Una serenissima crisi
Il Nord-est chiude sì, ma solo per ferie. Si riapre presto, chi dopo l'epifania, come sempre, e chi poco dopo, l'11 gennaio, dopo tre settimane di inconsueta inattività per far fronte a un rallentamento della produzione. Si riapre, anche se con molti lavoratori in cassa integrazione in più e precari in meno e anche se osservatori hanno ipotizzato che il Nord-est possa essere la vittima illustre della crisi.
Il Nord-est chiude sì, ma solo per ferie. Si riapre presto, chi dopo l'epifania, come sempre, e chi poco dopo, l'11 gennaio, dopo tre settimane di inconsueta inattività per far fronte a un rallentamento della produzione. Si riapre, anche se con molti lavoratori in cassa integrazione in più e precari in meno e anche se osservatori come Giuseppe Turani hanno ipotizzato che il Nord-est possa essere la vittima illustre della crisi. Un po' dopo le feste si potranno contare i feriti sul campo di battaglia, le botteghe e le piccole aziende di artigiani che hanno sempre contato su portafogli di ordini che non vanno oltre 15 giorni, un mese, al massimo tre mesi, e hanno suonato il preallarme perché il Nord-est non può rallentare ed è meglio strillare prima che piangere poi. Feriti, e non morti, perché fino a ora le aziende che hanno cessato le attività, che non rientrino nel tasso di fallimenti fisiologico, sono per il momento poche. Nessuno, o quasi, da Verona a Trieste, ci sta a salire sulla gogna, a dire: “Ho fallito”, come invece sta accadendo in alcune zone della Lombardia dove diversi capitani d'industria si confessano a vicenda i propri fallimenti.
Non ci stanno, i veneti, a uscire dalla fotografia che ha immortalato il miracolo economico di quelli che sono stati chiamati “i cinesi d'Italia” e infatti le loro imprese sono da tempo con i piedi ben piantati nei mercati asiatici, in Cina, in Vietnam, in India e persino in Uzbekistan. “Andrà meno peggio nel Nord-est che nel resto d'Italia, la flessione del pil infatti nel 2009 non sarà di segno negativo, ma pari allo 0”, spiega il professor Daniele Marini, sociologo, e direttore della Fondazione Nord-est. Qualcosa vorrà dire se i ristoranti sono pieni e i negozi quasi, visto che i consumi di una domenica prenatalizia nel Veneto hanno registrato un aumento del 3,5 per cento rispetto all'anno scorso. In controtendenza con quelli che stanno un po' più giù, un po' più a ovest. Allora i casi sono due: o i negozi sono pieni di disoccupati che spendono e ingannano così l'attesa della recessione o gli indicatori sono condizionati dall'incertezza e dalla paura. O dall'involontaria schizofrenia dei protagonisti dell'economia che non riescono a fare previsioni certe. “Artigianato futuro grigio”, aveva suonato la tromba il Gazzettino qualche settimana fa, riportando le paure di 18 mila aziende trevigiane che poi però hanno corretto le previsioni dopo un'indagine interna fra gli associati da cui è emerso che tutti, o quasi, l'87 per cento, ritengono che l'occupazione nelle proprie imprese rimarrà invariata fino a giugno. “Ciamare nordest el Veneto xe una bela astuzia perché pare parlare di tere lontane”, dicono spesso i veneti, indignati.
