La passione di Rosetta
Dobbiamo recuperare la guapparia, nella misura in cui è orgoglio e generosità, non prepotenza”. L'ha detto due anni fa Rosa Russo Iervolino, sindaco di Napoli ex post neo democristiano.
“…Scetateve, guagliune 'e mala vita … pe' chello ca 'sta femmena m'ha fatto, vurria ca 'a luna se vestesse 'e lutto…/ Mo c'aggio perzo tutta 'a guapparia/ cacciatemmenne a dint''a suggita… Scetateve, guagliune 'e mala vita” (da “Guapparia” di Mario Merola)
Dobbiamo recuperare la guapparia, nella misura in cui è orgoglio e generosità, non prepotenza”. L'ha detto due anni fa Rosa Russo Iervolino, sindaco di Napoli ex post neo democristiano dai molti incarichi e dalle prestigiose candidature (presidenza della Repubblica in testa), nel giorno dei funerali del cantante Mario Merola, sovrano di fatto della città, un “guappo buono che alla fine fa sempre prevalere la giustizia e il bene della gente”, come disse il sindaco alla folla piangente davanti al feretro – ed era una folla di “lazzari” che chiacchierava lacrimando, per prendere a prestito ciò che ha scritto di quell'evento il cronista per caso Edoardo Camurri, citando Benedetto Croce, nel libro “L'Italia dei miei stivali”: era un funerale fatto di antico popolo napoletano, “lazzari”, appunto, uomini che “hanno ridotto al minimo i bisogni di abitazione, di vestiti e di vitto” e hanno vissuto “giorno per giorno, senza darsi la pena di raggranellare più di quanto servisse per la giornata, spensierati e gai, di una gaiezza tra comica e umoristica… La povertà non li abbatteva né li faceva tristi e cupi, e comportava elasticità di spirito e una sorta di calma visione tra artistico e filosofico”.
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Il 14 novembre 2002, proprio mentre Giovanni Paolo II entrava in Parlamento – giornata storica, si disse – il direttore del Mattino di Napoli, Mario Orfeo, incontrò in città il sindaco Rosa Russo Iervolino, allora al suo primo mandato. Sindaco, ma come? Lei non è a Roma, oggi?, chiese stupito il giornalista. No, rispose il sindaco con un tono di voce profondamente dispiaciuto. E aggiunse: comunque avrei dovuto prendere posto in tribuna. In tribuna, e non tra i vecchi colleghi parlamentari. E fu in quel momento che l'interlocutore capì che il sindaco aveva la testa, se non il cuore, altrove, e che in quel “comunque” c'era già tutto il rimpianto per il mondo perduto da ex senatrice dc, figlia di un ministro degasperiano e di una parlamentare degasperiana dal cognome nordico, De Unterrichter. Il mondo perduto di una donna politica, madre di tre figli e moglie di un professore universitario “bello come Tyrone Power”, come ha detto la stessa Iervolino a Lucia Annunziata che la intervistava sulla Stampa. Il mondo perduto dell'ex presidente di una Dc in dismissione a cui Aldo Moro aveva fatto da testimone di nozze, il mondo dell'ex ministro della Pubblica istruzione, dell'ex ministro dell'Interno, dell'ex candidata alla presidenza della Repubblica a cui non poteva togliere la serenità neppure la battuta di Silvio Berlusconi – “non l'abbiamo votata perché anche l'orecchio vuole la sua parte” (e si sa che l'ex senatrice ha voce dagli acuti frequenti e un poco stridenti).
Ma forse la battuta più cattiva l'ha detta il mentore di Rosa detta “Rosetta”, Arnaldo Forlani, come raccontano i frequentatori dell'allora gloriosa sede della Dc, in Piazza del Gesù. Pare che Ciriaco De Mita, allora segretario del partito che aveva indicato Rosetta come ministro dell'Istruzione in un governo socialista, fosse andato da Forlani a dire: “L'ho indicata per due motivi, perché è donna e perché è tua”, ove “tua” stava per “appartenente alla tua corrente”. E pare che Forlani, ridendo, a quel punto abbia detto: veramente per quanto mi riguarda né è donna né è mia”. E chissà, magari sotto sotto era un complimento, ché Rosetta, donna che all'università aveva studiato la parità per le donne, già dimostrava la tempra di un valoroso generale.
