Basta fingere, la presa del Duomo è una dichiarazione di guerra

Giulio Meotti

Qualcosa è avvenuto e piano piano lo stiamo decifrando. Una vasta, silenziosa distesa di fedeli musulmani raccolta in preghiera davanti al Duomo di Milano. Usano un gergo muscolare, bellicoso, lanciano strali contro lo stato d'Israele, bruciano i drappi con la stella di David su sfondo bianco, come se fosse una effige satanica.

    Qualcosa è avvenuto e piano piano lo stiamo decifrando. Una vasta, silenziosa distesa di fedeli musulmani raccolta in preghiera davanti al Duomo di Milano. Usano un gergo muscolare, bellicoso, lanciano strali contro lo stato d'Israele, bruciano i drappi con la stella di David su sfondo bianco, come se fosse una effige satanica. A guidare la preghiera c'era il controverso istituto di studi islamici di viale Jenner, al centro di numerose indagini della magistratura per le accuse di terrorismo, oltre che pista di lancio per alcuni giovani mujaheddin diretti a Baghdad senza ritorno.
    Libero dalla mite cautela progressista che si mangia la verità delle cose, Gad Lerner ieri su Repubblica ha colto bene la questione, al di là delle sue tesi generali, quasi sempre diverse dalle nostre. Stavolta la tattica della minimizzazione e della edulcorazione, del troncare e del sopire, non ha funzionato. Lerner centra il problema quando dice che a Milano erano all'opera “profanatori della fede” e propalatori di un oscurantismo antisemita. L'intellettuale ebreo di sinistra non cade nel cinismo bonario e attendista della tolleranza verso gli intolleranti, che è la professione di fede dei mestieranti del dialogo. Lerner dice che il famoso spazio pubblico della religione, di cui si va discutendo da molti anni e che come è noto secondo lui sarebbe stato inquinato dai cristianisti, domenica è stato sequestrato da una “processione” islamica senza eguali, dove la preghiera e il rogo delle bandiere erano parte della stessa liturgia negazionista. I manifestanti non sono arrivati in piazza Duomo “per caso”, come dicono gli organizzatori. Avevano scelto un simbolo del cristianesimo occidentale e lo hanno fatto sotto la guida sapiente dell'imam di viale Jenner Abu Imad, già condannato per associazione a delinquere finalizzata al terrorismo.

    Lì hanno inneggiato ad Allah all'ombra della Madonnina. Quella piazza non è germinata in seno a un islam percepito a misura d'uomo, rispettoso della laicità delle istituzioni. Era il ramo dell'islam politico che non separa stato e moschea, la fratellanza musulmana il cui slogan non è mai cambiato dai tempi di Hassan al Banna: “Allah è il nostro obiettivo, il Profeta il nostro leader, il Corano la nostra legge, il jihad la nostra via, morire sulla strada di Allah è la nostra più grande speranza”. L'islamismo che ha conquistato il centro di Milano, perché di questo si tratta, non di una mera massa di “pacifici dimostranti musulmani”, prevedeva lo sgombero senza permesso della piazza, ha costretto la stessa cattedrale a chiudere. Quella distesa spettacolare e armonica è stata come un guanto tragico sulla faccia di noi “sfidati”, l'illusione della pace culturale veniva strozzata lentamente, scandita dall'invocazione coranica, in una morsa realista e cruda. Non sono piombati dal nulla e di notte quegli oranti, lo hanno fatto di giorno e sotto il naso di tutti. Un fatto simile è successo a Bologna, di fronte alla cattedrale di San Petronio, bersaglio del fondamentalismo islamico a causa di un affresco di Giovanni da Modena che raffigura Maometto tra i dannati, in accordo col canto XXVIII dell'Inferno dantesco.