La crisi nel Nord-est pare grave sì, ma solo se vista da lontano. Più ci si avvicina, più tutto diventa confuso, articolato, contraddittorio, misterioso, involontariamente umoristico. Sarà perché questa è la regione più rissosa, controversa, inquieta d'Italia, ma pare strano, paradossale, che tutti, artigiani, imprenditori, piccoli e grandi, parlino delle loro difficoltà, della paura di non farcela, del credito bancario che si è ristretto, degli ordini che si sono fermati, del rallentamento della produzione, e poi, alla domanda di rito, mi-scusi-la-sua-azienda-come-va, rispondano: “Bene, grazie, non mi lamento”. E infatti se proprio devono farlo, se devono parlare dei dati, dei segnali allarmanti, allora loro, tirano fuori i decimali. Come fa Daniele Marini, ex testa pensante della Cisl, che sottolinea il paradosso: la crisi e le molte aziende, moltissime, che hanno aumentato il loro fatturato, perché hanno saputo trasformarsi, innovare, investire, e soprattutto fare rete, creando consorzi, “il 58 per cento delle aziende venete”. Si sono internazionalizzate e ingannano così la crisi, la stagnazione, e già che ci sono ingannano anche i sindacati, visto che sulla carta rimangono piccole imprese, ma in realtà, unite, e facendo entrare nei consigli di amministrazione i direttori di altre imprese affini, ne fanno una di medie o grandi dimensioni. “Non si deve fare una somma algebrica di cali e di crescite altrimenti lo sguardo allo stato di salute delle imprese nel Nord-est è strabico”, ci ha detto Marini, che studia da anni la geografia economica del Nord-est e sa bene che qui tutto convive e spesso si sovrappone: crisi e crescita, stagnazione e innovazione, incertezza e tremenda ricchezza.
Ecco i dati che probabilmente metteranno un po' al riparo il Nord-est dalla crisi nel 2009. “Probabilmente” perché nessuno qui vuole mettere la mano sul fuoco, visto che le previsioni di questi tempi hanno un solo indicatore comune: la smentita. Le previsioni di Prometeia parlano di decimali che sono essenziali, perché nascondono milioni di euro. In Veneto nel 2008 la contrazione del pil è stata negativa sì, ma dello 0,1 (nel resto del paese il decremento è stato dello 0,2 per cento) ma nel Nord-est è stato fermo allo 0 per cento e anche nel 2009 nell'intero Nord-est ci si fermerà a 0 per cento. “Quando si dice 0,0 significa che ci sono quelli che vanno sotto di dieci e altri che crescono di dieci”, spiega Marini. Infatti se si disaggregano i dati, nel 2009 il Veneto avrà un'inflessione dello 0,1, che è un'altra cosa rispetto al resto del paese che dovrebbe registrare un andamento negativo dello 0,4 per cento, ma siccome il Trentino Alto Adige e il Friuli sono sostenuti sia da finanziamenti pubblici maggiori sia da settori produttivi domestici che reggono, allora la somma finale non è di segno negativo. Nel 2010, quando dovrebbe passare la bufera, la crescita del Nord-est dovrebbe essere dell'1,1, mentre in Italia dello 0,8 per cento.
Dicono così gli analisti. “In Italia”, come se quassù si fosse su un altro pianeta. E infatti ci si interroga su perché al tavolo della crisi economica convocato dall'assessore all'Economia della regione Veneto, Vendemiano Sartor, che ha stanziato fondi extra di 10 milioni di euro per gli artigiani, 13,5 per l'industria e 1,2 per i commercianti, si siano presentati in pochi e lui li abbia accusati di non avere la consapevolezza della crisi. Quasi che non ci credano neanche loro, quasi che siano convinti che, dietro agli allarmismi, al suono delle trombe, alla recessione che arriva, loro, bilanci alla mano, credano di potercela fare da soli. Secondo l'agenzia Veneto Lavoro, per esempio, sono sì calate le assunzioni da gennaio a ottobre di circa 25 mila unità rispetto al 2007 e che sono aumentati i precari, ma è anche vero che sono stati creati 233 mila nuovi posti di lavoro anche se molti precari. Preoccupa l'aumento della cassa integrazione sia ordinaria sia straordinaria, che nel 2008 si stima abbia raggiunto 15 milioni di ore (il record è a Vicenza con quasi due milioni di ore), ma è anche vero che nel 2006 ci sono state 14 milioni e mezzo di ore: proprio nell'anno in cui il pil nel Nord-est ha raggiunto il fatidico +2 per cento. Nei primi nove mesi del 2008 i licenziamenti collettivi sono stati 4.800, ma la cifra è identica a quella del 2007, mentre per quelli individuali nei primi nove mesi del 2008 sono stati 8.500 contro i 6.200 del 2007 (si calcola però che alla fine del 2008 si arriverà a quota 12 mila).
