L'analisi di Carlo Panella
Obama entra nella partita mediorientale con tre schemi
La decisione del presidente americano, Barack Obama, così come del segretario di stato, Hillary Clinton, di telefonare come prima cosa ad Abu Mazen, presidente palestinese, era scontata, ma è comunque indicativa. Obama e la Clinton devono ora smettere di proclamare al mondo che la loro Amministrazione segna una “svolta epocale” e devono materialmente iniziare a praticarla.
La decisione del presidente americano, Barack Obama, così come del segretario di stato, Hillary Clinton, di telefonare come prima cosa ad Abu Mazen, presidente palestinese, era scontata, ma è comunque indicativa. “Graziato” dalla dirigenza di Israele che ha con tutta evidenza calcolato i tempi dell'operazione “Piombo fuso” avendo presente il discrimine del 20 gennaio, Obama e la Clinton devono ora smettere di proclamare al mondo che la loro Amministrazione segna una “svolta epocale” e devono materialmente iniziare a praticarla.
Hanno un discreto vantaggio, rispetto a Bush. Israele ha infatti risolto, manu militari, la principale impasse che ha immobilizzato sinora Abu Mazen: il governo di Ismail Haniyeh e il “golpe di Hamas” – che il presidente dell'Anp ha sempre denunciato, ma soltanto a parole, senza riuscire a produrre alcuna iniziativa politica – ormai sono fuori gioco. La vittoria politico-militare di Israele a Gaza si basa proprio su questi tre capisaldi ormai acquisiti. Il potenziale militare di Hamas è stato colpito e distrutto in modo determinante; il rapporto di egemonia e di terrore tra Hamas e la popolazione di Gaza è stato incrinato; infine il rifiuto di Hamas di riconoscere il permanere di Abu Mazen alla presidenza dell'Anp è rientrato, nei fatti. Benché il mandato di Abu Mazen sia scaduto il 9 gennaio, la sua decisione – appoggiata dall'Olp – di prolungarlo, così come di anticipare le elezioni politiche dal 2010 al 2009 (decretando così scaduto il governo Haniyeh), è oggi indiscutibile. Non per la prima volta, Israele ha usato la forza non soltanto per la propria difesa, ma anche per rafforzare la claudicante leadership di Abu Mazen. La controprova sta nell'assenza di proteste palestinesi in Cisgiordania durante i giorni di Gaza, imposta dalle forze di sicurezza di Abu Mazen, che tanto forte denunciava il “massacro di palestinesi” ad opera di Tsahal, quanto si apprestava con realistico cinismo a goderne i dividendi politici.
Ora, però, Obama dovrà giostrare la sua iniziativa su tre variabili. Le prime due sono l'esito elettorale delle elezioni israeliane e la costituzione di un “governo di unità nazionale” palestinese. Su questo terreno, Obama ha solo da attendere di sapere quale sarà il premier che dirigerà il probabile governo di unità nazionale a Gerusalemme: il ben piazzato leader della destra, Bibi Netanyahu, il ministro degli Esteri e canddata di Kadima, Tipzi Livni, o il vittorioso ministro della Difesa e leader dei laburisti, Ehud Barak. I tre partiti quasi sicuramente formeranno una coalizione di governo, ma soltanto le urne decideranno chi lo dirigerà. Quanto al secondo punto, le possibilità di un accordo di pacificazione interpalestinese paiono a oggi assolutamente scarse. I colloqui al Cairo tra Hamas e Anp continuano a essere rimandati, mentre le più feroci accuse reciproche continuano a tenere il campo. In realtà, anche questa partita dipende in modo determinante da un elemento esterno: l'atteggiamento dell'Egitto. Dalla morte di Yasser Arafat in poi, infatti, tutta la crisi di Gaza, tutti i successi di Hamas sono dipesi in larga misura dall'atteggiamento ambiguo dell'Egitto e in prima persona di Omar Suleiman, il capo dei servizi egiziani, plenipotenziario di Hosni Mubarak per la crisi palestinese.
