Mentre comincia il girone di ritorno

La rabbia e l'orgoglio di uno juventino fallaciano

Christian Rocca

Mi chiedi di parlare, stavolta. Mi chiedi di rompere almeno stavolta il silenzio che ho scelto, che da giorni mi impongo per non mischiarmi alle cicale. E lo faccio. Perché ho saputo che anche in Italia alcuni gioiscono come l'altra sera alla tv gioivano gli indossatori di scudetti altrui. “Vittoria! Vittoria!”.

    Mi chiedi di parlare, stavolta. Mi chiedi di rompere almeno stavolta il silenzio che ho scelto, che da giorni mi impongo per non mischiarmi alle cicale. E lo faccio. Perché ho saputo che anche in Italia alcuni gioiscono come l'altra sera alla tv gioivano gli indossatori di scudetti altrui. “Vittoria! Vittoria!”. Uomini, donne, sportivi. Ammesso che chi fa una cosa simile possa essere definito uomo, donna, sportivo. Ho saputo che alcune cicale di lusso, politici o cosiddetti politici, intellettuali o cosiddetti intellettuali, nonché altri individui che non meritano la qualifica di cittadini, si comportano sostanzialmente nello stesso modo. Dicono: “Bene. Agli juventini gli sta bene”. E sono molto molto, molto arrabbiato. Arrabbiato d'una rabbia fredda, lucida, razionale. Una rabbia che elimina ogni distacco, ogni indulgenza. Che mi ordina di rispondergli e anzitutto di sputargli addosso. Io gli sputo addosso. Arrabbiato come me, il poeta italiano Giampiero Mughini ieri ha ruggito: “Be angry. It's good to be angry, it's healthy. Siate arrabbiati. Fa bene essere arrabbiati. E' sano”. E se a me fa bene io non lo so. Però so che non farà bene a loro, intendo dire a chi ammira i Massimo Moratti, a chi gli esprime comprensione o simpatia o solidarietà. Hai acceso un detonatore che da troppo tempo ha voglia di scoppiare, con la tua richiesta. Vedrai. Mi chiedi anche di raccontare come l'ho vissuta io, quest'Apocalisse. Di fornire insomma la mia testimonianza. Incomincerò dunque da quella.

    Ero a casa, la mia casa è nel centro di Manhattan, e alle nove in punto ho avuto la sensazione d'un pericolo che forse non mi avrebbe toccato ma che certo mi riguardava. La sensazione che si prova nella Champions, anzi in combattimento, quando con ogni poro della tua pelle senti la pallottola o il razzo che arriva, e rizzi gli orecchi e gridi a chi ti sta accanto: “Down! Get down! Giù! Buttati giù che ci danno il rigore”. L'ho respinta. Non ero mica in Iraq, non ero mica in una delle tante e fottutissime guerre che sin dagli ultimi mondiali hanno seviziato la mia vita! Ero a New York, perbacco, in un meraviglioso mattino di maggio, anno 2006. Ma la sensazione ha continuato a possedermi, inspiegabile, e allora ho fatto ciò che non faccio mai. Ho acceso la Tv e ho guardato la Domenica sportiva. Bè, l'audio non funzionava. Lo schermo, sì. E su ogni canale, qui di canali ve ne sono quasi cento, vedevi una bandiera della terza squadra italiana sventolare come se avesse vinto davvero qualcosa. Quasi paralizzato son rimasto a fissarla e mentre la fissavo, mentre mi ponevo quelle tre domande, sullo schermo è improvvisamente apparso Camoranesi. Bianco, svelto. Un aereo di linea. Partiva bassissimo. Partendo bassissimo si dirigeva verso l'aria di rigore come un bombardiere che punta sull'obiettivo, si getta sull'obiettivo. Sicché mi sono ricordato. Mi sono ricordato anche perché nello stesso momento l'audio è tornato e ha trasmesso un coro di urla selvagge. Ripetute, selvagge. “Godo! Oh, Godo! Oh, Godo, Godo, Godo! Goooooooodo! Dio! Oddio! Oddio! Dio, Dio, Dioooooooo!”. Era di nuovo Mughini, quando il pallone lanciato da Camoranesi s'è infilato per la seconda volta nella rete della terza squadra italiana con un'azione simile a quando un coltello si infila dentro un panetto di burro.

    Col che ti saluto affettuosamente, caro il mio Giuliano, e t'avverto: non chiedermi più nulla. Meno che mai, di partecipare a risse o a polemiche vane. Quello che avevo da dire l'ho detto. La rabbia e l'orgoglio me l'hanno ordinato. La coscienza pulita e l'età me l'hanno consentito. Ma ora gli Elkann devono rimettersi a vincere e non voglio essere disturbato. Un punto non ci basta.