Rignano's way

Claudio Cerasa

C'avevano raccontato una storia diversa. C'avevano raccontato una storia dove tutto sembrava essere scritto prima ancora di poter avere in mano qualsiasi cosa: qualcosa come una foto, qualcosa come un video, qualcosa come una voce, qualcosa come un indizio, qualcosa come una prova che sia una.

    C'avevano raccontato una storia diversa. C'avevano raccontato una storia dove tutto sembrava essere scritto prima ancora di poter avere in mano qualsiasi cosa: qualcosa come una foto, qualcosa come un video, qualcosa come una voce, qualcosa come un indizio, qualcosa come una prova che sia una. Una prova “seria e robusta”, come direbbero gli investigatori. Invece no. Invece sono passati quasi tre anni dal giorno in cui i genitori di Rignano Flaminio si sono ritrovati a parlare di abusi sessuali nella piccola caserma dei carabinieri di Bracciano. Sono passati tre anni dal giorno in cui cinque famiglie sono arrivate lì, in quel paesino a trentanove chilometri da Roma, per scrivere il primo capitolo di quella storia infinita che è Rignano. Una storia che non potrà mai essere come le altre: non lo potrà mai essere perché non ci potrà mai essere nessuna reazione, nessuna dichiarazione e nessuna trasmissione che possa essere davvero razionale quando ci sono accuse che raccontano casi di bambini che sarebbero stati violentati, abusati e persino seviziati. E' anche per questo che la storiaccia di Rignano, comunque la si guardi, brucia come un girone infernale, dove tutti i vizi, tutte le leggerezze, tutti gli errori e tutte le patologie di quel sistema che vive a cavallo tra il mondo della giustizia e quello dei media, dei giornali, della televisione, superano con più facilità i livelli di guardia.

    Ebbene, sono passati quasi tre anni e che cosa è successo? E' successo che tre maestre, una bidella, un ex addetto a un distributore di benzina, un autore televisivo sono finiti in galera quasi un anno fa; è successo che quelle persone sono state scarcerate dopo quattordici giorni di detenzione; è successo che un collegio fatto di tre giudici, e poi una Corte di Cassazione, ha smontato passo per passo le pubbliche accuse sull'asilo degli orrori; è successo, inoltre, che da quasi un anno ci sono ventiquattro bambini interrogati da un tribunale – quello di Tivoli – dove ci sono avvocati, pm e consulenti che cercano di capire se in quella scuola, in quel paese, in quelle case, in quelle classi, in quelle strade a pochi minuti da Roma è successo davvero quello di cui abbiamo letto per mesi, mesi e mesi su ogni pagina di giornale. Se davvero le maestre davano quelle caramelle che facevano venire sonno. Se davvero i bambini dovevano fare il gioco del lupo e dello scoiattolo. Se davvero facevano ogni volta un gioco diverso quando andavano a casa della maestra. Se davvero facevano il gioco del dottore, il gioco dello scatolone, il gioco del tavolo. Se davvero chi era più bravo vinceva merendine di cioccolata. Se davvero un uomo vestito di nero li faceva incappucciare tutti quanti, e gli faceva bere del liquido rosso. Se davvero venivano tutti narcotizzati per non sentire male. Se davvero, gli orchi, li prendevano e li portavano con un pulmino a casa di una delle insegnanti. Se davvero li mascheravano. Se davvero ne abusavano. Se davvero li violentavano. Ecco: in tre anni, nulla di tutto questo è stato pienamente dimostrato, ma ora che qualcuno ha parlato di “castelli”, ora che qualcun'altro ha parlato di “fortezze”, le indagini potranno andare avanti, e con ogni probabilità tra pochi giorni il pubblico ministero chiederà il rinvio a giudizio per quattro degli otto indagati. Perché le ultime notizie su Rignano Flaminio raccontano di un caso che sembra essersi improvvisamente riaperto, con quel casale di campagna “riconosciuto” come l'ultimo grande luogo dell'orrore.

