Care anime belle, devo farvi una domanda
Non passa giorno senza che uno scrittore israeliano, un direttore d'orchestra o una coalizione di personalità varie della cultura rivolga a Israele un appello a fermarsi.
Non passa giorno senza che uno scrittore israeliano, un direttore d'orchestra o una coalizione di personalità varie della cultura rivolga a Israele un appello a fermarsi, a cercare soluzioni diverse dall'attacco militare contro Hamas nella striscia di Gaza, e questo in nome delle tragiche conseguenze della guerra sulle popolazioni civili, sui bambini. Aderisco pieno di compassione per il dolore della popolazione investita dal turbine dell'operazione “piombo fuso”. Non voglio ritorcere argomenti faziosi e squalificanti, assalire le anime belle e accusarle di indifferenza verso il criterio di responsabilità della politica, verso la concreta questione della sicurezza esistenziale di uno stato che vive sotto minaccia prenucleare e di una comunità che cerca di tutelare i suoi villaggi dai razzi sparati da un'organizzazione militare nemica (non uso nemmeno il termine terrorismo, così i puristi ideologici sono soddisfatti) sostenuta da Iran e Siria.
Aderisco con tutto il sentimento di cui sono capace. Perché non mi piace assistere alle stragi, non amo la prospettiva di una guerra di terra forse necessaria per smantellare Hamas dopo giorni di bombardamenti contro le sue strutture di governo, ne intuisco i costi ulteriori sul piano umanitario. Perché i firmatari di questi appelli sono brave persone, che credono nel diritto di Israele a esistere, uno dei quali ha visto suo figlio combattere e morire in Libano per quel diritto (David Grossman), brave persone che impegnano da anni la loro faccia e la loro arte nella battaglia pacifista (Daniel Barenboim), che hanno testimoniato amore per la libertà d'Europa (Vaclav Havel) o per il riscatto dell'Africa nera dalla vergogna dell'apartheid (Desmond Tutu). Tra di loro c'è anche il ministro degli Esteri ceco, Karel Schwarzenberg, che insieme al cancelliere Angela Merkel ha avuto in Europa la posizione realista più nitida sulle responsabilità che hanno condotto a questa guerra dell'ultimo dell'anno. Quindi aderisco, aderisco, aderisco.
Desidero che i miei quarantacinque lettori sappiano che la pietà non è morta, che tutti siamo in grado di riconoscere orrore, disperazione, crudeltà dispiegata dalla macchina di guerra. Sì, certo, abbiamo letto Alan Dershowitz e qualche editorialista americano di quelli che ignorano la casuistica e la melassa, avremmo gli argomenti per contestare l'argomento morale apparentemente infallibile della sproporzione tra i morti palestinesi e i morti israeliani. Sapremmo anche controbattere punto per punto il testo dell'appello intitolato “A Gaza è in gioco l'etica del genere umano”, chiaramente scritto dal teologo Hans Küng, teorico della Weltethik, dell'etica globalizzata o religione umanitaria dei diritti umani generici. Quando censurano la “hard security” perseguita dal gabinetto di crisi israeliano, preferendo “soluzioni creative al conflitto israelo-palestinese”; e quando sostengono che “è colpa dell'inasprimento della posizione dei politici israeliani se i palestinesi, con le spalle al muro, incominciano a non vedere altra scelta, per tradurre in realtà le loro aspirazioni nazionali, al di fuori delle tattiche più radicali”, non opporremo il fatto che si tratta di frasi tragicamente ridicole, che l'aspirazione all'indipendenza nazionale di Hamas non esiste, perché quell'organizzazione aspira a gettare a mare gli ebrei, a cancellarli dalla carta geografica. Sottoscriveremo, invece, e aderiremo. In nome della compassione che ha le sue ragioni.
Ecco. Ora che abbiamo aderito, che la nostra coscienza codarda è abissalmente pacificata, ora possiamo rivolgere con fraterna amicizia agli scrittori, al direttore d'orchestra, agli statisti libertari come Havel e Tutu, al teologo benintenzionato una domanda moralmente impegnativa. Ora che siamo con loro noi ci sentiamo in sintonia con le emozioni e le ragioni migliori e più nobili dell'opinione pubblica internazionale, che essi rappresentano degnamente. Ci sentiamo finalmente comodi, sereni, moralmente ineccepibili, perché non c'è niente di meglio che nutrire e ostentare la propria buona coscienza, sono cose che fanno bene al cuore. E' invece quasi disumano cercare di capire il fondo ruvido delle questioni politiche e stategiche. E' molto spericolato tentare di mettersi nei panni del gabinetto di crisi israeliano, fare i conti con quella società e con quello stato, con le informazioni dei suoi servizi di sicurezza, con le ansie dei suoi apparati e la paura dell'opinione pubblica. E' durissimo condividere quella condanna a far paura, a incutere timore al nemico, che si chiama deterrenza, nel linguaggio osceno del realismo politico. Mentre ci sentiamo confortati per aver aderito all'idea di soluzioni creative al posto della guerra, ci domandiamo se chiedere a Israele di fermarsi sia un modo di esercitare l'etica del genere umano o un modo di consolarsi e rifugiarsi nella più nobile noncuranza.
Leggi: Corpo a corpo con Hamas
Il Foglio sportivo - in corpore sano