La mela ammalata

Claudio Cerasa

C’è molto altro nella storia più recente, e più drammatica, di Steve Jobs: nella sua convivenza con quella malattia, con quel tumore al pancreas che i medici dello Stanford University Medical Center di Palo Alto fotografarono dentro la sua pancia alle 7,30 di una mattina di ottobre di sei anni fa.

    Mentre lo vedi scomparire dentro il suo maglione a collo alto, mentre lo vedi parlare con le braccia che si allargano e che si avvicinano come ali di farfalla, mentre lo vedi camminare – con i soliti jeans, con i soliti occhiali e con le solite scarpe da ginnastica – sotto l’immagine fissa di uno schermo al plasma e mentre lo vedi lì, immobile di fronte a quelle parole con cui ha scelto di condividere col mondo la sua malattia – “The reports of my death are greatly exaggerated”, le voci sulla mia morte, ha ricordato lui stesso con un sorriso, sono oltremodo esagerate – ti accorgi che il corpo di Steve Jobs, che il corpo dell’inventore e dell’anima di quel gioiello che è la Apple, non è solo il corpo malato del grande manager che rischia improvvisamente di sparire, non è solo l’identificazione completa di un uomo con il prodotto da lui creato e non è solo la trasformazione, o forse la trasfigurazione, di una persona in un’immagine che ha ormai raggiunto sfumature a metà tra il mistico, il sacro e l’iconografico.

     

    C’è molto altro nella storia più recente, e più drammatica, di Steve Jobs: nella sua convivenza con quella malattia, con quel tumore al pancreas che i medici dello Stanford University Medical Center di Palo Alto fotografarono dentro la sua pancia alle 7,30 di una mattina di ottobre di sei anni fa: con quei dottori che pochi giorni dopo gli dissero di andare a casa a mettere “ordine nei suoi affari” e con Steve – lo racconterà lui stesso pochi mesi dopo in una bellissima lettera inviata ai soci di Apple – che all’epoca non sapeva nemmeno che cosa fosse, quel maledetto pancreas. Glielo spiegarono subito i dottori, gli spiegarono che il pancreas produce ormoni molto importanti, che questi ormoni regolano il livello degli zuccheri nel sangue, che gli enzimi prodotti dagli ormoni consentono la digestione di una parte dell’intestino e che tutto questo ora nel suo corpo non funzionava più: il tumore aveva creato un effetto a catena, aveva moltiplicato rapidamente le cellule nella testa dell’organo e per questo – così gli avevano detto – aveva dai tre ai sei mesi di vita. Non di più. Steve cominciò così a perdere peso, come gli succede oggi: dimagrì dentro il suo maglione nero, scelse di curarsi con la medicina alternativa, seguì una dieta speciale per evitare di essere operato e lo fece fin quando, dopo aver fatto nuove analisi, scoprì che la massa tumorale era diventata ancora più grossa, e che a quel punto l’operazione era diventata semplicemente necessaria.

     

    Era il 31 luglio del 2004: quel giorno le azioni Apple persero il due per cento del proprio valore, e la storia clinica del corpo di Steve continuerà a far fare su e giù, su e giù su e giù al titolo della Apple per altri cinque anni, fino ad oggi. Fino ad arrivare a quella lettera che Jobs ha inviato pochi giorni fa a tutti soci della Mela. Questa: “Sono sicuro che tutti voi siete a conoscenza della mia lettera della scorsa settimana, in cui ho condiviso elementi molto personali con la community Apple. Sfortunatamente, la curiosità sul mio stato di salute continua a distrarre non solo me e la mia famiglia, ma tutti in Apple. Inoltre, durante l’ultima settimana, ho appreso che i miei problemi di salute sono molto più complicati di quello che pensassi. Per sottrarmi dalle luci della ribalta e concentrarmi sulla mia salute, e per favorire la concentrazione di tutti in Apple verso i suoi prodotti straordinari, ho deciso di prendermi un congedo medico fino alla fine di giugno. Ho chiesto a Tim Cook di responsabilizzarsi per le operazioni quotidiane di Apple, e sono certo che lui e il resto dei dirigenti esecutivi faranno un ottimo lavoro. In qualità di Ceo ho chiesto di essere coinvolto per le decisioni strategiche quando sarò fuori. Tutto il consiglio di amministrazione mi ha appoggiato in questa scelta. Attenderò con ansia di vedervi tutti questa estate. Vostro, Steve”.