    Di nuovo, però, a Rignano non sembra esserci granché: in due anni di indagini è stato fatto tutto quello che si poteva fare, sono state perquisite decine di case, sono stati interrogati ventiquattro bambini, sono state fatte perizie e intercettazioni, sono state registrate conversazioni ambientali, sono state fatte analisi sui peluche trovati nelle case, sui capelli scovati nelle macchine, sui computer sequestrati negli appartamenti, e sono stati ascoltati genitori, maestre, supplenti, poliziotti e alla fine quello che resta di concreto sono però sempre e solo le parole, i racconti, i disegni e i video dei bambini. Nient'altro. Non sono state trovate foto e non ci sono immagini, non ci sono testimonianze, non ci sono registrazioni, non ci sono tracce di dna e non c'è nulla di sospetto che riesca a non dare l'impressione che quella di Rignano è sempre qualcosa di più simile a una vera caccia alle streghe. Perché c'è tutto nel caso di Rignano. C'è la storia delle famiglie convinte di aver subito un abuso che però non riescono a dimostrare. C'è la storia di un'accusa che diventa condanna ancora prima di diventare processo. C'è la storia di quindici bambini schiacciati dal peso di questa vera o presunta caccia alla streghe. C'è la storia del mostro che è mostro per quel che si dice su di lui, a prescindere da quello che ha realmente fatto.

    C'è la storia di sei persone che si sono improvvisamente ritrovate in galera senza una prova che sia altro che la parola di un bambino. C'è la storia di tanti papà e tante mamme che qualcosa hanno visto, che qualcosa hanno sentito, che da qualcosa saranno partiti, che – comunque andranno le cose – un soffio di male negli occhi e nelle parole dei propri figli l'avranno percepito, e per questo nessuno si sognerebbe mai di dire che hanno inventato tutto. Infine c'è la storia di un'indagine difficile, spesso sfortunata, ma che stando a quello che ha prodotto fino a oggi non sembra ancora in grado di dimostrare che a Rignano sia successo quello che finora c'hanno raccontato. Così, dallo scorso diciassette luglio, i pm hanno fatto quello che i periti avrebbero dovuto fare all'inizio delle indagini. Hanno convocato uno a uno i bambini, hanno ascoltato dietro i vetri a specchio del tribunale di Tivoli le loro parole, le hanno registrate, le hanno riascoltate e alla fine i fatti nuovi non sono confessioni e non sono neppure prove ulteriori. Sono sempre le parole e i ricordi spesso confusi dei bambini. In particolare, i ricordi di una terza casa dove secondo la pubblica accusa i piccoli della Olga Rovere sarebbero stati abusati. Una casa – un indizio chiave per poter prolungare le indagini e poter arrivare alla richiesta di rinvio a giudizio – che è stata perquisita dai carabinieri lo scorso luglio e che sarebbe stata riconosciuta direttamente dai bambini senza che in quell'occasione sia stata data la possibilità agli avvocati difensori di ricevere un decreto di perquisizione.

    Chi ha partecipato agli incidenti probatori, inoltre, racconta che tutte quelle vecchie accuse, tutte quelle storie di croci capovolte, di frustate, di bambini legati alle sedie, di tunnel, di pedofili e di diavoli con il cappuccio, ecco, di tutto questo i bambini non hanno parlato. Altre cose però le hanno dette. Hanno detto che “le maestre sono cattive perché dicevano cose brutte ai bambini, me lo ha detto la mamma”. Hanno detto che “io certe cose non le ho mai vissute”. Hanno detto che “a me queste cose brutte non sono mai capitate, ma me le ha raccontate mia madre”. Hanno detto che “io queste cose fortunatamente non le ho subite ma le ho sentite dalla mamma e le ho sentite in televisione”. Inoltre, come ricordato da Carlo Bonini su Repubblica tre giorni fa, una delle bambine che ha raccontato di non aver visto nulla è una di quelle bimbe considerate dalla pubblica accusa come una delle testimoni più credibili degli abusi subiti: la piccola nei cui capelli sono state trovate tracce di “benzodiazepine”, quella sostanza contenuta sia nei tranquillanti sia nei sonniferi e che per i genitori di Rignano sarebbe una delle prove con cui si dimostra che quegli abusi ci sono stati davvero. Che quel “sistema” di pedofili non è una finzione, ma è verità. Perché in fondo siamo sempre allo stesso punto. Perché possono cambiare i casi, le accuse e gli incriminati, ma quando le indagini non riescono a prendere il là, quando la pistola fumante semplicemente non si trova, finisce sempre così: che non basta la testimonianza di un pentito, che non basta il nastro di una intercettazione e che non basta la semplice testimonianza di un bambino. “In una testimonianza – dice il professor Alberto Oliverio, docente di Psicobiologia all'Università La Sapienza – già gli adulti possono essere suggestionati e sviati da eventuali suggerimenti da parte di altri testimoni o di chi raccoglie la testimonianza.

