Sulle curve di Gaza, dove vorresti che i due nemici si uccidessero occhi negli occhi, con i coltelli se serve
L'altra sera tornavamo, stanchi, dalla collina verso l'albergo di Ashkelon. Lavoro finito, e il silenzio, tra me e Garo, di chi deve decidere se ha più fame o sonno. A un tratto ho visto in mezzo alla strada una macchia bianca. Non andavamo veloci, perché Garo, il mio operatore armeno non guida veloce.
Confine di Gaza. L'altra sera tornavamo, stanchi, dalla collina verso l'albergo di Ashkelon. Lavoro finito, e il silenzio, tra me e Garo, di chi deve decidere se ha più fame o sonno. A un tratto ho visto in mezzo alla strada una macchia bianca. Non andavamo veloci, perché Garo, il mio operatore armeno non guida veloce, e l'auto è grossa e pesante, carica di attrezzature. Ma non c'è stato il tempo di pensare, solo di registrare, velocemente, che la macchia era un gabbiano, e all'ultimo momento che era un gabbiano vivo, immobile. Troppo tardi per sterzare, il tempo di un'imprecazione, e gli siamo passati sopra. Era chiaro che Garo stava ancora peggio di me. Per tutta la strada non ha fatto altro che parlare di questo. Mi ha raccontato di quella volta che stava girando delle immagini in campagna, un contadino seguito da un asinello, e a un tratto l'asinello aveva dato uno scarto e aveva attraversato la strada proprio mentre passava un'auto. Era stato urtato malamente, e aveva arrancato di nuovo, ragliando di dolore, sul sentiero, lontano dall'asfalto. Il contadino non si era neppure girato a guardarlo. “Credo temesse che quello dell'auto tornasse indietro, a chiedergli i danni”, mi ha detto Garo, e così faceva finta che l'asinello non lo riguardasse.
Garo era andato a dormire soffrendo all'idea di quell'asinello senza veterinario, senza parole, senza medicine, senza lo sguardo del padrone. Gli ho raccontato di quella volta che a Ostia ho trovato un gabbiano con un filo da pesca che gli penzolava dal becco, e di come lo portai in una clinica veterinaria, dove non sapevano cosa fare, perché al massimo avevano esperienza di pappagallini. Gli avevano fatto un'iniezione per alimentarlo – era indebolito da un digiuno lungo e forzato – e il mattino dopo ero tornato a prenderlo e in una scatola di cartone lo avevo portato alla Lipu. Poi avevo telefonato per sapere qualcosa, e mi avevano risposto che dalla radiografia risultava che l'amo era incagliato nello stomaco, in profondità, e che l'unica speranza era che lo espellesse da solo. Non ho più telefonato, ho raccontato a Garo, per non avere brutte notizie e perché nonostante tutto non avevo fatto a tempo ad affezionarmi al gabbiano, che continuava a sfondare il coperchio della scatola di cartone con il suo becco temibile, e facevo fatica a guidare con una mano sola. “Era un gabbiano senza nome, Garo, e i gabbiani sono una specie forte e colonizzatrice, popolano campi e discariche, ormai”. Non credo che quei racconti servissero a molto, e in silenzio abbiamo deciso di aver più sonno che fame.
Se uno sta male a investire un gabbiano, cosa gli succede se uccide un innocente? Mi sono sempre chiesto in questi giorni, quale sforzo debbano fare non i guerrieri di Hamas, che coltivano la morte, ma i soldati di Tsahal, che vogliono vivere. Ed è per questo che spero finisca presto, anche. Perché se uno moltiplica le vittime civili, e i loro parenti sopravvissuti, e i feriti e le ferite che si porteranno dentro, e i loro parenti, e quelli che sopravviveranno ma non dimenticheranno quello che hanno visto, c'è da aver paura. E se uno pensa a chi ha ucciso per sbaglio, fosse pure per evitare di venire ucciso, o per spezzare l'incubo dei missili sulla testa della tua gente, è facile capire che le cicatrici lasceranno un segno. Non l'abitudine, non l'indurimento, questo non lo credo. Ma un segno lo lasceranno, e non è un bel segno. Per questo spero che si passi presto a combattere, visto che non c'è il cessate il fuoco, con le armi corte, e perfino con i coltelli, se serve. A tu per tu, nel modo intimo che l'odio e la vendetta meritano, guardandosi negli occhi. Perché guai per Israele, se accettasse che ci sono prezzi che si possono pagare, che bisogna rassegnarsi a pagare. E guai se non ci si fermasse sulla soglia di tanti cuori palestinesi, se non gli si desse modo di pensare, di ripensare, di ribellarsi alla follia di Hamas, se non ci fosse, rapida, la capacità di azzerare la minaccia e tirarsi fuori e lasciare Gaza davanti al suo specchio infranto, a regolare i conti con se stessa.