Ma se poi si guarda all'export, vera cassaforte del Veneto, si scopre che il commercio estero è cresciuto dello 0,5 per cento nel 2008 e continuerà a crescere dello 0,4 per cento nel 2009, mentre il turismo, prima industria della regione per fatturato, si trova sotto il segno dell'instabilità, ma nel 2008 c'è stata una crescita dello 0,6 per cento, ci ha fatto notare il vicepresidente della regione, Franco Manzato, con delega al turismo, il chiodo fisso per l'autonomia finanziaria e una grossa avversione per la delocalizzazione. Da qualsiasi prospettiva la si guardi, la fotografia risulta mossa perché è difficile interpretare che cosa accadrà quando a metà gennaio riapriranno le aziende perché qui la bottega convive con l'impresa media, la delocalizzazione con l'internazionalizzazione, il terrore con l'ottimismo, il birignao con la presunzione di essere migliori, di farcela, separati-ma-insieme-sarebbe-meglio, il fatturato con l'incertezza, mentre il paracadute per i nuovi disoccupati dovrebbe essere ampio visto che la regione ha firmato un accordo con i sindacati che prevede un fondo di tre miliardi di euro per ammortizzatori sociali.
Tutti, economisti, sociologi, sindacalisti, politici concordano sul fatto che il Nord-est è cambiato, che le cartoline che ci hanno inviato per trent'anni sono desuete perché tante aziende ormai hanno fatto il salto e da piccole sono diventate medie e quelle medie grandi, molte imprese s'internazionalizzano pur rimanendo a casa e per questo – come ha scritto Marini – i distretti sono diventati “dislarghi”: hanno ridefinito i loro confini e per questo motivo molte aziende reggeranno il colpo della crisi e potrebbero sostenere quelle più deboli. Per questo bisogna stare insieme, fare rete, come hanno già fatto in questi giorni il consorzio delle piccole e medie imprese di Vicenza che sono andate in Turchia a stringere accordi commerciali e ora puntano verso l'Austria e ancora più su, in Scandinavia, perché chi si ferma è perduto. “Se altrove le cose vanno bene, qui vanno meglio, se nel resto d'Italia la faccenda si mette male, qui molto meno”, spiega Paolo Feltrin, docente di scienze dell'amministrazione a Trieste, anche lui convinto che il Nord-est non chiuderà, anzi, e che la crisi sarà benefica perché accelererà il processo di metamorfosi avviato 15 anni fa.
L'elenco delle eccellenze è lungo: Benetton, Geox, Lotto sono i nomi più famosi. Ma anche la Zamperla di Altavilla che vende giostre meccaniche alla Disney e ha stabilimenti in Cina e nelle Filippine. Poi la Shuco, che ha registrato una crescita del 30 per cento con pannelli fotovoltaici, e la Inglass, leader mondiale negli stampi della fanaleria automobilistica e così via, ci ha fatto notare un altro economista, Roberto Fini, convinto che nel 2009 sopravviveranno i più forti, e non sono un'eccezione. Ma se poi si scende dalle vette dell'economia, a valle, nelle aziende, nelle botteghe, dove si guarda agli economisti con lo stesso sconcerto che si riserva ai meteorologi dopo una bufera non prevista, fra gli artigiani che hanno inventato il miracolo del “piccolo è bello”, il tono cambia, anche se solo fino aun certo punto. “I magazzini sono pieni e gli ordini non arrivano, non si sa che cosa succederà a gennaio, ogni giorno litigo con le banche che chiedono ai nostri associati di restituire i prestiti”, dice Mario Pozza, presidente di Confartigianato della marca trevigiana, laboriosa e amorosa, si diceva una volta. “Su 450 mila occupati nella provincia di Treviso oggi ce ne sono 4.000 in mobilità, che rappresentano meno dell'1 per cento, ma fanno paura ugualmente perché fino a un anno fa da noi i disoccupati erano quelli che chiamavamo da elenco telefonico: passavano il tempo al telefono a cercare impieghi che poi rifiutavano. “C'è incertezza più che crisi”, ammette Pozza, tredicimila aziende associate ma solo alcuni casi di fallimento. “Ogni segnale negativo si trasforma in allarme”, ripete, ma quando gli si chiede chi chiuderà e chi no, dice che non lo sa, forse alcuni, forse nessuno perché si naviga a vista, ma si ha soprattutto paura perché nessuno qui aveva mai lavorato senza fare straordinari, e siccome le aziende lavorano con portafogli di ordini a 15 giorni, un mese al massimo, nessuno sa che cosa accadrà realmente a gennaio. Mario Pozza ha un laboratorio odontotecnico e, alla domanda di rito, risponde: “Bene, non mi lamento grazie”.