    Soprattutto nelle persone poco sicure di sé, e i bambini sono molto dipendenti dall'adulto, una testimonianza può trasformarsi in seguito a involontarie o maliziose imbeccate: così l'autore di una rapina può diventare da alto e biondo, di media corporatura e castano, solo perché un altro testimone, un agente di Polizia o un magistrato hanno insinuato un'altra versione dei fatti. Nel caso dei bambini è ancora più facile che una testimonianza venga inficiata, sia perché ritengono che il punto di vista dell'adulto sia più valido del loro, sia perché non vogliono contraddire una figura di attaccamento come può essere uno dei genitori, sia infine perché la loro mente incorpora più facilmente elementi che alterano la memoria. Ciò è tanto più vero se un bambino, soprattutto attraverso la tv, ha assistito a una ricostruzione degli eventi in cui si delinea uno scenario che propone immagini che penetrano e si insinuano nella sua mente. Insomma la memoria infantile è corretta se non è stata sviata da domande o suggerimenti impropri, se il tempo trascorso non supera qualche mese e se gli adulti non hanno fatto incaute insinuazioni o commenti fuorvianti”.

    Comunque vadano le cose, i genitori di Rignano Flaminio è comprensibile che non potranno mai ammettere che ci sia stata suggestione, che ci sia stato qualche errore e che possano aver frainteso qualcosa nel racconto dei propri bambini. E poi, certo, i genitori potranno fare ciò che vogliono, potranno continuare a credere che chiunque vada contro la pubblica accusa voglia mettere in discussione la loro buona fede e che voglia accusarli di essere genitori in malafede, quando invece se mai dovesse essere dimostrato che a Rignano non è successo nulla, che in questo paese a pochi chilometri da Roma tutto è nato per quella che potrebbe essere definita una forma di “isteria collettiva”, “un condizionamento a catena”, la verità è che gli unici eccessi che potrebbero essere contestati ai genitori sono quelli di buona fede, di quel non poter far altro che fidarsi ciecamente della capacità di riconoscere il linguaggio dei propri figli. Eppure sarebbe un approccio naturale quello di non poter considerare vere tutte le cose che raccontano i bambini. Il giudice per le indagini preliminari di Rignano, Elvira Tamburelli, ha sostenuto invece che “la particolarità dei contenuti dei racconti, la loro articolazione dettagliata e complessa, non sembrano poter essere frutto di una suggestione, perché difficilmente possono essere assimilati e mantenuti nel tempo racconti suggestivi che presentano tali caratteristiche”.

    Questa interpretazione non è stata soltanto criticata da alcuni tra gli psicologi che sono intervenuti nel gran pasticcio di Rignano, ma è stata contestata sia da un Tribunale del Riesame (10 maggio 2007) sia poi da una Corte di cassazione (18 settembre 2007). E' stato proprio il riesame che ha ricordato che le denunce dei genitori dei bambini sono state fatte con modalità “se non sospette sicuramente particolari”, che ha ricordato come i genitori si siano riuniti numerose volte e confrontati anche in presenza dei bambini, che ha spiegato che le prove andavano raccolte nella prima fase delle indagini e che per poter andare avanti nelle stesse indagini occorre “la presenza di seri e robusti elementi di riscontro che (…) non sono ravvisabili”. Infine, è stato sempre prima il tribunale – e poi la Cassazione – a ricordare che da parte dei genitori c'è stata “una forte e tenace pressione sui minori, una forte opera di induzione e di suggerimento delle risposte” che hanno portato a manifestazioni anche di stanchezza e di ostilità da parte dei piccoli alle “insistenti pressioni genitoriali”. Tanto che, in uno di quei video dove i genitori di Rignano hanno registrato le “confessioni” dei propri figli, tutti ricorderanno di quella bambina che rivolta al padre diceva così. “Io non sono una bugiarda. Sei tu, sei tu che sei un bugiardo, papà”. E così, capita che nel caso di Rignano chi parla di possibile suggestione, chi parla di possibile psicosi, chi semplicemente si comporta da garantista diventa in un lampo un'innocentista. Diventa la persona che vuole negare un fatto. Diventa la persona che non vuole riconoscere un abuso. Ed è tutto qui il cortocircuito. E' tutto nel voler dimostrare che qualcosa sia accaduto senza aver i mezzi per poterlo dimostrare.