Cercando un pertugio, uno spioncino nella rete, il giorno dopo, in una stradina di campagna in vista di Rafah, mi sono imbattuto in una storia che avrebbe fatto felice un buonista, ma nell'auto c'eravamo solo io e Garo. Un furgoncino ci ha affiancati, e dal finestrino un ragazzo ci ha chiesto, in israeliano, se davvero eravamo della televisione. Riconoscendo l'accento, Garo gli ha risposto in arabo. E l'altro ha detto che voleva mostrarci come lui e i suoi amici vivessero in pace con gli israeliani, lì vicino.
L'abbiamo seguito, attraverso i campi di un'azienda agricola enorme, distese di pomodori a perdita d'occhio, e dopo le nuvole di fumo sopra Rafah. Ci ha portati in un cortile vasto, ai bordi di un capannone dove i rumori degli attrezzi dei meccanici spezzavano la nenia di una radio che diffondeva una preghiera islamica. Erano una ventina di operai, arabi e israeliani. Tutti amici, e non solo davanti alla telecamera capitata lì per caso. Il ragazzo che ci aveva portato ha la madre di Gaza, e uno zio che vive ancora lì, grazie a Dio ancora indenne, ha aggiunto.
Gli abbiamo chiesto dei Qassam, delle vittime civili, di Hamas. Avevano risposte laconiche e uguali, gli uni e gli altri. “Sì, ne parliamo tra di noi, e pensiamo che questa storia fa male a tutti”, ha detto un israeliano. Il ragazzo arabo, che ha continuato a essere il più esuberante di tutti è arrivato a dire che Hamas non è araba, in un'affermazione di orgoglio, ma non risparmiava le critiche a Israele: “Vuole uccidere Hamas? Ha ragione, fa bene. Però non deve pensare che siamo tutti di Hamas, non deve uccidere gli altri”. Non era uno di quei dibattiti formali, con convenevoli e liti già scritte. Erano operai che facevano rimpiangere la lotta di classe, al tempo delle guerre di religione. Quando siamo tornati verso la strada asfaltata, avevamo la sensazione di esserci imbattuti in un'oasi rustica. “Mi sembra una Nevé Shalom operaia”, ho detto io, ricordando quel villaggio dove ebrei, musulmani, cristiani vivono insieme, e che non ho mai visitato. “Quelli sono hippie che hanno l'età nostra”, ha detto Garo. “Sai cosa dice mio figlio giovane? Che tutti i pazzi di tutte le religioni vanno ad abitare lì”. “Be', sono pazzi ma almeno non fanno la guerra”. “Toni – mi ha detto Garo – uno come te non ci resterebbe neanche un giorno, lì. Sai perchè? Perché non hai la coda di cavallo, sei poco credibile come vecchio pacifista”. Abbiamo riso, anche per mascherare l'imbarazzo di quell'oasi operaia così difficilmente catalogabile, vicino ai rumori della guerra. “Ma ci sarà gente così anche a Gaza, no ?”. “Sì ma non li intervistano, o se li intervistano dicono altre cose. Poi, sotto le bombe è difficile andare per il sottile”.
Insomma, abbiamo lasciato quell'angolo di campagna come fuori dal mondo, anche se i cappelli di paglia coloratissimi di un gruppo di donne che raccoglievano i pomodori ci ha fatto rallentare, e abbiamo chiesto da dove venissero. Thailandesi, ci ha risposto il caposquadra. Non è neanche questione di proletariato, allora, perché i proletari lì, non erano né gli israeliani né gli arabi. Siamo stati zitti, anche quando abbiamo incrociato una lunga fila di motociclisti con i giubbotti di cuoio, i chopper, e le bandiere israeliane al vento. “Garo, sotto i caschi hanno le code di cavallo pure quelli”, ho detto io. “E anche tu, se non avessi i capelli ricci, potresti fartela, la coda, forse siamo un po' fuori dal tempo”. Garo è stato zitto, ma capivo che stava pensando come dirmi qualcosa. Era di nuovo buio quando me l'ha detto: “Stanotte ho sognato il gabbiano. E' venuto a dirmi che era colpa sua, così fermo in mezzo alla strada, che io non avevo colpa”. “Sai – gli ho risposto – non mi era mai capitato di vedere un gabbiano così, fermo sull'asfalto. Corvi, magari, a cercare qualche resto di ricci, sì. Ma gabbiani mai. Forse era intontito dalle esplosioni”. Abbiamo rallentato, prima del punto dell'investimento. Non c'erano tracce. “Garo, forse è sopravvissuto”. “No, te l'ho detto che l'ho sognato. Quel che restava, se lo sono portato via le volpi”.
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