La Partenza a razzo di Obama

Christian Rocca

Barack Obama continua a non parlare di Gaza, malgrado i giornali italiani abbiano scritto il contrario. L'ha ripetuto ancora una volta, ribadendo che quando entrerà alla Casa Bianca, il 20 gennaio, avrà molto da dire.

    Dal Foglio di mercoledì 7 gennaio

    Barack Obama continua a non parlare di Gaza, malgrado i giornali italiani abbiano scritto il contrario. L'ha ripetuto ancora una volta ieri, ribadendo che quando entrerà alla Casa Bianca, il 20 gennaio, avrà molto da dire. Il gioco di Washington, in questi giorni, è immaginare che cosa avrà da dire Obama, non solo su Israele e Gaza, ma sulle modalità della guerra al terrorismo, sulle operazioni di spionaggio, sulla minaccia nucleare iraniana, sul radicalismo islamico e sulla dottrina Bush (che non è la guerra preventiva né la promozione della democrazia, opzioni da sempre al centro e a disposizione della politica americana, ma l'idea di mettere sullo stesso piano i gruppi terroristici e gli stati che li ospitano, finanziano e sostengono).
    Sui giornali e sui blog si trovano tutte le interpretazioni possibili sulle prime mosse presidenziali di Obama, da Joe Klein che, su Time, scrive che Obama sarà molto più duro con Israele rispetto a Bush, a Richard Perle che su National Interest scrive che la sua politica estera sarà esattamente la stessa degli ultimi quattro anni bushiani.

    Le uniche cose certe, per il momento, sono quelle che Obama ha pronunciato solennemente in campagna elettorale, ma anche le scelte per la sua squadra di politica estera, di difesa e di sicurezza nazionale. E, infine, le reazioni dei leader islamisti.
    Le parole di Obama durante la campagna elettorale e le reazioni dei leader islamisti sono chiare e inequivoche: il presidente eletto crede che Israele abbia il diritto alla propria difesa dagli attacchi missilistici di Hamas e non è disposto ad accettare un Iran atomico. I capi dell'islamismo radicale sono stati altrettanto chiari nell'esprimere la delusione per le prime scelte obamiane, confermando la risibilità della tesi pre-elettorale secondo cui la vittoria del presidente nero avrebbe miracolosamente ammorbidito il mondo arabo e islamico. Nelle piazze islamiche, come si vede nella foto pubblicata in questa pagina, Obama è già raffigurato, con l'israeliano Olmert e l'egiziano Mubarak, esattamente come fino a poche settimane fa capitava a Bush (e fino a otto anni fa a Bill Clinton).

    Più difficile intuire le politiche future del presidente, anche perché Obama è un politico pragmatico e pronto a cambiare idea e posizione. Il suo approccio, senza dubbio, sarà più conciliante con gli alleati e più aperto alla trattativa con gli avversari e i nemici, rispetto a quanto è successo nel periodo immediatamente successivo all'11 settembre. Il punto di domanda è che tipo di atteggiamento avrà nel caso le strade diplomatiche dovessero portare a nulla. I profili dei componenti della sua squadra – dai tre generali a Bob Gates, da Hillary Clinton a Rahm Israel Emanuel – lasciano intendere che Obama non vuole dare un'immagine internazionale buonista alla sua Amministrazione. Tutt'altro. Sul piano della guerra al terrorismo, però, le scelte sembrano diverse, più determinate a cambiare una parte dell'architettura giuridica elaborata dall'Amministrazione Bush dopo gli attacchi subiti l'11 settembre. Più in generale, dopo gli otto anni bushiani, c'è la sensazione che l'America voglia dimenticare una volta per tutte l'11 settembre e tutto ciò che comporta una politica di sicurezza volta a evitarne un altro. Ma anche la consapevolezza che il mondo reale – da Mumbai a Gaza – invita ogni giorno alla cautela e a restare con i piedi per terra. Gli islamisti si fanno sentire, gli antisionisti anche. Obama è alla ricerca di una bussola e i politici e intellettuali liberal ricordano che va bene accusare Bush di tutto il male possibile, ma ci sono cose su cui non si può cedere.