    Perché qui il mostro diventa mostro non per quello che ha realmente fatto, ma per quello di cui è accusato. Le streghe cominciano a esistere non quando vengono viste, ma quando vengono nominate, e aveva naturalmente ragione Voltaire quando diceva che “le streghe hanno smesso di esistere quando noi abbiamo smesso di bruciarle”. Come se non bastasse, negli ultimi mesi la lotta dura e pura contro le streghe, e dunque un po' anche contro il diritto alla presunzione di innocenza, è finita persino al centro dell'ultima campagna elettorale del Pd, e una mamma di Rignano si è candidata al Senato nelle liste dell'Italia dei valori – per “rappresentare il diritto delle famiglie di mettere il proprio figlio in una scuola senza temere che finisca in un giro di pedofili” – e ha ottenuto qualcosa come il 5,4 per cento dei voti nel suo paese. Ma naturalmente non c'è stato nessuno pronto a ricordare che se c'è una mamma che ha il suo spazio politico perché combatte per mandare in galera i mostri di Rignano, dall'altra parte sarebbe stato giusto aspettarsi che lo stesso partito avesse messo in lista qualcuno in grado di rappresentare in Parlamento l'altra faccia della medaglia. Una cosa molto semplice. Essere innocenti fino a prova contraria. L'atmosfera malvagia di Rignano è tutta qui. E' tutta in quel continuare a dire che suvvia, con quelle accuse, con quelle frasi, con quelle facce, qualcosa deve essere pur successo. E la sintesi dell'atmosfera malvagia è in quella parola che si ritrova spesso nei casi meno fortunati di indagini giudiziarie. Sistema.

    E' un sistema, una rete, una cupola quella di Rignano così come un sistema doveva essere quello che era stato ipotizzato in uno dei casi più clamorosi di psicosi collettiva: quello che è stato il più lungo e più costoso processo penale nella storia degli Stati Uniti, che cominciò con l'accusa di pedofilia nei confronti di alcuni insegnanti della scuola materna McMartin e che dopo sei anni e dopo quindici milioni di dollari spesi dal governo dello stato della California si è concluso con una piena assoluzione degli imputati. Un sistema, dunque, simile a quello dell'asilo Sorelli di Brescia, dove pochi anni fa sono stati rinviati a giudizio – per pedofilia – un bidello, un prete e sei maestre, dove l'accusa aveva chiesto fino a vent'anni di carcere, dove i genitori dei bambini sostenevano che “a Brescia è in atto un'operazione per far passare i racconti dei bambini come non attendibili” e dove poco meno di un anno fa la storia degli otto presunti pedofili è stata raccontata più o meno con queste parole dalle cronache locali. “L'indagine sui presunti atti di pedofilia in un asilo di Brescia fu frutto di un ‘condizionamento a catena' che portò un gruppo di famiglie a suggestionarsi a vicenda e soprattutto a ‘inquinare' le testimonianze dei bambini. Le indagini, inoltre, sarebbero state molto lacunose. Lo scrivono i giudici del tribunale nelle 538 pagine con cui è stata motivata l' assoluzione di otto persone (maestre, bidelli e due sacerdoti) indagate a partire dal 2003 per una serie di abusi sugli alunni di una scuola materna. Abusi – si legge sui quotidiani di quei giorni – rivelatisi semplicemente inesistenti”.

    • Claudio Cerasa Direttore
    • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.