    La laicità capovolta di Navarro-Valls. Domenica a Milano non era in gioco il diritto di tutti di pregare o di non pregare. Non si parlava della liceità di usare uno spazio pubblico per una manifestazione religiosa. E' stato un blitz simbolico senza precedenti. Gli islamisti puntano su una pedagogia che non ha paura delle parole e che sulle parole fonda la propria forza. Per questo la preghiera aveva valore assoluto, vincolante. La piazza di Milano, così piena di musulmani della seconda generazione, ragazzi nati e cresciuti fra le nostre case, nelle nostre scuole, in mezzo a noi, ci parla poi del fallimento del conversionismo multiculturale. L'idea cioè che sia possibile trasformare i musulmani in secolaristi liberal. L'idea che fosse scontato che i musulmani potessero essere assimilati all'ambiente secolarizzato. L'idea infine che, avendo conosciuto la modernità, ne sarebbero stati sedotti fino al punto di rinunciare all'ethos guerriero. Quello riunito a Milano era in maggioranza un islam pronto a scagliarsi contro i non credenti e i musulmani eterodossi, gli agnostici, i laici, i non praticanti, i semipraticanti, i trasgressori della morale islamica, con particolare accanimento verso le donne, da sottomettere per ricostruire una nuova società conforme alla sharia, da imporre con ogni mezzo.

    Dopo il monumentale discorso di Papa Ratzinger a Ratisbona si disse, e assieme a noi lo dissero anche alcuni decani della cultura europea, che il dialogo tra mondo cristiano e giudaico, l'umanesimo occidentale, e l'islam tutto volontà e trascendenza, si sarebbe svolto su serie basi di confronto identitario, non nella pomposità dello sfoggio multiculturale o nell'insincerità delle buone intenzioni e dell'irenismo. Spetta anche a noi aiutare i musulmani a vincere questa guerra epocale interna alla casa d'oro del Profeta. Possiamo farlo favorendo l'ascesa di una generazione non infarcita di odio contro gli ebrei, i cristiani e gli apostati. Il monolitismo maomettano è altra cosa dal monoteismo giudeo-cristiano e la cristianità, con il modo di vivere laico e libero che ha prodotto, ha un ruolo di prim'ordine per evitare che anche il ramo tradizionalista dell'islam venga travolto dalla slavina negazionista in atto dopo l'11 settembre e che non ha alcun rispetto per le moschee, per le funzioni religiose, per gli imam e per i fedeli. Nell'islam è ancora viva la speranza che la storia possa essere cambiata senza violenza su larga scala, senza millenarismo, senza islamismo politico. E quella speranza è scritta anche con il sangue di migliaia di musulmani trucidati ogni anno dai loro fratelli islamisti.

    Dopo la processione musulmana di domenica, sfociata nel capovolgimento iconico dell'Olocausto ebraico, con Israele paragonato al Terzo Reich, la cultura cattolica però è rimasta silente. E' sembrata mancarle la deterrenza, la decisione e la volontà di far pesare la nostra scelta in favore dei diritti umani universali e dello stato di diritto nei nostri territori sovrani. Cosa sarebbe successo se un'adunata di fedeli cattolici avesse riconsacrato simbolicamente quelle due piazze? Quali sarebbero state le reazioni, anche da parte degli stessi che oggi insinuano il dubbio del fondamentalismo islamico imperante, se un corteo di dimostranti cattolici avesse marciato fino alla moschea di Roma in segno di protesta contro la strage seriale di cristiani iracheni?
    L'articolo di Lerner è rimasto isolato anche all'interno del multiculturalismo à la carte. Di fronte alla preghiera collettiva di Milano sono rimasti muti i guardiani severi di una laicità privata di significato. Ci si accorge soltanto ora che la libertà di culto, di parola, di coscienza e di opinione, di cui lo stato d'Israele in medio oriente rappresenta il tragico pegno e inveramento, non sono minacciate dalla legalità comune che ha formato nei secoli il nostro habeas corpus, ma dalla cavalcata islamista? Una minaccia globale, più che l'ipotesi di pochi fanatici, che si nasconde spesso dentro alle nostre matrioske sociologiche, al nostro parlare di xenofilia.

