Parolacce

Stefano Di Michele

Le parole hanno un senso. Dovrebbero. Ma certe – sui giornali, nei discorsi – sembrano quasi averlo perso. “Disappunto” – questa, secondo il Corriere della Sera, la posizione di Veltroni davanti all'incredibile bailamme napoletano

    Le parole hanno un senso. Dovrebbero. Ma certe – sui giornali, nei discorsi – sembrano quasi averlo perso.
    “Disappunto” – questa, secondo il Corriere della Sera, la posizione di Veltroni davanti all'incredibile bailamme napoletano, tra giunte rattoppate, sindaci che registrano e capi partito che abbandonano. Disappunto (“senso di delusione o di stizza dovuto a un contrattempo”, Grande dizionario Garzanti), ecco, non pare proprio la parola più adatta. Vero che secondo Repubblica Veltroni sarebbe “stupefatto”, che è già meglio ma è sempre poco,  ma la sensazione che le parole manchino – o che c'è un'impaurita ricerca delle più sterili e innocue – resta. Uno ha un certo disappunto se da McDonald's ti s'impatacca la cravatta, se ti si rovescia il caffè sulla scrivania, se arrivi a casa e il nuovo episodio di “Cold Case” è già cominciato. Ecco, lì è giusto il disappunto: quando, più o meno, ti scappa di dire “mannaggia la cavallina!”, e subito fartene una ragione. Ma Veltroni, con quello che sta succedendo a Napoli, dovrebbe esplodere, produrre scintille, certi urli che altro che il carnevale di Piedigrotta. Doveva fare quello che il Vesuvio di suo non fa da un bel po' di tempo: esplodere, letteralmente. Travolgere l'ammasso del notabilato, sparpagliare al largo delle coste tarantelle e tarantolati. E poi gettare sale come a Cartagine. Altro che scortare il nuovo commissario Morando (che hanno paura, che si perda a Capodimonte?), doveva farsi scortare lui da truppe d'assalto – dopo consulenza con Minniti. Di troppo disappunto nessuno è mai morto, ma di disappunto nessuno è nemmeno mai guarito.
    “Condividere” – più che una parola, ormai una piaga. Bisogna condividere, sennò non sei nessuno.  Non hai niente da dire, non hai niente da far vedere, non hai niente da chiedere? Fregatene e condividi. Forma estrema di prevaricazione, di barboso dovere sociale – quanto e più di un happy hours. E Facebook è la consacrazione definitiva di questa assillante patologia (e pure qui, oh Walter…). Un niente, la distrazione di un secondo e ti ritrovi condiviso. Pure quando leggi gli articoli sui siti on line dei giornali, sotto appare la  perfida parolina: “Condividi”. Ma con chi? Ma perché? A parte l'incredibile vicenda dei dipendenti dell'ospedale di Torino  che sono finiti lì dentro insieme ai pazienti (che si fa, condividiamo un'appendicite?), in generale è il trionfo della nostra personale megalomania, la convizione che abbiamo comunque qualcosa che gli altri non vedono l'ora di spartire con noi. Borges, che era un genio, sosteneva che il successo della psicanalisi era dovuto al semplice fatto che puntava sulla vanità – e a chi non piace parlare di se stesso? Così la gente mette, come se niente fosse, alla pubblica disposizione faccia, lavoro, amici e hobby. “Accetti la mia amicizia?”: ma chi cavolo ti conosce? Ma che vuoi? E ci sono quelli che vanno in giro gongolanti e vacui: ho ottocento amici! Io mille! L'amicizia a strascico. Si procede così  all'ammasso – per quantità. Una vacuità, ovviamente, a cui subito sono andati ad abbeverarsi i politici che ormai, nel tempo mesto della dissoluzione, procedono più che altro per assembramenti telematici. Accetti la mia amicizia? Sì? E vai! Cazzo, così ieri mattina son diventato amico del ministro.