Il linguaggio di mr O. verso il passaggio di consegne

Perché Obama conosce l'arte di evitare la battaglia sorvolandola

Stefano Pistolini

Conviene non distogliere mai l'attenzione da Barack Obama, neppure mentre andava in scena la sua vacanza hawaiiana coerente con il tentativo di sottrarlo allo sguardo del mondo – che s'incanta infantilmente a contemplare fotograficamente i suoi pettorali e a congratularsi con se stesso, perché siamo tutti un po' più buoni (o no?) dal momento che abbiamo spedito lassù un uomo così bello & virtuoso.

    Conviene non distogliere mai l'attenzione da Barack Obama, neppure mentre andava in scena la sua vacanza hawaiiana coerente con il tentativo di sottrarlo allo sguardo del mondo – che s'incanta infantilmente a contemplare fotograficamente i suoi pettorali e a congratularsi con se stesso, perché siamo tutti un po' più buoni (o no?) dal momento che abbiamo spedito lassù un uomo così bello & virtuoso. Ma più che sulle immagini conviene riflettere sul linguaggio di Obama, che anche in questi giorni ha dato nuova prova di sé, fornendo altri indizi sull'imminente salto di qualità nella rappresentatività della Casa Bianca a partire dal 20 gennaio 2009 (mentre stoltamente i repubblicani, per ora, sono ancora alle prese con il cd regalato ai colleghi di partito da Chip Saltsman ex stratega di Huckabee, contenente canzoni natalizie, compresa una razzista su Obama: “Barack the magic negro”, interpretata dal comico Paul Shanklin, che aveva già suscitato polemiche quando nel 2007 Rush Limbaugh l'aveva trasmessa per radio, e in cui un finto reverendo Al Sharpton, sostiene che  Obama piace ai bianchi perché “è nero, ma non è autentico”).

    Intanto Obama non si preoccupa certo di ridimensionare le dimensioni della sua impresa, anzi rilancia sul piano della descrittività: di questo, infatti, ci parla l'annunciato giuramento sulla Bibbia di Lincoln (che verrà pronunciato al cospetto alla statua del grande santo americano seduto nel suo memorial), o il viaggio verso Washington compiuto in treno da Philadelphia, con la fermata alla stazioncina del Delaware, dove monterà l'invisibile Joe Biden, ma dove lui potrà nuovamente evocare la simbologia del passaggio di quel fiume, come venne attuato dall'esercito di valorosi al comando di Washington 232 anni orsono, coincidenza che Barack s'è già premurato di utilizzare nel discorso di Natale via YouTube (discorso da presidente-eletto, è bene ricordarlo, perché quello ufficiale, anche se non se l'è filato nessuno, l'ha fatto George W. Bush, il più incredibile “dead president walking” della storia americana). Ma dicevamo del linguaggio: connettiamo due episodi recentissimi, come appunto il discorso augurale per Christmas e i toni utilizzati per provare a mettere una pietra sopra alle insinuazioni relative allo scandalo Blagojevich.

    Dunque, la parola secondo Obama. La rivalutazione della retorica e l'importanza degli atteggiamenti. Cominciamo dal discorso di Natale. Il tono è solenne ma cauto, senza gli accenti emotivi concessi a un effettivo capo, piuttosto che a un subentrante ancora in fase di pressurizzazione. I contenuti si puntano subito al tema del sacrificio di coloro che, nel nome del dovere e della servitù alla nazione, il Natale lo trascorrono lontano, lasciando un posto vuoto a evocarne la mancanza. Dopo l'omaggio ai militari, Obama morbidamente passa a rivolgere il pensiero e la sua promessa di preghiere a coloro che invece nel corso dell'anno hanno perduto molto di sostanziale: il lavoro, la casa, le certezze, nel maremoto economico che ha travolto il paese. In questo momento di empatia, prosegue Obama, ciascuno deve sentirsi tutore degli altri. Solo compenetrandosi si può risalire. Ed è solo qui che Obama ha tenuamente ricordato l'altro antico Natale americano, come dicevamo sopra, quello che ha mostrato che anche i fiumi più pericolosi possono essere traversati, che la speranza e la serenità sono in fondo alla lunga strada che si deve percorrere assieme. In sostanza una prova generale dei temi che – con toni più epici e parole più risonanti – Barack pronuncerà nella madre di tutte le inaugurazioni.