    La preghiera di Milano faceva parte dell'acculturazione dei musulmani d'Europa, intesa come “dar al shaada”, terra di missione religiosa, da parte delle organizzazioni islamiste. Lo scopo della preghiera era quello di attrarre fedeli al Profeta. Era pura apologia dell'islam come “la soluzione”. Dietro alla retorica contro lo stato ebraico che starebbe cannibalizzando i palestinesi di Gaza c'era il martellante rigetto di tutto ciò che di meglio ha prodotto la nostra civiltà. E' l'idea di una sottomissione cultural-politica a un unico Dio che fissa la sua legge dai diretti effetti civili e una volta per tutte, che vieta ogni interpretazione plurale, che non conosce libertà di coscienza e libero arbitrio e che tratta i non islamici, ebrei e pagani, cristiani e atei, come sottouomini ai quali è richiesta la conversione forzata.

    Da noi manca la volontà, abbonda la paura. Manca la fantasia per immaginare come andrebbero le cose se non ci limitassimo alla profferta di dialogo e al tradimento, mascherato da moralismo, di quei pochi musulmani “moderati” (noi li abbiamo chiamati dissidenti) che cercano in occidente una spinta riformatrice e democratica e la coltivano, quasi sempre in carcere e spesso spenzolando dalla forca, nei paesi arabo-islamici. Non abbiamo garantito un'eco ad Ahmed Kassan, trucidato in ossequio a una fatwa emessa dai chierici islamisti. Non abbiamo valorizzato Gamal Al Banna, Mohammad al Eshmawi, l'intellettuale egiziano Saad Eddine Ibrahim, la psicologa siriana Wafa Sultan, l'intellettuale tunisino Lafif Al Akhdar, il pakistano Ibn Warraq e l'elenco è ancora lunghissimo. Su Repubblica lo storico direttore dell'ufficio stampa di Giovanni Paolo II, Joaquín Navarro-Valls, ha rivendicato la legittimità della preghiera di fronte alla Madonnina. Perché, dice Navarro-Valls, dobbiamo imparare a conoscere il linguaggio di protesta degli altri, non dobbiamo essere così “provinciali” da pensare che i musulmani manifestino come noi. Navarro-Valls dice di più: la libertà dell'Europa “passa sempre e soltanto attraverso l'espressione della libertà religiosa degli altri”. Siamo al capovolgimento della laicità partorita dalla cultura greco-cristiana, che è invece il diritto universale di religione e di espressione, ma sempre all'interno di una umma di principi conquistati nei secoli e scaturiti dalla condivisione dei “founding ideals” anglosassoni.

    Quella di Milano non era una piazza “pacifica”, non era una manifestazione di libertà di coscienza, non era il moderno esercizio di libertà religiosa. Lì non c'era neppure alcuna dissimulazione. Era una dichiarazione di guerra politica e culturale, un micidiale segno dell'accerchiamento della laicità occidentale che abbiamo già visto inscenato nelle piazze di Londra, Parigi, Amsterdam e Berlino. Gli islamisti di Milano avevano dalla loro parole come Dio, morte, guerra, apostasia, sottomissione, obbedienza, fedeltà e paradiso mentre i “martiri”, gli shahid, continuavano a prepararsi sotto il cielo tragico di Gaza ripetendo la loro verità eroica: “Amiamo la morte più di quanto voi amiate la vita”.