Così com'è difficile dare un'interpretazione univoca anche alla situazione di Vicenza: 80 mila aziende, di cui 26 mila artigiane, che messe insieme esportano più di tutta la Grecia. Il rapporto 2008 sull'artigianato vicentino è così complesso che il presidente dell'associazione artigiani, Giuseppe Sbalchiero, lo presenta così: “Un mare infinito, imprevedibile, attraversato da dinamiche non controllabili localmente, capaci di cambiare repentinamente e ripetutamente nel breve tempo perché l'osservatore economico oggi è paragonabile a una vedetta che, abbarbicata in cima all'albero maestro scosso dalla tempesta, scruta l'orizzonte. “A Vicenza ci sono ogni anno 1.700 imprese che nascono e circa 1.730 che muoiono, ma non sappiamo quali si siano trasformate, ma qualcosa vorrà dire se a un appalto edilizio di 500 mila euro si sono presentate 86 aziende”, ci ha spiegato Sbalchiero, che dirige una piccola impresa edile e, alla domada di rito risponde: “Grazie, non mi lamento”.
L'unico che si lamenta, ma senza esagerare, è il segretario della Cgil trevigiana, Paolino Barbieri, che ha scatenato una polemica politica perché ha dichiarato che è ora di smetterla di invocare mano d'opera straniera e chiamare nuovi immigrati destinati a fare i precari, visto che su 16 mila domande di permessi di soggiorno quest'anno ne sono stati regolarizzati solo 242. “No, non sarà una catastrofe – dice al Foglio – ma nessuno sa cosa succederà a gennaio, molte piccole aziende potrebbero chiudere, ma quante non si sa”. Per lui il problema è che il famoso ciclo nasci-cresci-consumi-produci-crepa si è inceppato e l'epopea del piccolo è bello è finita. “Oggi ci sono 300 aziende in difficoltà e diecimila lavoratori cassaintegrati. Treviso ci sono 1.080 zone industriali, cosa dobbiamo fare?, comprarci otto telefonini a testa? A Treviso vi sono 90 mila partite Iva. Metà delle aziende si internazionalizzerà, un quarto farà il salto verso la dimensione media, ma un quarto, quelle che sono indebitate e hanno lavorato male, chiuderà”.
Allora viva la crisi che costringerà tutti a voltare pagina, a fare politiche industriali più responsabili, a scegliere un modello di sviluppo più compatibile. La stessa domanda se la fanno i conciari, che ad Arzignano hanno costruito la capitale europea dell'industria conciaria e per trent'anni non hanno perso un colpo, accumulando fortune che “spesso quasi mai hanno reinvestito nell'innovazione”, ci ha spiegato Gianfranco Refosco, sindacalista della Cisl. Seicento aziende che lavorano la pelle per divani, stivali, rivestimenti di automobili (e tanti manufatti che non finiscono nei libri contabili), che nel 2006, prima che iniziasse il declino, avevano ricevuto dalle banche 90 milioni di euro e quando la prima ha chiesto la cassa integrazione straordinaria, nel 2006, tutti hanno cominciato ad avere paura. Soprattutto perché molti esportano negli Stati Uniti. Su 600 aziende oggi ce ne sono 60 che hanno fatto ricorso alla cassa integrazione e non si sa quante verranno sacrificate dalla selezione naturale che premierà i più forti, i più bravi. “La crisi non è ancora arrivata, stiamo attenti alla demagogia – dice la segretaria generale della Cisl veneta, Franca Porto – ma arriverà e bisognerebbe imitare l'esempio della Germania e ridurre la settimana lavorativa per evitare di licenziare”.