    Qui la qualità di Obama va cercata nella sua linearità e nella sua asciuttezza: gli ultimi prima di tutti e con loro coloro che soffrono. E quindi un segno di speranza ritagliato su un episodio altamente simbolico e da tutti conosciuto e condiviso, con la licenza, ancora una volta, di stendere un filo rosso tra gli inizi formidabili e il presente, tempo anch'esso di difficoltà ma anche di riscatto. La scelta del ritmo, della lunghezza, dell'indice della sobrietà del discorso, nonché la sua veicolazione “casual” su YouTube conferiscono al gesto notevoli crismi di funzionalità. E questo è l'Obama rappresentativo, quello che lavora da due anni all'edificazione del santuario da cui si rivolgerà agli americani. Passiamo invece all'Obama del primo cono di crisi in cui la squadra di transizione è incappata, ovvero le relazioni pericolose con quel mandrillo impazzito del governatore Blagojevich, con quello che a est di Chicago giurano essere il suo parrucchino e ora anche con quel pazzesco personaggio falstaffiano che è il suo avvocato Ed Genson – uno che se gliene danno modo si trasforma nel più distruttivo degli elefanti in una cristalleria. Anche qui per Obama si è posto un problema di linguaggio. Perché nella questione non voleva sprofondarci un millimetro più del necessario, a costo di lasciarci brutalmente impantanati almeno un paio dei suoi più cari collaboratori (Emanuel e Axelrod) ma al tempo stesso non poteva far finta di niente, giocare all'intoccabile, con il rischio di istigare i repubblicani, quelli del “Barack the magic negro”, a intercettare la faccenda con virulenza. Certo: c'erano i media inizialmente disorientati quanto all'atteggiamento da assumere, incerti se chiudere prematuramente la loro luna di miele con il trionfatore di novembre, attaccarlo violentemente, o lasciargli ancora lo spazio per respirare. C'era la squadra che per una volta non funzionava come il consueto oliatissimo meccanismo. E insomma toccava a lui prendersi le responsabilità del capo. E anche qui Obama ha giocato prima di tutto padroneggiando il linguaggio.

    Evitando sbavature verso l'alto (eccessi di arroganza e di accaloramento, perdite sia pure istantanee di controllo) o verso il basso (tentativi di minimizzare, cedimenti alle banalizzazioni guascone che fanno parte del bagaglio di tanti politici). Invece esponendo un atteggiamento di estrema consapevolezza del proprio potere: mi avete chiamato in causa perché questo rientra nei vostri diritti, visto ciò che mi avete accordato – ha suonato il suo messaggio. Per ciò intendo rispondere seriamente, ma anche secondo i modi e le tecniche che ritengo opportune a proteggere non tanto me stesso, quanto la posizione e le responsabilità che ho conseguito. Fin dall'inizio, fin da quella frasetta ammiccante e vagamente derisoria nei confronti del reporter che insisteva con i soliti interrogativi, replicando con un “Perché butti via le tue opportunità di farmi le tue domande?”, Obama ha chiarito la volontà di essere sempre il mazziere della partita, quello che decide quando il discorso comincia e quando finisce, quanto deve durare e le scadenze a venire. Il tutto senza perdere l'aplomb per un secondo, parlando della trasparenza come una religione, ma senza autorizzare il gioco in campo aperto, il botta e risposta, il dilagare delle ipotesi, delle insinuazioni, la possibilità del wrestling mediatico.

    Come ai tempi delle primarie, Obama conosce l'arte di evitare la battaglia sorvolandola, dimostrandosi disinteressato al personalismo che ne costituisce l'essenza. Nel dipanare il caso Blagojevich, nel proporre ai media un armistizio natalizio, lasciando il terreno prima che venisse reso pubblico il testo scritto che non ribadisce altro che quanto lui aveva annunciato una settimana prima – ovvero che il team non aveva fatto pressioni per il passaggio di mano del suo seggio senatoriale, e che solo modeste consultazioni iniziali avevano lasciato il passo a un totale distacco dalla questione – Obama si dimostra, almeno all'esordio, leader dotato di una licenza di posizionamento ben superiore alla media di chi l'ha preceduto – riservata tuttalpiù a coloro che, in vari momenti, sono stati convocati come salvatori della patria: Lincoln e FDR, per rifare due nomi oggi tanto abusati. Il tutto senza sbagliare una parola, senza abbassare lo sguardo, senza mostrare falle. In sostanza si apre il 2009 e il management del discorso operato da Obama è una delle novità sostanziali della stagione politica che stiamo vivendo. La sua capacità, esposta in questo momento di poderoso consenso, impongono a tutto l'ambiente circostante di elevare gli standard, di tornare a studiare, in poche parole di alzare il livello della professione. Che tutto ciò poi corrisponderà davvero al pubblicizzato cambio di regime della politica di Washington è il domandone la cui risposta si attende con ansia, mentre con la coda dell'occhio seguiamo la toponomastica del passaggio di consegne.