La peste del Vuoto avanza senza pietà e ogni giorno consegna alle telecamere grida, rutti e tette
L'horror vacui riempie la Tv
"Teresa la ladra” non sapeva fare niente. Onestamente, neanche la ladra. Né la ballerina, quando ci provò. Non le veniva bene neanche di fare le marchette. Così, nella sua storia a ridosso tra guerra e dopoguerra, finì in manicomio: avesse avuto qualche decennio di pazienza, probabilmente in un reality.
Più una cosa è nulla, o male addirittura, più è vanificante o vanificata, più viene accettata e celebrata. Sembra uno scherzo, dapprima: poi, a poco a poco, ti convinci che è una realtà (sebbene dell'irreale, cioè del nulla). Ma questo gran giocare e inchinarsi delle società moderne intorno a uomini da nulla, opere da nulla, cose del nulla (che spesso, come il cavallo del mito, trasportano crimine, e là dentro si sente cantare e ridere in vista della città dell'uomo che sta per essere saccheggiata), questa cosa tiene desti: come un incanto, un prodigio” (Anna Maria Ortese, “Corpo celeste”, Adelphi).
"Teresa la ladra” non sapeva fare niente. Onestamente, neanche la ladra. Né la ballerina, quando ci provò. Non le veniva bene neanche di fare le marchette. Così, nella sua storia a ridosso tra guerra e dopoguerra, finì in manicomio: avesse avuto qualche decennio di pazienza, probabilmente in un reality. Con la sua meravigliosa inettitudine a tutto – carente nel borseggio, goffa nei movimenti, imbranata del proporsi – era dotata di tutti i necessari requisiti. E un solo problema: che il personaggio evocato molti anni fa da Dacia Maraini, e portato sullo schermo all'inizio degli anni Settanta da una strepitosa Monica Vitti, rispetto alla gran folla televisiva dei nostri giorni ha una complessità da accademico dei Lincei. Teresa paga dolorosamente e ingiustamente il suo non saper fare niente (a parte amare, ma questo mai viene messo nel conto), neanche difendersi – dalla galera al manicomio a tali scariche di botte da qualche stronzo di turno da spezzare la schiena. Questi altri vedono ricompensata ogni assenza di qualità con qualche compartecipazione televisiva, adunate su isole caraibiche, sepolti vivi in terra africana, affogati nelle piogge monsoniche, sequestrati in case ipertecnologiche – ma tornano sempre, sempre li disseppelliscono, restano a galla, inesorabilmente li tirano fuori.
E' il nostro quotidiano horror vacui televisivo – tra gridolini e rutti e tette. Ciò che era inabissato a un minimo di vergogna o in minimo di delimitazione sociale – parrucchiere di medio o basso target, camionisti in fase di riposo sulle piazzole di sosta, accasermamenti da film porno soft anni Settanta (con pettorute dottoresse vaganti per corsie militari) – si è fatto senso comune e comune programmazione. Il liberatorio “cazzo!” di Zavattini – una volta, e per sempre – è diventata la chiappa in cima all'albero, ripresa da sotto, all'ora della televisione dei ragazzi – e non che il ragazzo, sia pur ragazzino, non sappia comprendere e, in fase di sviluppo ormonale, adeguatamente apprezzare. Anno per anno, un pezzo per volta, semplicemente è stata cancellata ogni idea di vergogna – che sarebbe poi, e innanzi tutto, ogni idea di misura, di grazia, di discrezione.
Sotto le telecamere scopi, ti fai la doccia, patisci la fame, ti lasci con l'altra persona, vomiti odio o ingurgiti offese, prometti amore e metti le corna, scoreggi e scoreggi e scoreggi (come i benemeriti della Gialappa's hanno dimostrato, l'epica della scoreggia – quasi sempre notturna, ma spesso diurna – è centrale in questi accasamenti coatti televisivi), parli e parli e parli, in un'infinita noia che solo la presenza di solo cento o mille telecamere rendono evento. La celebrazione del Nulla, del Niente meno meno, dell'Irrilevanza assoluta – nell'ora di massimo ascolto, nella consacrazione che passa attraverso i telegiornali più importanti, le pagine dei quotidiani principali, il dibattito di politici in fase di riflusso ideologico. La peste del Vuoto – che prende televisioni giovanilistiche (quelle dove di solito strillano al massimo, immagini sgranate, smutandate alle prime armi e palestrati con la mutanda in vista: come se ognuno avesse già in corpo tre canne e cinque birre) e televisioni generaliste, quelle cattoliche (buone, quelle: trasmessa la messa e svoltata la giornata con un paio di preti, non le distingui dalle altre) e televisioni laiche. Perché il Nulla ogni barriera supera, ogni differenza appiana, ogni contrasto sana. Ciò che in tempi meno politicamente corretti e più fattivamente concreti si definiva come imbecillità, oggi cerca termini più appropriati, sociologia più affinata, psicologi più compiacenti.