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    Il Partito democratico americano sta preparando una risoluzione di sostegno degli obiettivi israeliani a Gaza. Il testo, ha detto il leader del Pd alla Camera Steny Hoyer, “certamente non chiederà un cessate il fuoco, semmai dirà quali sono le condizioni che giustificherebbero il cessate il fuoco. Un cessate il fuoco non è un cessate il fuoco soltanto quando è Israele a smettere di sparare”. Il sito radical chic Huffington Post ha spiegato che questa del Partito democratico americano è esattamente la stessa posizione dell'Amministrazione Bush, di Condoleezza Rice e della Repubblica ceca, ma diversa da quella del presidente francese Nicolas Sarkozy e del mondo arabo.
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    A Washington circola voce che Obama nominerà il conservatore realista Richard Haass, presidente del Council on Foreign Relations, come inviato speciale in medio oriente e Dennis Ross come inviato speciale in Iran. Haass è un protége di Colin Powell, ha lavorato nell'Amministrazione Bush e poi ne è uscito in dissenso. Ross è stato l'inviato in medio oriente di Clinton durante la trattativa di pace fatta saltare da Yasser Arafat dopo l'accordo a Camp David. Haass non è tra i più grandi fan di Israele, al contrario di Ross e degli altri “advisor neocon” che, secondo un esperto della Msnbc, Hillary Clinton sarebbe pronta a nominare: Kenneth Pollack e Martin Indyk (nessuno dei due è neoconservatore, ma il primo ha scritto il libro che ha convinto il mondo liberal americano della necessità di rimuovere Saddam, il secondo è stato a lungo ambasciatore in Israele). Pollack e Indyk hanno appena scritto un memo per Obama e spiegato che il primo obiettivo del nuovo presidente dovrà essere quello di ottenere una tregua.
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    Obama ha scelto Leon Panetta come prossimo direttore della Cia. Sopra Panetta – ex nixoniano, diventato deputato democratico e poi capo dello staff di Bill Clinton – ci sarà l'ammiraglio Dennis Blair nel ruolo di direttore dell'Intelligence nazionale. La nomina di Panetta ha fatto molto discutere. I leader democratici alla Commissione sui servizi segreti del Senato sono tiepidi, formalmente perché Panetta non è un esperto di questioni di sicurezza nazionale, ma anche perché Obama non li ha avvertiti preventivamente. L'interpretazione più diffusa è che Obama abbia scelto Panetta, cioè un politico esterno alla Cia, per segnare un deciso cambiamento di rotta rispetto alle politiche di intelligence adottate dall'Amministrazione Bush. A confermare questa tesi ci sono anche altre due nomine, quelle di Elena Kagan e Dawn Johnsen come Solicitor General e consigliere legale della Casa Bianca. Kagan e Johnsen sono stati molto critici in passato con le scelte giuridiche dell'Amministrazione Bush. Anche Panetta, di recente. Ma il prossimo capo della Cia, in realtà, è stato il consigliere principale di Clinton quando l'allora presidente decise di adottare la politica delle extraordinary rendition, le operazioni più note con il nome di “sequestri illegali della Cia” (caso Abu Omar a Milano). La scelta di Panetta, inoltre, è piaciuta innanzitutto ai neoconservatori, quelli più critici delle attività della Cia. Richard Perle, Douglas Feith e Michael Ledeen sono molto contenti, perché credono che Obama abbia capito la lezione di questi ultimi anni durante i quali la Cia ha fatto una guerra palese a Bush e alle sue politiche. Perle, Feith e Ledeen sostengono che Obama voglia mandare un uomo fidato, un esterno alla comunità di intelligence, proprio per far capire che a comandare è lui, il presidente, non la burocrazia di Langley.
