescita sotto il 7 per cento”. “Anche l'Asia uscirà colpita da questa crisi dato che ha basato il suo modello di sviluppo prevalentemente sull'export – dice il membro italiano del board della Bce, Lorenzo Bini Smaghi, nell'intervista rilasciata ad Aspenia – Secondo alcune analisi, se la Cina scende sotto un tasso di crescita del 7 per cento all'anno, rischia proteste sociali che potrebbero rimettere in discussione il modello di apertura al mercato”. Non è però chiaro, come spiega l'economista Daniel Rosen, in che tempi Pechino riuscirà a compensare il crollo del mercato americano.

    Ma il mondo non sarà unipolare, anzi. La soluzione alla recessione, oltre che nella ripresa degli Stati Uniti, è un “assetto economico globale più equilibrato”. Con la Cina che aumenta la domanda interna e accetta di rivalutare lo yen, l'America che incrementa il tasso di risparmio e l'Europa che recupera in produttività. Assetto equilibrato ma non tanto, secondo l'economista Paolo Savona, che intravvede una “nuova bipolarità Usa-Cina, con l'Ue inerte e la Russia scalpitante”.