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In quel “comunque” detto al direttore del Mattino in un giorno del lontano 2002 c'era già il dilemma interiore di Rosa Russo Iervolino. Perché ti puoi anche commuovere ai funerali di Merola (come il sindaco) e persino essere nato a Napoli (come il sindaco) e persino volere molto bene a Napoli (come dice sempre il sindaco), epperò non essere, nell'animo, del tutto napoletano. E forse allora si capisce anche perché molti napoletani non si stupiscano, oggi, delle difficoltà locali di una donna di gran cultura istituzionale. “E' un po' pendolare”, dicono infatti i cronisti che ora il sindaco vorrebbe tenere fuori dalle sale municipali – parlate solo a cose fatte, ha ordinato due giorni fa agli assessori, ed ecco che dalla sua “famiglia allargata” (così Rosa Russo Iervolino chiama i giornalisti quando è di buonumore) è spuntata la battuta: “A cose fatte? Con i ritmi della giunta andremo tutti in cassa integrazione”. Quanto alla pendolarità del sindaco, il sindaco stesso, sovente, si autodenuncia: appena posso corro dai miei figli e dai miei nipotini (a Roma e a Bruxelles). E però Napoli sa che c'è anche un'altra Roma nel cuore di Rosa Russo Iervolino: quella dei Palazzi che ha frequentato per trent'anni.
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Ma è stato l'altroieri – all'indomani della seduta d'inaugurazione del consiglio comunale “rinnovato” in quattro assessorati causa pasticcio etico-giudiziario (inchiesta Global service) – che si è capito che Rosa Russo Iervolino non ha soltanto nostalgia della “guapparia”di Mario Merola, ma che addirittura si sente come lui, “guappo buono che alla fine fa sempre prevalere la giustizia e il bene della gente”. “La Napoli buona esiste”, ha detto infatti mentre Walter Veltroni arrivava in visita nei pressi di palazzo San Giacomo, alludendo a se stessa almeno quanto alla città, provata da mesi di “scuorno” (vergogna di oggi e di ieri, una vergogna che quasi si fa Weltanschauung, stando all'omonimo libro di Francesco Durante).
Scuorno della città per i rifiuti, prima – nel senso della monnezza vera e propria, quella che ha determinato la rottura della luna di miele tra il sindaco e il suo popolo, anche se Napoli è commissariata per l'immondizia inevasa da un quindicennio, come ebbe a dire il sindaco che sempre ripete la frase “io non c'entro”. Tanto che non si lasciò intimorire, Rosetta, neppure da una nota dell'ambasciata americana, preoccupata per le esalazioni tossiche: “L'allarme sui rischi per la salute a Napoli a causa dei rifiuti è inopportuno e intempestivo perché interviene quando l'emergenza rifiuti è ormai alle spalle. La città è pulita e i cumuli di rifiuti non ci sono più”.
Scuorno della città, poi, per il pasticciaccio di appalti, soffiate, sospetti, dimissioni e tragiche morti (un ex assessore suicida, Giorgio Nugnes) – e il sindaco molto se ne addolorò: “Sussulto di dignità” che altri non hanno avuto, disse dell'atto di Nugnes.
Scuorno della città, infine – ma non del sindaco che dai tempi di Mani pulite dice “io ho le mani pulite” – per la permanente “emergenza pettegolezzo” sul tema corruzione: chi è corrotto, chi non è corrotto, chi se ne va, chi non se ne va.
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Che se andassero tutti (gli inquisiti), pensava Rosa Russo Iervolino quando era presidente della Dc – segretario era Mino Martinazzoli, e Tangentopoli infuriava. Lei, Rosetta, “una forlaniana ex fanfaniana che Forlani voleva come contrappeso moderato a Martinazzoli”, come la definisce un illustre esponente dell'allora Dc, scrisse una lettera a tutti gli inquisiti del partito alla vigilia di un'importante riunione del Consiglio nazionale, lettera in cui si invitavano i suddetti esponenti del partito “ad astenersi dal partecipare ai lavori del Consiglio”. Ed era una viscerale espressione di integralismo iervoliniano – tanto che alla vigilia della trasformazione della Dc devastata dalle inchieste in Ppi (senza congresso), la Iervolino chiamò al telefono Enzo Carra, attuale parlamentare del Pd ed ex portavoce di Forlani, accusato di falsa testimonianza nell'ambito di quello che poi, in un libro, Carra stesso chiamò “il caso Citaristi”. Iervolino alzò la cornetta e, come raccontano i retroscenisti dell'epoca, disse a Carra qualcosa che, il giorno dopo, tutta l'Assemblea Dc venne a sapere, e che suonava più o meno come un: per favore caro Enzo abbi la generosità di non presentarti alla riunione, pena l'effetto catalizzatore della tua vicenda (sottinteso: rispetto alla svolta martinazzoliana). E chissà se allora Rosetta, la dipietrista diccì, immaginava che, molti e molti anni dopo, l'ex pm Antonio Di Pietro sarebbe stato il primo a lasciare la sua giunta.