    Il noto predicatore Yussuf al Qaradawi dice che verrà il giorno in cui Roma e Milano, patrie dei “bizantini”, saranno islamizzate. Resta da decidere se lo sarà “con la parola o con la spada”. Milano portava sotto gli occhi di tutti, anche dell'arcivescovo trinceratosi in un silenzio imbarazzato, il fatto che lo scontro di civiltà non è affare di polizia, ma di chiese appunto, di demografia, di correnti culturali e religiose profonde, di “stili di vita” come lo chiamano gli inglesi al loro modo naif. Il filosofo americano Lee Harris dice una cosa importante: una gloria dell'occidente è stato lo sradicamento del virus del fanatismo, ma forse lo abbiamo raggiunto al prezzo della nostra sconfitta. Le nostre parole sono e devono restare laicità, libertà, pace; ma non saranno mai credute, nemmeno da noi stessi, finché non diventeranno un programma d'azione fondato su un forte sentimento della nostra identità e della nostra verità. Il paradosso multiculturale sghembo, di cui Milano è stata l'ennesima manifestazione, si presenta così: noi temiamo l'altro, e cerchiamo di blandirlo, ma non sappiamo farci rispettare da lui perché non ci rispettiamo noi stessi.
    Uno dei grandi errori ideologici del nostro tempo è celato nell'argomento voltairriano dell'écrasez-l'infâme. Si sente ripetere dalla cultura laica dominante che se lo scrittore francese scagliò i suoi fulmini contro la potente chiesa cattolica, i dissidenti musulmani e gli intellettuali antislamisti oggi rischiano di offendere soltanto una minoranza che si sentirebbe già vulnerabile nel cuore dell'Europa. Le preghiere di Milano e Bologna stanno lì a dimostrarci il contrario. Voltaire non rischiò la pelle né si fece un miliardo di nemici che riconoscendolo in tv potevano scambiarsi informazioni su Internet per pianificarne la decapitazione negli Champs-Elysées. Oggi invece mettere in discussione la sharia che si insinua nel nostro diritto, denunciare i predicatori d'odio, sostenere i pochi semi di ribellione all'islam politico, raccontare come le moschee italiane sono spesso fornaci d'odio contro ebrei e crociati, tutto questo può voler dire dover convivere con la paura. Significa forse rinunciare a nominare le cose. Infingere per sopravvivere. 

    Se c'era bisogno di dimostrare che purtroppo la umma islamica è percorsa dal fenomeno islamista in modo massiccio, ecco arrivata la parata milanese. Di fronte a questa formidabile e temibile sfida ci vuole calma, contegno, fermezza. Non basta più firmare appelli, distinguere nell'islam, produrre carte dei valori, rettificare i messaggi papali. Non sarà la ripetizione magica della parola “islamofobia”, arma semantica dalle conseguenze devastanti per la libertà d'espressione, a evitare un conflitto sul suolo europeo, come ha suggerito lunedì al Foglio Angelo Panebianco.  C'è un islamismo che discute se deturpare i corpi degli americani e degli iracheni e se donne vecchi e bambini siano carne da macello. Con questo non ci sarà mai dialogo. Poi c'è l'islam tradizionalista, ordinario, è la visione islamica del governo impostata sull'idea del patto sociale e del consenso come sostiene il grande Bernard Lewis. Con questo si deve parlare, sapendo che piazze come quelle di Milano e Bologna saranno sempre l'epifenomeno di un islam politico dalla vocazione intollerante.

    Anche dentro l'islam è in corso una guerra tra chi ama la morte più della vita e chi difende la vita rischiando la morte. E' necessario che la reggenza teologica del mondo islamico si faccia carico di questi trent'anni di stragismo e decapitazioni e del negazionismo su cui pesa la morte di migliaia di musulmani innocenti per mano di altri musulmani. Piazze come quelle di Milano non aiutano. Le cose cambieranno quando cinquecento musulmani manifesteranno per le vie di Milano brandendo una lettera scritta un anno fa in Arabia Saudita. E' del grande religioso Salman al Awdah, uno dei padri del risveglio religioso. “Quanti innocenti, tra  bambini, anziani, deboli e donne sono stati uccisi o resi senzatetto nel nome di al Qaida? Sarai felice, Osama, al cospetto di Dio con tutti queste centinaia di migliaia o milioni di morti sulle spalle?”. Allora sarà possibile sperare di vincere la guerra culturale. Fino ad allora ripeteremo che a nutrirsi di un odio mortale contro Israele si finisce per scatenare un implacabile effetto boomerang, una sorta di autoannientamento con la fossa delle vittime ricolma di ebrei, cristiani, politeisti, non credenti, musulmani eretici, ma da ultimo, di tutti i musulmani.

    • Giulio Meotti
    • Giulio Meotti è giornalista de «Il Foglio» dal 2003. È autore di numerosi libri, fra cui Non smetteremo di danzare. Le storie mai raccontate dei martiri di Israele (Premio Capalbio); Hanno ucciso Charlie Hebdo; La fine dell’Europa (Premio Capri); Israele. L’ultimo Stato europeo; Il suicidio della cultura occidentale; La tomba di Dio; Notre Dame brucia; L’Ultimo Papa d’Occidente? e L’Europa senza ebrei.