E' un meccanismo infernale costruito apposta perché la gente possa dare il peggio – e perché possa dare il peggio vincendo l'ultima fragile barriera di decoro, c'è bisogno del consenso generalizzato dei mezzi di comunicazione. Che dibattono – stupidamente, avidamente, brillantemente – con pezzi di reality, avanzi freschi di reality recenti, avanzi in decomposizione di reality del passato, certi che transitano da un reality all'altro – pure gente che da un Grande fratello spagnolo adesso arriva al Grande fratello italiano, altri che dal Grande fratello italiano passano al Grande fratello brasiliano, o robe del genere: e poi dicono che l'Internazionalismo è morto. Come è vero che si globalizza tutto: i giocattoli non a norma, i concorrenti, il latte intossicato… A metà settimana Berlusconi – che per queste cose ha fiuto, e che alla discrezione non è del tutto portato – ha fatto sapere: “Ho visto in televisione il giorno dell'apertura del Grande fratello. E' sempre interessante e magnetico”, proprio così: interessante e magnetico, capace che si tramuta in una fucina di altri eletti liberali. Per fortuna i gusti dei padri non ricadano sui figli, e Barbara Berlusconi, con felicissima sintesi anni fa fece sapere: “Non farei vedere Buona domenica ai figli, e il reality e il Bagaglino”. Forse è facile fare gli snob, i moralisti, gli stronzi, dato che bisogna interrogarsi sui fenomeni di costume, sugli interessi dei giovani, sulle dinamiche sociali, ecc. ecc… Così, che è diventato praticamente impossibile dire a qualunque schifezza che è una schifezza.
Perché se poi ne discutono, per dire, a Porta a porta o a Matrix, e non solo a Buona domenica o in qualche pertugio dei sorprendenti pomeriggi televisivi, che figura si fa? Se faccende come la sesta di reggiseno (con effetto Suv dominante sulle pagine di tutti i giornali) o il primo bacio sotto la doccia o la macellaia che per il momento è in trasferta al Gran hermano, in attesa di raggiungerci in patria, e che rivela di avere una relazione con una donna, suscitano l'interesse e mobilitano colonne e colonne al Corriere della Sera (per dire del giornale più autorevole, mica per dire del solo giornale), vuol dire che inevitabilmente un po' coglione è chi si lamenta troppo e non chi dibatte sui forum se la sesta misura sia troppa a sua volta o se nel campo (che chiamalo campo, più che altro terrazzamento) non c'è troppo che tenga. Abbiamo esaurito, per restare ai reality – ma poi si vedrà che solo ai reality non è possibile restare: si limitasse, il fenomeno, a questi sorprendenti ammassi umani, sarebbe già tanto – La talpa e L'isola dei famosi, ha appena debuttato il Grande fratello, si annuncia la partenza per il Brasile (è tutto un andare e venire: ognuno ci tiene a far vedere il meglio nel campo) di Mara Venier, che andrà a fare l'inviata dalla Fattoria – un luogo dove negli anni passati a sortirne con più senso di sobrietà erano le mucche che dovevano essere munte, magari sì da braccia sottratte all'agricoltura, ma purtroppo all'agricoltura non riconsegnate.