     

    E’ stato subito panico: la lettera di Jobs ha fatto precipitare di dieci punti il titolo della Apple, i soci hanno cominciato a vendere azioni, la “comunità”, come la chiama Jobs, è entrata nel pallone e in poco tempo – come ha calcolato il Sole 24 Ore di martedì scorso – alla fragilità del corpo di Steve Jobs è stato dato anche un valore: due miliardi di euro, ovvero la differenza esatta tra la capitalizzazione di Apple dal giorno di chiusura delle borse e il momento in cui per la prima volta il suo mondo ha provato a immaginarsi una Mela senza uno Jobs. Era già successo nel 2004, quando Jobs scoprì di essere malato. Era già successo nel 2000, quando Steve si ritrovò nei pasticci per uno scandalo legato a una serie di azioni retrodatate. In quell’occasione Gene Munster, analista della Piper Jaffray, spiegò che in caso di dimissioni del numero uno Apple la società avrebbe perso qualcosa come il 20 per cento del capitale azionario. Il tutto sarebbe successo nel giro di una notte. Solo una notte.

     

    Ma il corpo di Steve Jobs – un corpo oggi così debole, così sottile e naturalmente così fragile – è molto più che un semplice calcolo matematico: inevitabilmente, la sua malattia è in un certo senso anche la malattia di Apple, è un virus che diventa male non solo fisico, non solo economico ma anche informatico, persino multimediale, e non era mai successo prima d’ora che ci fosse qualcosa come il corpo di Steve che diventasse il punto di incontro perfetto tra un virus biologico e un virus digitale: qualcosa che riuscisse allo stesso tempo a mordere ora lo stomaco di un manager ora il corpo di un’azienda. Perché quello tra Jobs e la sua società è un rapporto viscerale, carnale, verrebbe da dire quasi erotico. Jobs è il Mac su cui scriviamo gli articoli. Jobs è l’iTunes da cui scarichiamo la musica. Jobs è l’iPod da cui ascoltiamo le canzoni. Jobs è la mela. Jobs è quasi ontologicamente la Apple, ed è lui il pezzo unico con cui la Mela morsa riesce a essere perfettamente completa. Unica. “Esistono pochi altri casi di condivisione e identificazione completa di un uomo con il suo prodotto, di un manager con la sua creatura, di un genio con la sua invenzione”, dice al Foglio Massimo Canevacci, esperto di nuovi media e professore di Antropologia culturale all’Università la Sapienza di Roma. Jobs non ha solo cambiato il modo di ascoltare musica. Jobs ha cambiato semplicemente il modo di fare musica.

     

    Lui fa così: ti prende e ti trasforma. Fa così con la musica e fa così con il resto. Perché Steve è entrato a far parte della Apple con la stessa violenza con cui il malanno è entrato a far parte del suo corpo, e il paradosso del suo successo è che, mentre lui vede ancora oggi l’Apple come la sua azienda, in un lampo è riuscito a convincere sia gli azionisti, sia i soci, sia i clienti che la Apple è roba loro. “Il suo corpo – spiega Canevacci – non è solo il corpo del manager: è un corpo che ha in sé, e che incarna, tutto quello che può significare l’espressione nuova generazione. Il fatto è che quando hai in mano un iPod, un Mac o un iPhone tu Steve lo tocchi proprio. E’ un rapporto di condivisione carnale anche in questo senso. Uno dei protagonisti del film girato nel 1983 dal regista canadese David Cronenberg, “Videodrome”, sosteneva che ‘la lotta per il possesso delle menti, in America, dovrà essere combattuta in una videoarena, col videodrome, e che lo schermo televisivo, ormai, è il vero unico occhio’. Se mi è concesso, oggi quell’occhio penetrante – quell’occhio con cui abbiamo accesso alla tecnologia – non è altro che l’occhio di Steve Jobs”.

