Se la chiesa ama la società aperta, libera e razionale, deve difenderla
Con prudenza, ma senza pensare di avere tutto il tempo del mondo a sua disposizione (quell'altro tempo, l'eternità pellegrinante, è fuori da questo discorso), la chiesa cattolica dovrà mettere a fuoco una sua posizione politica di validità generale, se non universale, sui grandi conflitti che animano il mondo.
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Con prudenza, ma senza pensare di avere tutto il tempo del mondo a sua disposizione (quell'altro tempo, l'eternità pellegrinante, è fuori da questo discorso), la chiesa cattolica dovrà mettere a fuoco una sua posizione politica di validità generale, se non universale, sui grandi conflitti che animano il mondo. Sui conflitti di civiltà a sfondo religioso che dilaniano il mondo, per essere più precisi. Sul conflitto tra la tradizione occidentale, razionale e universalista, e le culture fondate, secondo la lettera e lo spirito del discorso di Ratisbona, sulla rescissione del nesso tra libertà, ragione e fede. Il Papa avrà modo di riflettere sulle folle islamiche allineate, prosternate e oranti davanti alle cattedrali cristiane di Milano e di Bologna, a testimoniare una coscienza religiosa che è anche immediatamente politica, e che non esclude dal proprio orizzonte la guerra santa contro gli infedeli.
Se ama la società aperta e la caratura spirituale delle grandi democrazie moderne, ciò che è sembrato chiaro da molti segni culturali e dal viaggio papale negli Stati Uniti, la chiesa si attrezzerà per difenderla e per far valere in essa le proprie idee, le esperienze, i principi non negoziabili di cui si considera a buon titolo custode. Questo vuol dire che un'organizzazione social-terroristica come Hamas, dove le mense e gli ospedali e la rappresentanza dolorosa della più derelitta società palestinese si mescolano con un'ideologia e una pratica di guerra santa contro gli ebrei, deve essere riconosciuta per quello che è, con una parola che sia sì sì, no no.
Sandro Magister è persona di grandissimo equilibrio, un osservatore impareggiabile di cose vaticane e di culture profonde dentro il mondo cristiano. Se ha deciso di scrivere la nota che pubblichiamo in questa pagina, la ragione è che questa scelta di campo, sia pure senza fanatismi e mantenendo la sua tradizionale capacità di interlocuzione a largo raggio, quel tutto che è la chiesa cattolica (diplomazia, magistero papale, clero, comunità territoriali, ordini, movimenti missionari e carismatici) non l'ha ancora fatta. E in questo indugio prolungato, che l'11 settembre e la guerra irachena hanno sottoposto a formidabile tensione, si apre lo spazio per quelle ambiguità di linguaggio che Giorgio Israel rileva limpidamente, senza forzature, con un uso preciso e significativo del linguaggio, nel suo commento, anche a nome di questo giornale, dedicato all'appello con cui personalità cattoliche dell'area politica di Comunione e liberazione pensano di interpretare le parole di Benedetto XVI nel corso dell'Angelus di domenica 4 gennaio.
Non si può chiedere alla chiesa di rinunciare all'uso profetico della parola “pace”, un segno di contraddizione nella storia che in un certo senso equivale alla sostanza del cristianesimo. E questo vale, almeno in parte, anche quando la parola “pace” viene spacciata come una cattiva moneta politico-ideologica nel mercato delle idee secolari su come si deve realizzare una convivenza giusta tra gli uomini, una giustizia dove la “pace” non sia lo scudo dei prepotenti, dove pace non equivalga ad appeasement. Non le si può chiedere di lasciare nell'ombra della Realpolitik le concretissime esigenze di difesa di comunità cristiane travolte dalla bufera geopolitica del medioriente e destinate in molti casi a una lenta erosione, fino al dramma dell'estinzione.
Non si può impedire alla chiesa, nella sua vocazione universalistica e di carità, di accendersi ed emozionarsi di fronte al destino dei diseredati del mondo, di popolazioni che soffrono un destino di minorità, di miseria, di esclusione. Ma con Israele e con gli ebrei la questione non si può risolvere sul filo delle acrobazie, nemeno di quelle pie concepite per il bene della causa superiore. Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, talvolta non sufficientemente aiutati dalle molte voci del mondo ebraico, lo hanno profeticamente capito, e hanno radicalmente ricostruito sulla scia del Vaticano II il rapporto con i fratelli maggiori dei cristiani. La diplomazia vaticana lo ha capito. L'establishment papale più consapevole è da molti anni che ha ridimensionato la benevolenza senza confini verso la causa araba, quando e se questa causa finisca nelle mani di feroci negatori del diritto di Israele alla esistenza in sicurezza. Ecco. Quando si parla di tregua, obiettivo genericamente condivisibile da ogni essere umano, oggi bisogna sempre specificare: quella tregua rotta da Hamas in nome della distruzione di Israele e della liquidazione degli ebrei.
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