Oggi, di fronte all'uscita dell'Idv dalla scena napoletana, Rosetta dice: “Uno di meno”, e ripete “ho le mani pulite” e si augura di restare in comune fino al 2011.
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“Ho appena settant'anni” diceva Rosetta il 17 settembre del 2006, giorno di “festa e di lutto” – sono nata in quel giorno e in quel giorno ho perso il mio amato marito, raccontò alla stampa, e quella volta la voce sembrò a tutti improvvisamente profonda. Settant'anni in cui il suo ottimismo della volontà – non mollo, non mollo e ancora non mollo – si è scontrato spesso con la disapprovazione generale. E ci fu una volta in cui l'allora ministro dell'Istruzione Iervolino fu investita da cori di “vattene” più sonori di quelli urlati dagli studenti dell'Onda contro Mariastella Gelmini. Fu quando se la prese con Lupo Alberto, fumetto che il ministero della Sanità voleva usare, in edizione speciale, come opuscolo informativo contro l'Aids – da distribuire nelle scuole. Non che i disegni fossero particolarmente espliciti. Fu la lettura delle didascalie a creare sgomento nell'ufficio del ministro: trattavasi di scritte in cui si spiegava nel dettaglio lo slogan “come ti frego il virus”: “Potete dimenticarvi di averlo (il preservativo) fino alla fine del rapporto”. Seguiva dettagliata spiegazione sul come evitare incidenti tecnici. Fu troppo per un ministro democristiano più tradizionalista dei tradizionalisti (e i saggi dell'ex Dc narrano che, ai tempi del referendum per il divorzio, “Rosetta era più schierata dei vertici del partito, a cui non andava mica tanto di farsi fregare così”).
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Nessuno “scuorno” del sindaco, dunque, bensì un'unica prova durissima per la “guapparia” di Rosetta, soprannome troppo carezzevole per una “testa dura” (così si definisce il sindaco) che adora il parrucchiere – e non importa se il risultato del frequente ritocco all'acconciatura è sempre e comunque un parallelepipedo di capelli immobili, talmente immobili che il napoletano del bar, guardando sui giornali la pettinatura del sindaco, sorride e dice: “Per smuoverla ci vorrebbe l'acqua di Lourdes”. Non che il sindaco ci faccia caso, ché usa il parrucchiere come antistress fin dai lontani tempi in cui, senatrice Dc, faceva prove generali di Partito democratico – Dc e Pci in tandem, anche se, allora, soltanto per un atto parlamentare – firmando leggi socialmente utili con l'amica comunista Giglia Tedesco, senatrice storica come lei. E quando lo racconta, Rosetta – “io e Giglia abbiamo fatto assieme una delle leggi più liberali, quella sul cambio di sesso, come ha detto a Lucia Annunziata – non riesce a trattenere il rimpianto per i bei tempi andati.
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Oggi però sono altri tempi. Rosetta ha detto “io non c'entro” (con le questioni etico-giudiziarie che investono la sua giunta) e con quell'“io non c'entro” è andata avanti mentre tutti si chiedevano se fosse lei a voler resistere a oltranza, come pareva, o Veltroni a volerla tenere su quella poltrona. “Sono io che ho cercato Veltroni e non il contrario”, diceva intanto Rosetta a Giuseppe D'Avanzo su Repubblica, e se l'intervistatore le faceva notare che la convocazione a Roma era stata confermata da Giuseppe Fioroni, Rosetta sbottava: “Un altro genio!”, ciecamente irritata dall'accusa rivoltale dall'assessore inquisito Giuseppe Gambale: “Il sindaco? Scema completa”.
Oggi sono altri tempi e Rosetta, in piena discussione sui nomi nuovi della giunta, ha registrato un colloquio con il collega ed ex segretario del Pd napoletano Luigi Nicolais. E dire che racconta sempre di non saper usare il registratore. Fatto sta che il Partito democratico le ha mandato in loco il commissario Enrico Morando – che il sindaco considerava non necessario – scaricando sulla città già ferita “tensioni interne”, come diceva il sindaco due giorni fa: “Sull'amministrazione comunale di Napoli si è aperta una discussione in buona parte strumentale perché si sono scaricate su di essa tensioni che riguardano altri organi istituzionali: tensioni tra partiti della maggioranza e tensioni interne al mio stesso partito”. E non si capacita, Rosetta, che il suo registratore abbia destato tanto scandalo. Forse soltanto Giulio Andreotti, vecchio compagno di partito, ha saputo spegnere per un attimo l'incendio scoppiato a Napoli, con una battuta di soave spirito democristiano: “Io non sono molto portato per la tecnica, quindi non ci capisco granché. A Roma, però, abbiamo una bellissima espressione che dice: ‘Famo a fidasse, fidiamoci gli uni degli altri”.
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