L'addio alla Striscia
Ho passato tutto il giorno al valico di Erez, quello che collega a nord la Striscia di Gaza con Israele. Una lunga attesa, accompagnata dal ronzio dei droni, per guardare in faccia i duecento e più palestinesi cui è stato consentito di lasciare la Striscia perché in possesso di un passaporto straniero.
Ho passato tutto il giorno al valico di Erez, quello che collega a nord la Striscia di Gaza con Israele. Una lunga attesa, accompagnata dal ronzio dei droni, per guardare in faccia i duecento e più palestinesi cui è stato consentito di lasciare la Striscia perché in possesso di un passaporto straniero. Ad attenderli, mentre passavano la lunga trafila dei controlli, una teoria di pullman e molte macchine del corpo diplomatico. Palestinesi con passaporto canadese, o russo, o filippino, a seconda delle mogli sposate, delle università frequentate, delle loro piccole storie personali nel vortice grande della globalizzazione e in quello piccolo e tumultuoso della Striscia. Tra le prime sono uscite dall'edificio quattro suore. Né loro né le famiglie che si sono succedute avevano l'aria esausta e disperata che un cronista è abituato ad aspettarsi in queste situazioni. Anzi, il fatto che avessero messo a loro disposizione dei carrelli per trasportare i bagagli contribuiva ad assegnare alla scena un sapore di vero, quasi un aeroporto di seconda categoria, non fosse stato per il fatto che ogni tanto, oltre il confine echeggiavano scambi di colpi d'armi da fuoco automatiche. Quasi nessuno ha voluto rilasciare dichiarazioni, come per un riguardo al paese che li lascia passare, o come per un timore che, alle loro spalle, qualcuno apprendesse del loro gettare la spugna: sono usciti in silenzio, senza applausi e senza fischi, senza sorrisi e senza pianti, soltanto qualche rapido cenno di saluto.
Vista da questa collina, la guerra non è il genocidio dei cardinali dalle parole infedeli alla realtà, e neanche la limpida operazione chirurgica che altri vorrebbero: è la realtà possibile, che comprende i colpi che, durante la tregua di tre ore, avrebbero ucciso l'autista di un convoglio umanitario, e le facce che ho visto stanotte alla tv israeliana: una casa di Gaza con i militari israeliani, i civili seduti radunati al piano terra, ma non spaventati né sconvolti, anzi quasi sollevati dal fatto che se gli israeliani erano dentro non sarebbero stati bersaglio di altro. O quei volti di donne in coda al mercato, durante la pausa, che sorridevano, sottraendosi all'obbiettivo. La guerra è molte cose insieme, che spesso mal si conciliano con ogni propaganda.
E' anche molte notizie insieme: i raid nella notte contro i tunnel del contrabbando d'armi che non hanno fatto vittime, perché, prima, erano planati i volantini che invitavano la popolazione a lasciare l'area. O i dodici passanti feriti a Gaza da un'incursione contro tre militanti del Jihad, rimasti uccisi, che però, secondo le fonti palestinesi, si erano arroccati a fianco di un ospedale.
O la notizia dei morti per mano amica, tra i palestinesi. Nessuno ha dati certi ma dall'inizio del conflitto vi sarebbero state tra le 40 e le 80 esecuzioni sommarie messe in atto da Hamas. Tra le vittime presunti collaborazionisti di Israele, militanti di Fatah, e “criminali comuni”, sciacalli sorpresi a rubare nelle case abbandonate o speculatori sui prezzi dei generi alimentari, secondo l'inflessibile e atroce moralità dei fondamentalisti. Tra i militanti di Fatah, ha assicurato un membro di Hamas, c'erano soltanto quelli che avevano espresso gioia per l'intervento israeliano, distribuendo dolci ai vicini. Nei film chi esce da un assedio solleva le braccia al cielo, bacia il suolo, o urla di disperazione. Oggi a Erez i 250 sono usciti con un'aria normale. Ma quello che si lasciano alle spalle non è il film dei buoni e dei cattivi, semplice e con fine certa, che piace al pubblico.
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