Fini non sbaglia
Le recenti polemiche di Gianfranco Fini nel centrodestra non si spiegano con le dietrologie correnti. Con l'idea che Fini si proponga come premier nel caso che l'Alta corte bocci il lodo Alfano. Né con la previsione di un governo di unità nazionale qualora la crisi economica si aggravasse.
Le recenti polemiche di Gianfranco Fini nel centrodestra non si spiegano con le dietrologie correnti. Con l'idea che Fini si proponga come premier nel caso che l'Alta corte bocci il lodo Alfano. Né con la previsione di un governo di unità nazionale qualora la crisi economica si aggravasse (si chiacchiera di una sfida sommersa tra Giulio Tremonti e Fini per questo ruolo di premier superpartes). Né con la lettura jettatoria dell'Economist che qualche settimana fa ha scritto della cattiva salute di Berlusconi e di conseguenti scenari d'emergenza. Le letture “emergenzialiste” sono deboli perché il mandato ricevuto dall'attuale maggioranza da parte del popolo è intimamente legato alla leadership berlusconiana e quindi un nuovo scenario non è possibile senza nuove elezioni, la cui dinamica è difficile anticipare. Il tentativo di spallata a luglio via pubblicazione delle presunte sexy telefonate berlusconiane, attivato da settori della magistratura campana, coperto da ambienti togati milanesi, sostenuto dalla Repubblica e avallato da Walter Veltroni, fu bloccato – ne scrisse Emanuele Macaluso sulla Stampa – da Giorgio Napolitano che spiegò come un simile scenario portava al voto anticipato.
Fantasiosa è pure la tesi che si sia aperta la corsa per la presidenza della Repubblica che scade nel maggio del 2013. Fini è parlamentare di lungo corso, sa come finiscono i candidati al Quirinale (anche di peso: da Amintore Fanfani a Giulio Andreotti fino a Bettino Craxi) che aprono le “campagne elettorali” con anni di anticipo. Né si può parlare ancora di una lotta per la successione (forse la “dietrologia” più realistica) di Silvio Berlusconi. Il Riformista racconta di “due grandi correnti”, la tremontiana e la finiana, già armate a contendersi la futura leadership. E' una forzatura. Già rispetto al governo Berlusconi 2001-2006 Antonio Polito costruì lo schema del subgoverno Follini-Fini contrapposto all'asse Bossi-Tremonti, felice giornalisticamente e non privo di elementi di verità. Però, fuorviante. La lotta antitremontiana era guidata da soggetti extrapartitici di peso come Antonio Fazio, la Fiat, le Fondazioni, forze – con buone sponde in Gianni Letta – decisive per spingere alle dimissioni Giulio Tremonti nel 2004. La “parte politica” invece della manovra, l'asse Fini-Follini, si rivelò inconsistente.
Certo, in vista di un reale “partito” di centrodestra, sono iniziati i posizionamenti dei vari esponenti politici dell'area (alcune liti tra Tremonti e Letizia Moratti vanno lette così): ma non spiegano l'essenza del corso delle cose. La tendenza di fondo è determinata dalla fragilità dell'opposizione che lascia così tanto spazio alla maggioranza da invitarla a interventi pronunciati, talvolta quasi urlati. E' andato in crisi Veltroni, si affloscia lo stesso Antonio Di Pietro, la Cgil che voleva rappresentare la grande opposizione sociale si è infilata in un buco nero. Forse resta a galla Pier Ferdinando Casini però solo perché è intrinsecamente un turacciolo. Ora questa situazione rispetto a una società inquieta per la crisi incombente (che per altro verso scoraggia grandi contrapposizioni al governo che c'è) spinge diversi soggetti (dalla Lega alla Moratti, da Fini a Raffaele Lombardo, da Giancarlo Galan ad associazioni del lavoro autonomo) a presidiare la discussione con toni talvolta non meditati, anche per evitare disgregazioni politico-sociali.
In questa constatazione c'è una critica ai comportamenti di Berlusconi. Veltroni è quello che è, ma il governo deve offrire un tavolo di confronto: senza un'opposizione funzionante “tutto” diventa più complicato. Il Parlamento è un'istituzione che richiede molta manutenzione. Definito da un proporzionale puro, è oggi espressione di una legge maggioritaria. Centro di un paese in cui le autonomie avevano spazi marginali, dovrà convivere con un assetto sempre più federalista. Pensato in una logica di emergenza, dopo il fascismo e con la Guerra fredda alle porte, dovrebbe assumere una logica “normale di funzionamento”, con quindi maggiori poteri all'esecutivo. Detto questo, Fini è quasi costretto a difendere una dialettica dell'azione parlamentare che pare non interessare Berlusconi. Infine la costituzione di un grande partito “conservatore” italiano, di cui il nostro paese ha bisogno dalla sua unificazione, non può essere gestita nei ritagli di tempo. Chiede riflessione politica, grandi ideali, forti passioni. E soprattutto coordinamento tra tutti coloro che rappresentano l'anima del progetto. E quindi innanzi tutto tra Berlusconi e Fini. Il premier dovrebbe ricordarsi dei pasticci che ha combinato nel 1994 per avere trascurato un alleato fondamentale come Umberto Bossi: questi pasticci si replicheranno ancora più consistentemente se si snobberà il co-fondatore di un futuro “grande” partito.
Tutto questo va tenuto presente, prima di permettersi di criticare per vizi di visibilità o altre colpe Fini che peraltro dovrebbe evitare di essere sempre così scontato, così complessato rispetto a quello che si pensa nella buona società, così incapace di mobilitare qualcosa di vitale di quella che pure è stata una grande componente della società italiana come l'Msi. Se si considerano gli amministratori di qualità del centrodestra, vengono alla mente Roberto Formigoni, Gabriele Albertini, in parte Raffaele Fitto, Giorgio Guazzaloca e Galan, e pochi altri. E poi tutta una fila di magnifici amministratori ex missini: la bravissima Adriana Poli Bortone, Giuseppe Scopelliti, Pasquale Viespoli. E' possibile che Fini non riesca mai a farli pesare, loro e tanti altri, nel dibattito delle idee?
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