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    Michael Scheuer, prima dell'11 settembre, ha guidato le operazioni Cia per la cattura di Osama bin Laden, ma è diventato famoso, prima da anonimo poi con il suo vero nome, per aver scritto il libro “L'arroganza dell'impero” con cui spiegava che l'America viene attaccata e continuerà a essere attaccata a causa della sua politica estera a favore di Israele. Due giorni fa, Scheuer ha scritto sul National Journal che “Israele non è soltanto un peso non necessario che l'America si è autoimposta, ma anche un cancro non curato e in metastasi sulla nostra politica interna e estera. L'America non ha nessun vero interesse di sicurezza nazionale né in Israele né nella Palestina. Se domani entrambi scomparissero non ci sarebbe alcun effetto sul benessere e sulla sicurezza degli americani. Quella è una guerra religiosa che appartiene ad arabi e israeliani, lasciamoli combattere fino alla morte senza alcuna interferenza a favore di nessuno da parte degli Stati Uniti. Il governo democraticamente eletto di Israele ha ragione a voler demolire Hamas e il regime democraticamente eletto di Hamas ha tutto il diritto di fare la stessa cosa con Israele. Il punto da tenere chiaramente in mente è che alla sicurezza dell'America non interessa chi emergerà come vincitore”. Poi uno si chiede perché non hanno ancora catturato Bin Laden.
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    Il professor Stephen Walt, coautore assieme a John Mearsheimer del libro “Israel Lobby e la politica estera americana” (Mondadori), ha scritto sul suo nuovo blog ospitato dalla rivista Foreign Policy una controstoria del medio oriente. Immaginatevi, ha scritto il fantasioso politologo realista, che Israele abbia perso la Guerra dei sei giorni, che gli arabi abbiano preso il controllo del paese, ma che gli ebrei non siano stati cacciati in mare. Se, continua il professore, un milione di ebrei fossero stati confinati in una piccola enclave chiamata Striscia di Gaza e un gruppo di ebrei ortodossi avesse preso il potere in quel territorio e organizzato un movimento di resistenza che non riconosce lo stato palestinese – sostenendo che la sua nascita è illegale, la loro espulsione ingiusta e per questo ottiene il sostegno di gran parte del mondo. Immaginato tutto questo, conclude il prof, se questi avessero cominciato ad attaccare con razzi le cittadine palestinesi, che cosa avrebbero detto gli Stati Uniti? Avrebbero chiamato questi ebrei terroristi e avrebbero incoraggiato i palestinesi a usare la forza?
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    Ron Rosenbaum ha scritto il bellissimo libro “Il mistero Hitler” e da esperto del Partito nazionalsocialista ha spiegato che ci sono analogie tra i nazisti e Hamas, non proprio favorevoli al movimento islamista. Lo statuto di Hamas, ha scritto Rosenbaum, invita esplicitamente allo sterminio di tutti gli ebrei, mentre Hitler non ha mai fatto dell'Olocausto un pilastro ufficiale del programma del suo partito. Hamas non è soltanto impegnato a espellere gli ebrei da Israele, ma crede che sia un obiettivo sacro sancito dal Corano. Hitler, invece, ha cercato di nascondere i campi di concentramento e non ha mai dato ordini scritti sulla Soluzione Finale, non perché si vergognasse, ma perché sapeva che la notizia dei campi di concentramento avrebbe nuociuto alla causa nazista. Hamas, invece, rivendica il suo obiettivo, non solo perché è un dovere religioso, ma anche perché pensa che così il suo partito diventa più popolare. Un'altra differenza, secondo l'autore del “Mistero Hitler” che ne cita moltissime, è che il Fuhrer ha vinto le elezioni, in parte perché diceva che dopo la Prima guerra mondiale ai tedeschi era stata rubata la loro terra, ma (almeno inizialmente) non ha organizzato una campagna per uccidere tutti i non tedeschi che vivevano in quei territori da ben prima della guerra. Hamas, invece, ha vinto le elezioni sostenendo che gli ebrei hanno sottratto illegalmente la terra ai palestinesi e che, per questo, tutti gli ebrei, anche quelli che stavano lì prima della nascita di Israele, devono essere ammazzati.