     

    Ecco cos’è Jobs: Jobs è un volto, è un’immagine, è un icona, è quella scatolina bianca dell’iPhone, che quando la apri ti mette di fronte a un oggetto che ancora prima di scoprire, che ancora prima di capire se possa essere utile o no, e ancor prima di darti la possibilità di suddividere il mondo nello stesso modo schematico con cui lo fa Steve – “It is extremely great, or it just shit” – tu lo prendi e pensi solo questo. Che fico. Steve è così: non è solo “hype”, non è solo seduzione pubblicitaria e la sua non è solo una raffinata tecnica di vendere tappeti ad altissimo livello. E’ qualcosa che sta un po’ più in alto: Steve è la parola che diventa oggetto prima ancora di poterlo toccare, è la faccia senza cui un’azienda rischia di rimanere semplicemente senza volto. L’Apple senza Jobs è un’azienda senza leader, è un’iPhone senza foto, un iPod senza musica, un computer senza connessione, un comunista senza Enrico Berlinguer, un radicale senza Marco Pannella, un leghista senza Umberto Bossi, una Roma senza Francesco Totti. Attenzione: quando si parla di Apple e di Jobs, non va sottovalutato quello che potrebbe anche essere definito “effetto rincoglionimento”.

     

    Quella sensazione che – senza una ragione apparente o senza una motivazione sensata – ti porta a osservare con occhi increduli cose che, a guardarle bene, non sono poi sempre così belle, ma che tu invece consideri magnifiche semplicemente perché non puoi fare altrimenti: è l’effetto “pasqualismo” (in omaggio a un film in cui Totò veniva scambiato per un tal Pasquale e schiaffeggiato) di cui parlava tre giorni fa sul Corriere della Sera Aldo Grasso; quella “strana malattia psicologica che intacca il centro della volontà e costringe il paziente a penose coazioni a ripetere davanti al televisore”. La malattia di Steve, però, è soprattutto la malattia del grande capo, e come capita spesso con tutti i capi che non sono in forma e che si scoprono fragili, vulnerabili e indifesi, la fragilità del numero uno diventa anche la fragilità del gruppo: cosa che se in politica si può tradurre in un’improvvisa e produttiva voglia di fare squadra, in una necessità di rinnovamento che ti porta a sostituire l’immagine del leader con la forza del gruppo e che può persino impedirti di farti crollare il mondo addosso, nelle grandi aziende invece non succede quasi mai: perché gli azionisti non sono elettori e appena i muri ballano loro spesso cominciano a vendere.

     

    Politica, si diceva. Perché c’è qualcosa di molto politico nella vita e nella storia di Steve. Nella sua leadership più calda che carismatica. Jobs ironizza spesso sul modo messianico con cui viene raccontato dai giornalisti ma è difficile negare che il corpo del numero uno di Apple sia un corpo anche efficace. “Se la mela fosse divisa in due – conclude Canevacci – Barack Obama e Steve Jobs si troverebbero sui due lati della mela. Perché Obama riesce a utilizzare gli strumenti della comunicazione con la stessa forza e la stessa efficacia di come Jobs riesce a rappresentarli. Jobs traduce in oggetto un’emozione, Obama fa lo stesso con le parole. Steve è politica nella misura in cui vende la sua parola, e il suo credo, senza aver bisogno di uno spazio vero per farlo. Volendo volare un po’ più in alto, il misticismo di Jobs risponde a una domanda più che commerciale per certi aspetti quasi teologica, e che ha a che fare più con il telos, con il fine, che con il prodotto. Come dire che se Apple è Dio, Steve è suo figlio. Per questo, Jobs è la mela, il suo corpo ha la forma di una mela, e l’identificazione con quel prodotto – per come lo usiamo, per come ne parliamo, per come lo tocchiamo – è così forte che anche noi siamo parte di quella stessa mela”.

