Tra il precedente di Kennedy e i cento libri all'anno di Bush

Ecco chi è Elizabeth, la poetessa nera che ha incoronato Obama in rima

Mariarosa Mancuso

Giura di aver da parte parecchie copie del componimento (con i computer tutto può succedere) e di sentirsi emozionata il giusto. Quando salirà sul palco per la poesia prevista dal cerimoniale – dopo il violoncello di Yo-Yo Ma – Elizabeth Alexander non teme la disavventura capitata nel 1961 al quasi novantenne Robert Frost. Doveva leggere “Dedication”, scritta per celebrare il giuramento di John Kennedy.

    Giura di aver da parte parecchie copie del componimento (con i computer tutto può succedere) e di sentirsi emozionata il giusto. Quando salirà sul palco per la poesia prevista dal cerimoniale – dopo il violoncello di Yo-Yo Ma – Elizabeth Alexander non teme la disavventura capitata nel 1961 al quasi novantenne Robert Frost. Doveva leggere “Dedication”, scritta per celebrare il giuramento di John Kennedy. Ma il sole era abbagliante, il vento gelido stropicciava il foglio, i caratteri della macchina per scrivere erano minuscoli e sbiaditi. Non riuscendo a decifrare i versi nuovi, Frost se la cavò con i vecchi, recitando a memoria “The Gift Outright” (Il dono totale). La letteratura ci guadagnò. I versi d'occasione scandivano “Summoning artists to participate / In the august occasions of the state”. Il vecchio poema più degnamente cominciava “This land was ours before we were the land's”. Quarantasei anni, nata a Harlem, Elizabeth Alexander è il quarto nome nell'albo d'oro inaugurato da Robert Frost.

    I due di mezzo – l'afroamericana Maya Angelou e il poeta dell'Arkansas Miller Williams – li invitò Bill Clinton. Ci sarebbe il James Dickey di “Un tranquillo weekend di paura”, ma Jimmy Carter lo invitò soltanto al gala. Amica di Barack e Michelle, con 4 volumi di poesie (tra cui “The Venus Hottentot”, dedicata alla schiava africana callipigia esposta negli zoo umani di Parigi e Londra agli inizi dell'Ottocento) e i saggi intitolati “The Black Interior”, ha sconfitto nomi più titolati. Per esempio, il premio Nobel caraibico Derek Walcott, che in “La Goletta Flight” scrive “ho dell'inglese, del negro e dell'olandese in me/ sono nessuno, o sono una nazione”. O il premio Nobel americano Toni Morrison, che in campagna elettorale voltò le spalle a Hillary Clinton (dopo aver salutato Bill Clinton come “primo presidente nero d'America”), lodando il talento letterario sfoderato da Obama nei due best seller autobiografici. O la molto arrabbiata Jamaica Kincaid: il nome d'arte rivendica orgogliosamente le origini, cancellando il coloniale Elaine Cynthia Potter Richardson. Tutti e tre nati peggio della poetessa di Obama, che è figlia di un consigliere per i diritti civili di Lyndon B. Johnson e insegna in un dipartimento di studi afroamericani, come già faceva sua madre.

    Elizabeth Alexander cita tra i suoi maestri il britannico Auden, l'irlandese Seamus Heaney, Virgilio e la nipote di schiavi Gwendolyn Brooks, nominata nel 1985 poetessa laureata dalla Biblioteca del Congresso. Qualcuno ha notato che i suoi testi sono molto attenti alla sostanza – razza, genere, oppressione, la faccia nera e sorridente di Aunt Jemima stampata sulle scatole di farina per pancakes e le bottiglie di sciroppo d'acero – e assai meno alla forma. Difetti che potrebbero peggiorare in una poesia d'occasione (ricordate i cormorani con ali appiccicose di petrolio? E l'assedio di Sarajevo?). Pessimo inizio per un presidente salutato da scrittori e artisti come la rivincita contro l'analfabeta (da 100 libri l'anno) George W. Bush.

    Speriamo di non dover rimpiangere Walt Whitman: maschio, bianco, saldamente insediato nel canone occidentale. Non il “Capitano, mio capitano”, che dopo “L'attimo fuggente” lo fece diventare l'idolo degli adolescenti e degli insegnanti sinceramente democratici. Pensiamo alla prima edizione di “Foglie d'erba”, 4 luglio 1855: “Gli Stati Uniti sono il più grande dei poemi. Qui finalmente troviamo nell'umano operare qualcosa che risponde all'operare maestoso del giorno e della notte. Qui l'azione svincolata da ogni laccio e giustamente ignara di dettagli e minuzie avanza magnificamente su vasta scala”.