Da anni, la riapertura della stagione televisiva – dopo la pace estiva delle repliche, che uno tira un respiro di sollievo tra vecchi teleromanzi, spezzoni di vecchia televisione, al più qualche esibizione passata di Toto Cutugno – è pericolosa quanto quella della caccia per le quaglie: strane figure si profilano all'orizzonte, mestieri improbabili trovano eco, pianti irritanti per figli e mariti e cani lontani (e che cazzo li hai lasciati a fare, se non può vivere senza di loro?). La fine tragica e ormai irrimediabile del nostro (del loro, si spera) senso di vergogna viene superato con frasi fatte del genere “voglio mettermi alla prova”, “voglio fare una nuova esperienza”, e vaghezze simili. Divette in declino, ex parlamentari, attori non propriamente travolgenti, sportivi delusi, incerti lavoranti (genere: faccio eventi), danno vita a una sorta di transumanza che attraversa l'intero autunno-inverno degli italiani. E siccome anche a grattare il fondo del barile, a un certo punto il fondo del barile cede, ci sono di quelli che passano da un reality all'altro, ridenti duplicati di duplicati, comparsate su comparsate, litigate su litigate. Nelle trasmissioni che dovrebbero essere d'informazione (Iddio deve aver pietà di questa parola, se ancora non si è deciso a confonderla definitivamente con le altre sulla torre di Babele), queste file secondarie non dello spettacolo, figurarsi, al più del mondo televisivo – dove tutto è più vasto e dove l'insipienza ha a volte buone possibilità di farsi merito – vengono apparecchiati nello studio con la solennità di eventi centrali, e giù corna e amorazzi e ripicche e strilli e insulti… Forse i conduttori si vergognano (ma pur campare conducendo si deve), forse neanche si vergognano più. Non devono, del resto.
Neppure austeri quotidiani provano il minimo imbarazzo a occuparsi della faccenda. Storie ripetute fino alla noia di ignoti – tranquillamente si scrive di Tizio o di Caio che faceva “il tronista” dalla De Filippi, manco fosse un lavoro come un altro, l'elettrauto o il panettiere: il tronista, una roba che dovrebbe sempre essere accompagnata da una risata beffarda e invece passa così, come fatto normale, e addirittura c'è chi viene presentata come “corteggiatrice” del “tronista” stesso, e se ne raccontano viaggi e aspettative (di che?) e desideri. E nessuno a domandare: perché? Certo, alla gente interessa pur se è il niente (obiettivamente, indiscutibilmente – non è un pregiudizio, ma un dato di fatto) di interessante hanno da dire. Fraseggio incerto, incerto avvenire, un correre sfiancante da provino a provino, magari velina, hai visto un po'… Ma a chi può fregare, nonostante il rilievo giornalistico, se la macellaia è lesbica o se il vigile milanese è gay (poi, su questa storia dei gay ci torniamo sopra, che si sta tramutando da buona battaglia in patetica lagnetta) o se il playboy vive tra Napoli e Hollywood (ma che vuol dire, a pensarci un momento, vivere tra Napoli e Hollywood?) o pure il “non vedente” (mezza pagina del Corriere sulla faccenda, senza manco poter scrivere “cieco” che non si dice pur se si pensa, e uno ricorda sempre Natalia Ginzburg che polemicamente chiedeva se la novella “La civetta cieca”, contenuta nelle “Mille e una notte”, adesso andava chiamata “La civetta non vedente”), che dice “mi metto in discussione” (ma che vuol dire? che deve mettere in discussione?), ma che secondo il giornale punta addosso a una ragazza dello staff il suo rivelatore di luce (somiglia a un telecomando) ed annuncia: “E' uno gnoccometro!”. Ma insomma… Ridere di niente, bisogna. Del Nulla, appunto, ché è faticoso e per trovare qualcosa di sostanzioso di cui ridere di cuore serve genio – non è mica stupida, la vera risata. Perché la risata forzata, poi, è l'altra peculiarità della perdita del senso di vergogna – ancora necessaria forma di civile autodifesa: questo non si fa, perché non sta bene farlo. Una volta era considerato molto borghese: si vede che la borghesia è stata abbattuta tenendo all'oscuro tanto Marx quanto i marxisti.