     

    Una fragilità, questa, che nel caso di Jobs ha dentro di se un seme di possibile “distruzione creativa”, come direbbe Joseph Schumpeter. Una distruzione che Steve ha sperimentato almeno altre tre volte nella sua vita. Cinque anni fa con il tumore. Otto anni fa con la bolla tecnologica. Ma soprattutto trent’anni fa, quando Steve fu cacciato dalla Apple e quando fu così, vivendo nell’assenza di quello che amava, che capì cosa voleva veramente. Quel periodo della sua vita, Steve lo spiegò così: “Mi liberò dagli impedimenti, consentendomi di entrare in uno dei periodi più creativi della mia vita”. Fu anche grazie a quella forza che la Apple di Jobs è riuscita a sopravvivere senza troppi danni ai due uragani che la Mela hanno provato a risucchiarsela via due volte: nel 2001 con la bolla della new economy e in questi mesi lo tsunami economico mondiale. Tutto questo, prima che Steve cominciasse a perdere ancora una volta peso, prima che le cellule del Pancreas iniziassero nuovamente a moltiplicarsi e prima che Steve si ritrovasse alle prese con quello “scompenso ormonale” che ha ricominciato a rubare le proteine necessarie per la salute del suo organismo.

     

    Jobs non potrà mai essere come Bill Gates. Perché Jobs ha qualcosa che a Bill non riescono a dare neppure i soldi. E’ la differenza tra l’essere uno degli uomini più ricchi del mondo (come lo è Gates) ed essere uno di quelli più potenti (fino a qualche anno fa, secondo la rivista Fortune, Steve era il venticinquesimo uomo più potente del mondo). Tra Steve e Bill, tra Apple e Microsoft c’è tutta la differenza che esiste tra una ragazza bellissima e una ragazza che ti fa perdere la testa: una che a poco a poco entra dentro di te in modo così violento che tu ne vuoi sempre di più, che tu ne cerchi sempre di più e che non puoi fare a meno di vederla di sentirla e di ricordarla in ogni cosa che ti passa accanto. Bellissima come Microsoft.

     

    Perfetta – perché ti colpisce, ti smuove e ti mordicchia come se fossi una mela – come Apple. Certo, sarà pure un po’ rincoglionimento, o forse sarà solo un po’ fascino, o magari semplice passione, una semplice condivisione amorevole resa ancora più forte da un legame che si scopre fragile e che ti fa considerare unica e preziosa qualsiasi cosa che abbia a che fare con lei – “Come un attore hai scelto il ruolo/ di chi è sicuro di se,/ ma sai benissimo che la tua arte/ è nella parte fragile di te”, cantano i Tiromancino. Fatto sta che le cose probabilmente andranno così. Fatto sta che il possibile futuro della Apple senza Jobs sarà sicuramente un nuovo genio, sarà un genio che magari farà cose geniali, che magari avrà idee meravigliose, che magari sarà giovane, che magari sarà persino nero ma sarà un genio anonimo, ma sarà un genio senza volto. I sostituti possibili di Steve Jobs esistono già e si chiamano Tim Cook (oggi Ceo ad interim di Apple), Phil Schiller (vicepresidente marketing di Apple), Scott Forstall (vicepresidente della divione iPhone Software). Ma in questo momento nessuno ci fa caso, perché ci sarà pure qualcuno convinto che la Apple se la cavarà benissimo anche senza Jobs, che senza di lui – sostiene per esempio Ezra Gottheil, del gruppo Technology Business Research – Apple dovrebbe faticare solo un po’ di più per ottenere l’attenzione generale e che non c’è motivo di credere che queste cose non possano essere continuate senza di lui”.

     

    Perché ci sarà sempre qualcuno che ironizzerà su di lui, qualcuno che continuerà a odiarlo, qualcun altro che continuerà a chiamarlo messia, ma la verità è che attorno a quel corpo, attorno a quel volto e attorno a tutte quelle voci oltremodo esagerate oggi c’è un mondo fatto di persone che si farebbero volentieri mordicchiare una parte di sé per non vedere scomparire definitivamente quella figura fragile dentro un bellissimo maglione a collo alto.

    • Claudio Cerasa Direttore
    • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.