L'attribuzione a Omar Suleiman del ruolo chiave di mediatore salvifico della crisi palestinese è ormai un rito condiviso da tutti i commentatori internazionali. Ma qui è l'equivoco. Proprio qui e soltanto qui Obama potrà – se lo saprà – impostare una svolta. Omar Suleiman e l'Egitto non sono parte della soluzione del problema di Gaza, ma ne sono una delle cause. Basta guardare all'inconsistenza dell'accordo “storico” per il governo palestinese di unità nazionale di Riad del 2007, da lui mediato tra Abu Mazen e Hamas (usato da quest'ultima come trampolino per la cacciata sanguinosa di al Fatah da Gaza nel giro di poche settimane). Basta guardare ai tunnel di Rafah e al ruolo determinante che ha avuto il contrabbando di armi e la fornitura di razzi per questa via, per accorgersi che l'Egitto e Omar Suleiman ne sono pienamente corresponsabili. Il confine tra Egitto e Gaza è lungo poche decine di migliaia di metri, eppure le imponenti forze di sicurezza (un uomo ogni dieci metri!) di Omar Suleiman non sono mai riuscite a controllarlo. Centinaia di tunnel sono stati scavati e hanno funzionato a pieno ritmo sotto il naso di diecimila militari egiziani armati di tutto punto. Non c'è bisogno di essere un esperto militare per prendere atto che Suleiman è stato complice – quantomeno per ommissione – del libero uso del confine egiziano per il rafforzamento di Hamas a Gaza.
Questo è successo per un problema di fondo. L'Egitto di Mubarak ha applicato alla Gaza di Hamas la stessa ricetta perdente che applica al suo interno nei confronti dei Fratelli musulmani (di cui Hamas è articolazione): un mix di repressione e di tolleranza. Là dove la repressione è sempre e soltanto “di contenimento” e la tolleranza è dettata – oltre che dalla corruzione – dalla constatazione opportunistica del largo consenso popolare riscosso dai Fratelli musulmani, così come da Hamas. Questa politica di navigazione a vista ha un'origine precisa: Mubarak vuole sfuggire materialmente e politicamente alla fine di Sadat, assassinato dai predecessori di al Qaida, per essersi opposto frontalmente all'estremismo terrorista di Arafat e si è quindi votato a un “immobilismo fluido”. L'esito disastroso degli interventi di Suleiman a Gaza (va ricordato come il suo uomo di fiducia a Gaza, Mohammed Dahlan, sia stato spazzato via con ignominia e sanguinose perdite di Fatah da Hamas nella guerra civile interpalestinese del 2007), hanno infine obbligato Mubarak a “tollerare” nei fatti la decisione di Israele di farsi carico della soluzione del problema. Ma, dopo avere di fatto favorito l'azione militare israeliana a Gaza (pur condannandola con parole di fuoco), ora Mubarak recalcitra di fronte alla necessità di controllare effettivamente il confine con Gaza. Non accetta un corpo di spedizione internazionale a garanzia della chiusura effettiva del confine e dei tunnel, rifiuta la presenza di militari turchi, nega collaborazione all'accordo di pattugliamento navale concordato da Livni e l'ex segretario di stato, Condoleezza Rice.
La forza futura di Hamas dipende ancora una volta dalla “permeabilità” politica e materiale del confine egiziano. Se Mubarak continuerà a permettere – con piena coscienza e complicità – che sia un colabrodo, Hamas avrà la forza politica e militare per ricostituire le sue forze e contrastare un Abu Mazen che su tutto può contare, tranne che su un consenso plebiscitario dei palestinesi. Se invece Mubarak sarà costretto a chiudere la giugulare di Rafah, Hamas – in asfissia politica e materiale – dovrà capitolare, dovrà scendere a patti con Abu Mazen e questi potrà stipulare accordi dignitosi con Israele. L'errore di Rice e dell'Europa è stato sinora quello di non cogliere l'ambiguità – motivata dalla debolezza intrinseca del regime – di un Egitto considerato alleato affidabile là dove era ed è un cinico giocatore, teso alla propria sopravvivenza, day by day. E' l'ennesima testimonianza dell'incapacità strutturale dell'islam “moderato” di contrastare il fondamentalismo.
Obama, ha – come ce l'aveva Bush, ma non l'ha saputa usare – un'enorme arma di pressione. Il regime di Mubarak si regge materialmente sui 2-3 miliardi di dollari che Washington continua a versare, che garantiscono il pagamento degli stipendi dello stato e dell'esercito, e in Egitto questo è quasi tutto. Se Obama si distinguerà da Bush e cesserà di considerare Mubarak un alleato affidabile e gli imporrà scelte coraggiose – alla Sadat – la svolta si potrà concretizzare. In caso contrario, se gli permetterà di continuare nella sua politica traccheggiante di sempre, condannerà Israele a essere il solo garante non soltanto della propria sicurezza, ma anche del contrasto effettivo al dilagare del fondamentalismo sulla sponda sud del Mediterraneo.
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