    Rosenbaum, inoltre, ricorda che Franklin Delano Roosevelt chiese “la resa incondizionata” di Hitler e dei nazisti, mentre le Nazioni Unite chiedono di cessare il fuoco soltanto a una parte.
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    Il 31 dicembre, a Fort Lauderdale, nel cuore della Florida popolata da americani di religione ebraica, c'è stata una manifestazione pro Hamas di trecento palestinesi. Prima e dopo la preghiera, invocata dall'imam, dal gruppo sono partiti slogan di questo tipo: “Tornate nei forni”, “Israele non esiste”.
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    Jeffrey Goldberg – giornalista e saggista liberal dell'Atlantic Monthly, ex New Yorker e autore di vari libri favorevoli alla riconciliazione tra i due popoli – aveva deciso di non scrivere su Gaza perché, pur sostenendo il diritto di Israele a difendere se stesso, aveva paura per la sorte di molti suoi amici palestinesi a Gaza. Due giorni fa, invece, ha deciso di aggiornare il suo blog: “Parlando di pornografia, abbiamo visto tutti le foto infinite di bambini palestinesi uccisi. E' terribile, orrendo, orribile la morte dei bambini, e per i genitori non importa se siano stati uccisi per caso o per errore. Ma chiediamoci una cosa: perché queste foto sono così onnipresenti? Vi dico io perché e ve lo dico avendo una costante esperienza di prima mano: Hamas e tutti gli altri impediscono la sepoltura fino a quando i corpi non vengono usati come propaganda nello spettacolo della passione palestinese. Una volta, a Khan Younis, ho visto uomini armati prendere un corpo già avvolto nel lenzuolo funebre, scartarlo, portarlo avanti di qualche centinaio di metri e posizionarlo su una pila di macerie e poi aspettare mezz'ora fino a quando si sono presentati i fotografi. E' stata una delle cose più orribili che abbia mai visto. Ed è tipica di Hamas. Se i giornalisti volessero indagare più in profondità, imparerebbero la disgustosa verità di Hamas. Ma i difetti morali dei palestinesi non sono di grande interesse per molte persone”. 
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    Il New York Times ama Hamas, ha scritto sul sito di Tina Brown “Daily Beast”, il saggista Steve Emerson. Il giornale liberal più importante del mondo rifiuta di chiamarli terroristi e loda le sue attività umanitarie, dimenticandosi di tutto il resto. Negli ultimi mesi, Emerson ha analizzato la copertura del Times su Hamas e ha concluso che si tratta del “più vergognoso episodio giornalistico che abbia mai visto” per il numero di articoli propagandistici a favore. Un mese fa, del resto, il garante dei lettori del Times, Clark Hoyt, è stato costretto dalle numerose lettere di protesta arrivate al giornale dopo la strage islamista a Mumbai a condurre un'inchiesta interna per capire perché i giornalisti del Times non hanno definito terroristi gli autori di quella strage, preferendo “militanti”, “uomini armati” eccetera. I capi del giornale hanno spiegato che finché non c'è la certezza non si può dire, ma il garante dei lettori ha concluso che secondo lui non c'erano dubbi: quando qualcuno, non importa quale sia la sua motivazione, uccide volontariamente dei civili è un terrorista.
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    Il numero due di al Qaida, Ayman al Zawahiri, ha accusato Obama di non fare niente per fermare Israele e ha definito le operazioni a Gaza “un regalo di Obama a Israele”. Secondo Zawahiri, “Obama è il prodotto della macchina di bugie americana che ha cercato di presentarlo come il salvatore che avrebbe cambiato le politiche dell'America”. Invece, Obama “uccide i nostri fratelli e sorelle a Gaza senza pietà e senza cuore”. Il leader di Hamas, Khalid Meshaal, ha scritto sul Guardian che “la partenza di Obama non è incoraggiante”.