Il diritto di morire. E quello di non essere affamati e assetati?

Giuliano Ferrara

Il bizzarro articolo di Rodotà è contrappuntato e suggellato, nella prima pagina della Stampa, da un bizzarro lapsus. Un titoletto che dice, a commento dei fatti: NESSUNO VUOLE ELUANA. Ma come nessuno: e le suore?

    Il giurista Stefano Rodotà ha scritto un articolo davvero bizzarro sul caso di Eluana Englaro (Repubblica di sabato scorso). Il fatto che la clinica di Udine abbia desistito dal proposito volenteroso di lasciar morire la disabile per fame e sete, dopo un atto di indirizzo del governo che contraddiceva una sentenza della Corte civile d'appello di Milano, sarebbe una “ottura della legalità”. Ma i poteri non erano tre? Il circuito di legalità è chiuso, interrotto da una sentenza civile? Che cos'è la legalità, il dispotismo di un tribunale, la reductio ad unum dei diversi poteri dello stato?
    Rodotà produce automatismi morali molto discutibili, e tutti evidenti nel linguaggio che usa. Sono violati, dice “diritti fondamentali della persona”, come quel “diritto di morire con dignità” che la difficoltà di esecuzione della sentenza su Eluana Englaro calpesterebbe. Ma è in nome del diritto di una disabile grave a non essere affamata e assetata che l'atto di indirizzo del ministro Maurizio Sacconi è stato scritto e reso pubblico.

    O sbaglio? Come fa Rodotà a parlare di una persona che sta per essere soppressa, e invece viene risparmiata, come di una “vittima sacrificale”? E quale sarebbe l'indegnità o l'indecenza del suo vivere un ciclo di sonno e veglia tra le mani di suore amorevoli da molti anni? Sono indegne le vite, o indecenti, di migliaia di disabili che vivono senza una coscienza vigile? Forse il giurista voleva alludere alla libertà conculcata di un tutore, il padre della ragazza, di procedere secondo quella volontà di morire che egli le attribuisce? Bè, è vero, quella è una libertà di disporre della vita di un altro in suo nome che è stata fino ad ora limitata, ma è una cosa diversa, meno univoca. Bisognerebbe essere chiari, in casi tanto delicati.

    Per Rodotà è “sincero” il comunicato della clinica di Udine con il quale si dice: non possiamo procedere, sono a rischio i nostri finanziamenti, stipendi e posti di lavoro per via del Diktat del governo. Sì certo, è sincero. Chi ha letto l'Antigone di Sofocle sa però che, dopo avere inalberato il vessillo della loro coscienza, i sanitari di Udine e gli amministratori della clinica avrebbero dovuto essere conseguenti, evitare di comportarsi come burocrati o imprenditori in una questione di vita, di morte e di presunta libertà dell'individuo di fronte alla volontà leviatanica, onnipotente dello stato. Se quello che si intendeva compiere, con il sostegno di un plotone di volontari dell'eutanasia, era un gesto di umanità e di liberazione, forse lo scontro tra cittadini e autorità avrebbe potuto essere meno banalmente notarile. Avevo già notato questo tratto di “banalità del male” nel linguaggio eufemistico che i dirigenti della clinica usavano quando parlavano dello spegnimento imminente della disabile con le formule di un disumano protocollo di amministrazione mortifera. Non avevano il coraggio di dire la verità: sopprimiamo questa ragazza in nome della sua libertà e della nostra idea di carità, che non è cura ma liquidazione di una vita non degna di essere vissuta. Adottavano penose circonlocuzioni.

    Un uomo intelligente come Rodotà si mette poi a fare il sofista piccino piccino. Paragona il caso dell'eutanasia con il bollo del Tribunale, e che un domani si vorrebbe con il bollo del governo e del Parlamento, al rifiuto delle cure con esito mortale (fa il caso di quella signora che non si è voluta fare amputare la gamba). Il personale medico e l'autorità civile possono e debbono accettare, subire l'estremo atto di libertà negativa di un individuo vigile che rifiuta la cura. Ma non possono e non devono autorizzare per sentenza o per legge o per atto amministrativo la decisione, contraria a ogni deontologia medica e a ogni spirito di umanità, di far morire per fame e sete una persona priva di coscienza in nome della quale ciò sia richiesto o una persona vigile che lo richieda direttamente. Io posso rifiutare acqua e cibo, la comunità può subire la mia decisione, ma non può negarmeli mai, mai, deve offrirmeli fino all'ultimo istante. Ma non si capisce la differenza?

    Il giurista parla di “accanimento ideologico” e lo imputa a quei mascalzoni che non vogliono lasciar staccare il sondino della ragazza. Accanimento ideologico è la lunga battaglia dei guru bioetici che circondano il padre di Eluana Englaro per dimostrare, in una specie di manifesto etico e filosofico della scristianizzazione radicale del mondo, che la vera carità è quella atea, quella della consapevolezza di sé senza speranza, di una autocomprensione che non si trascende. La cura delle suore misericordine di Lecco è illusione religiosa, prigionia nel pregiudizio, il distacco del sondino e la morte tra i conforti dei sedativi è realismo laico, libertà della coscienza. Il bizzarro articolo di Rodotà è contrappuntato e suggellato, nella prima pagina della Stampa, da un bizzarro lapsus. Un titoletto che dice, a commento dei fatti: NESSUNO VUOLE ELUANA. Ma come nessuno: e le suore?

    • Giuliano Ferrara Fondatore
    • "Ferrara, Giuliano. Nato a Roma il 7 gennaio del ’52 da genitori iscritti al partito comunista dal ’42, partigiani combattenti senza orgogli luciferini né retoriche combattentistiche. Famiglia di tradizioni liberali per parte di padre, il nonno Mario era un noto avvocato e pubblicista (editorialista del Mondo di Mario Pannunzio e del Corriere della Sera) che difese gli antifascisti davanti al Tribunale Speciale per la sicurezza dello Stato.