Un mondo (che come diceva Anna Maria Ortese più di trent'anni fa, tiene desti “come un incanto, un prodigio” – forse anche perché inquieta?) dove ogni cosa trova parole per essere detta, e giornali pronti a riportarla, e trasmissioni pronte a discuterne. C'è uno del Grande fratello dell'anno scorso detto “il Cumenda” dato che parla come Tino Scotti (se Tino Scotti non se la prende), quello che sta per andare in Brasile a fare il Grande fratello carioca, insieme a un altro che viene presentato come “ex corteggiato di Uomini e donne”, e che ha di queste aspettative: “Potrei avere un incarico importante a breve: ne sto parlando, ma per il momento non posso aggiungere altro. Comunque, io punto a eguagliare Silvio Berlusconi, il numero uno”. Che facciamo, ne vogliamo dibattere a Matrix? Oppure, sentite questa: don Antonio Mazzi, “già volto televisivo in vari programmi”, farà l'inviato, per conto di Sorrisi e Canzoni Tv nella casa del Grande fratello. Mica è uno scherzo. E' scritto proprio così, nel sito di Exodus: “Sarà lui ogni settimana a scrivere un articolo su Sorrisi e a tenere aggiornati i lettori su ciò che accade nella Casa, che lui ogni giovedì ‘spierà' da dietro i vetri a specchio di Cinecittà”. Ce n'è proprio bisogno? Don Mazzi, che ha fatto cose buone e belle, messo a dar conto dell'epopea delle poppe della sesta misura? Cos'è, giovanilismo pretesco? La parola di Dio dietro il vetro a specchio e su Sorrisi? E poi ce la stiamo a prendere con gli islamici che pregano per strada? Ecco, si fatica semplicemente a trovare il senso.
Può creare una trama così fitta, il Nulla, dalla quale nulla sfugge – né televisione né giornali. Il Nulla è Nulla, quindi facile da apparecchiare, facile da gestire, facile da cambiare. Il perfetto Nulla non richiede né buona musica né buona recitazione né buon ballo. Se possibile, neanche un buon italiano. Un fancazzismo costante e di basso conio – non una tantum, come una festa di addio al celibato, ma la costanza e la certezza. Si creano situazioni penose – e a volte le creano anche quelli che avrebbero qualche possibilità di evitarle. Perché, appunto, non di solo reality vive il nostro Nulla, ma di un'esondazione televisiva che non conosce argini né pause. E qui, arriviamo alla ormai stancante faccenda dei gay. E' un fatto serio – le volgarità e le paure di un mondo politico bastano e avanzano per quello che c'è da fare – e finisce in burletta.
Dunque, a Sanremo (c'è pure quest'altro fronte aperto: cantassero e basta, senza tirarla avanti per settimane e settimane) un cantante, Povia (così si chiama: Povia), canterà una canzone, “Luca era gay” (che comunque marca già un'evoluzione rispetto alla precedente esibizione: “Vorrei avere il becco”). Vabbè, e chi se ne frega se Luca era gay, se non lo è più o se lo è adesso a targhe alterne? Fatti di Luca, e casomai di Povia se si conoscono – il quale Povia, a sua volta, confessa: “Anche io ho avuto una fase gay: è durate sette mesi, poi l'ho superata”, il primo esempio noto di gay settimino. E invece, figurarsi… Ecco l'Arcigay che minaccia fuoco e fiamme e di bloccare il festival: “Il suo brano parla di guarigione di un omosessuale? Noi non siamo malati”. Pure Iva Zanicchi, nella sua infinita saggezza ha detto che è così (“Se uno nasce omosessuale non è una malattia, è una condizione e uno rimane omosessuale tutta la vita, e va bene. Io sono attorniata da omosessuali e mi trovo benissimo”), invece i fautori di tante battaglie libertarie stanno rimediando una pessima figura di paurosi e di permalosi. E mentre un altro cantante, Niccolò Agliardi, ha offerto una canzone dove il suo gay non “guarisce”, dato che non c'è nulla da guarire, ma si “ammala”, d'amore si presume e si spera (però Bonolis, che presenterà il festival, non ha accettato), il povero Luca non trova pace.