Arriverà e sarà dura, ma non per tutti. Non per i lavoratori della Sinv di Carrè, in provincia di Vicenza, che a Natale hanno ricevuto a sorpresa una mensilità in più perché l'azienda di abbigliamento ha voluto premiare i 360 dipendenti: un'operazione che è costata un milione e mezzo di euro ai soci, ma non importa visto che gli utili in crescita nel 2008 sono stati di 12 milioni. Arriverà e sarà dura, ma non per tutti, visto che l'azienda odontoiatrica di Verona, la Revello, ha detassato la tredicesima ai 120 lavoratori: 200-300 euro in più sulle buste paghe di dicembre per motivarli e dare un contributo ai consumi. Quassù, ci si comporta come se stesse per arrivare una guerra nucleare, si costruiscono bunker, si stanziano fondi extra per non farsi cogliere di sorpresa dall'emergenza, si fanno monitoraggi sulla crisi con la stessa velocità con cui prima si costruivano capannoni. Si stanziano fondi di garanzia per aiutare le aziende in difficoltà con le banche, si è creato un fondo etico per aiutare il ceto medio ad accedere al mercato immobiliare.
Si organizza un megadistretto del turismo per sostenere le zone a rischio, si parla di adottare una politica economica espansiva, si creano con fidi che facciano da moltiplicatori dei crediti bancari, si stanziano fondi per l'innovazione e la ricerca, si mandano le aziende turistiche in avanscoperta a Dubai per sostituire i turisti americani che non verranno nel 2009 con gli arabi che si spera arrivino. E poi si litiga con il governo centrale per avere leggi che sblocchino le piccole opere pubbliche, si festeggia all'inaugurazione dei primi 32 chilometri del passante di Mestre, si chiede di aumentare lo stipendio dei cassaintegrati a 1.200 euro, anche se è impossibile, ma non importa perché il Nord-est non si deve fermare perché è il motore trainante dell'economia italiana e tutti dicono: “Se sprofondiamo noi, sprofondano tutti”. Sarà per questo che il ministro Maurizio Sacconi, che è di Conegliano Veneto, ha azzardato un'ipotesi, suggestiva. E cioè che sarà il Nord-est e non il Nord-ovest a guidare il paese dopo la crisi e a soppiantare, forse, una classe dirigente un po' stanca con quella dei Benetton, i Tomat, i Riello, i Polegato e a trasformarsi in una grande area metropolitana affacciata sui nuovi mercati del Sud-est asiatico. O almeno così a loro piace pensarlo, perché hanno una generazione in meno di imprenditori e per questo sono più forti, hanno una marcia in più, come ci ha detto il presidente della Banca Popolare di Vicenza, Gianni Zonin, che ha disposto un aumento di finanziamento di due miliardi di euro per la piccola e media impresa per l'anno che sta arrivando. “Aumenteremo l'impiego del 13 per cento”, ci ha detto lui che è stato contrario a trasformare la sua banca in una società immobiliare e quando lo diceva, quando tutto andava bene, e la droga dei mutui a basso tasso inebriava tutti, lo guardavano come se fosse matto. “La crisi c'è, anche nel Nord-est, ma è una sfida per innovare, per completare la trasformazione del ciclo produttivo. Le sfide si affrontano e possibilmente si vincono”, dice.
Anche Andrea Tomat, che dirige la Stonefly e la Lotto, affacciata su 80 mercati internazionali, che ha chiuso il 2008 con 320 milioni di fatturato (20 in più del 2007), è cautamente ottimista. A gennaio diventerà presidente dell'Unione degli industriali veneti e sceglie le parole con cura. “Sarà un anno difficile per tutti. Fare previsoni è impossibile, ma la ripresa avverrà su basi più solide, si riequilibrerà il rapporto fra crescita e sviluppo, fra economia reale e quella finanziaria, che è stata a lungo dopata. Il Nord-est potrebbe essere protagonista perché c'è stato un processo di internazionalizzazione e di innovazione tecnologica. La priorità del governo regionale sarà proteggere chi rimarrà senza lavoro, garantendo un paracadute di ammortizzatori sociali, ma di imprese che chiudono non ce n'è: la situazione è a macchia di leopardo, disomogenea”.
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