La proposta più incredibile è arrivata dall'Arcilesbica, che nientemeno vorrebbe una commissione con “rappresentanti di organizzazioni Glbt (gay, lesbo, bisex e trans) e di organizzazioni a tutela dei diritti umani” – e poi uno si lamenta se le cose vanno per le lunghe, per dire, in una commissione bicamerale per le riforme. Ma si può? Ma possibile che nessuno veda il brutto e il paradosso di una simile proposta? Per dire: quando Rossanna Fratello voleva cantare “Sono una donna, non sono una santa” che dovevano fare, istituire una commissione presieduta dal vescovo diocesano, con il concorso del sacrestano e di un paio di madri badesse ? Perché poi, l'horror vacui della nostra stagione televisiva, richiede anche, oltre alla risata forzata, la parola gratuita. Dire sempre, esserci sempre, non negarsi niente. Come ammette Franco Grillini, leader storico di Arcigay, che è pronto a lanciarsi su Sanremo, e intanto tiene pure il fronte del vigile gay “aitante” che dovrebbe finire al Grande fratello (lasciate stare, le faccende sono troppo complicate per tenerle tutte in fila): “Visto che non c'invitano, almeno occupiamo tutti gli spazi, anche i più trash…”. Un immenso Nulla ridotto a un'immensa terra di Nessuno, dove tutte le facce e tutte le storie (meno tutte le tette, pare) si confondono, si mischiano, annullano, su uno sfondo di voci incontrollate, di luci sfavillanti, di applausi insensati. E di dati auditel strepitosi, si capisce – che questa roba dell'auditel è il vero colera televisivo, l'idolo sacro e pagano, e bisogna sempre far salire il tono, sempre di più calcare la mano dal personaggio alla macchietta per inchiodare la gente davanti allo schermo (“un incanto, un prodigio”, appunto, sia pur pessimi).
Poco prima di morire, Marcello Mastroianni, in una bellissima intervista (“Mi ricordo, sì mi ricordo”), se la prendeva con la stupidità di Giochi senza frontiere, un'innocua e noiosa gara ludica tra concorrenti europei. A ripensarci adesso viene quasi tenerezza, sembrerebbero quei giochi – dove la gente si calava da scivoli insaponati per raccattare palle in mezzo alla piscina – un esemplare concentrato di buongusto e di utilità sociale. Tanto che, per esempio, chissà che ascolti farebbe oggi: non potrebbero piazzarla neanche alla tv dei ragazzi, nemmeno ai ragazzini dodicenni. L'asticella si è alzata anno per anno, lode per lode, ipocrisia per ipocrisia. Tutti fanno finta di parlare della modernità, mentre tirano i conti (comprensibili e meno nobili) economici. Ogni volta qualcosa di più, ogni volta un piccolo passo per distanziarsi ancora dalla discrezione e da quel minimo di televisione civile che resiste. Che non è per forza, se l'attimo che ci concediamo è meno che fuggente, quella “pedante” delle inchieste o dei film d'autore. Ma solo non parlarsi addosso, non discutere dei “lavoretti di mano” effettuati a portata di telecamera, non mandare in onda anche la scoreggia che inevitabilmente a un certo punto risuona. Libera caserma in libera televisione, si potrebbe dire – non fosse la caserma un luogo di ben maggiore utilità e certo di consapevole misura. La formula magica: alla gente piace. Alla gente potrebbero piacere molte cose che alla civiltà ripugnano, e allora? Dio ci scampi dalla televisione etica, ma ci scampi anche – e se ormai anche Lui non è più in grado, quantomeno ci preservi – dalla televisione con tanti e tali spazi concessi all'idiozia e al Nulla.
Tutto finisce con l'annullarsi. Se c'è Sanremo, perché dovrebbe esserci la finestra su Gaza a Sanremo – appurato che Luca era gay e adesso è un mandrillo rinsavito? Non ci sono i telegiornali, le trasmissioni di approfondimento, gli inviati sul fronte? Perché mischiare tutto con tutto, fino al rischio di rendere ogni cosa indistinguibile? Così che ti ritrovi, alla fine, il principe Emanuele Filiberto che partecipa a Ballando con le stelle (anzi, come è scritto nel sito: “S.A.R. Emanuele Filiberto di Savoia, Principe di Piemonte e di Venezia”), mentre il maggiordomo della stessa Casa Savoia partecipa al Grande fratello. La cuoca leninista non ha preso il potere, ma in televisione un maggiordomo non è da meno di un'Altezza Reale.
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