All'Ambra Jovinelli - Gli applausi di Padoa Schioppa

Il Vangelo secondo Marco Travaglio. Sette capitoli per 15 anni di moralismo

Massimiliano Lenzi

Sul palco lui, la voce narrante, il giornalista Marco Travaglio, una sedia e tre cubi, scenografia minimalista, alla controcronaca degli ultimi 15 anni di vita nazionale. Giù, nella platea gremita dell'Ambra Jovinelli, la resistenza di chi non ci sta, che “il Cavaliere no, è troppo!”; l'ex ministro prodiano Tommaso Padoa-Schioppa applaude, assieme alla turba di invitati e di paganti.

    Cominciò che era finita, come nelle trame consuete della storia all'italiana. “La Prima Repubblica muore affogata nelle tangenti, la Seconda esce dal sangue delle stragi, ma nessuno ricorda più niente. La storia è maestra, ma nessuno impara mai”. Sul palco lui, la voce narrante, il giornalista Marco Travaglio, una sedia e tre cubi, scenografia minimalista, alla controcronaca degli ultimi 15 anni di vita nazionale. Giù, nella platea gremita dell'Ambra Jovinelli, la resistenza di chi non ci sta, che “il Cavaliere no, è troppo!”; l'ex ministro prodiano Tommaso Padoa-Schioppa applaude, assieme alla turba di invitati e di paganti.

    L'autoproclamata società civile è qui e batte le mani al Travaglio della memoria, quello che è stato e non doveva essere, quello che doveva essere e non è stato. Le parole di Indro Montanelli, resistente di destra e di Fucecchio al troppo consenso berlusconiano che verrà, sono il preambolo magistrale alla messa in scena e alla gogna di un'intera classe dirigente (salvo il professore Romano Prodi e l'ex pm Antonio Di Pietro). Marco – diceva Indro – “non uccide nessuno con il coltello, ma usa un'arma molto più raffinata e non perseguibile penalmente: l'archivio”.

    Perché quello di Travaglio è un viaggio al termine (secondo lui) della notte morale e dell'indignazione. In sette quadri. Il primo, datato 1992-93, è il biennio delle indagini. L'affabulazione comincia da lì: “A Tangentopoli c'erano le tangenti. Tre o quattro quadretti di storie spicciole per dare l'idea di che cosa fu il più grave scandalo di corruzione della storia d'Europa”. Ah, les italiens, tutti spaghetti, affari e cattiva coscienza. Quadro secondo, sempre 1992-93: “Tangentopoli non era solo a Milano, ma anche a Venezia, Torino, Napoli, insomma in tutta Italia. Qualche altra storia e qualche conto finale dei costi della corruzione che s'è mangiata la Prima Repubblica”. Siamo nei post-it vocali, con le musiche di sottofondo, disseminati sul palco, a scandire la Bisanzio di un paese intero (salvo rare eccezioni). Una cantilena in forma di monologo, come il piagnone, seguace del Frate Savonarola, in “Non ci resta che piangere”, film di Roberto Benigni e Massimo Troisi, memento perpetuo al destino dell'uomo, fatto di carne e sangue: “Ricordati che devi morire” dove al posto della fine, quel “morire”, c'è una pena prestabilita per corruzione.

    E così, di quadro in quadro, di voce in voce, di sentenza in sentenza, lo spettacolo cresce, tra il plauso del pubblico, in questo tempio, lo Jovinelli, dell'indignazione civile nazionale dove sono passati tutti i resistenti degni del sostantivo, da Sabina Guzzanti in giù. Entrare nel III quadro, allora, è un attimo: “Milano-Palermo andata e ritorno. Mentre l'Italia è squarciata dalle stragi di mafia e Riina finisce in galera, uno stalliere fa la spola tra Palermo e Milano e un manager fa la spola tra Milano e Palermo. Poi nasce Forza Italia e, in tre mesi, prende tutto”. Il potere, in questa riscrittura della storia travagliesca, è sullo sfondo, un'ombra colpevole. Sempre. I tempi si accorciano e il precipizio del presente si avvicina. Quadro IV, 1994-96, comincia “una storia troppo italiana. Silvio Berlusconi e la banca Rasini, Licio Gelli, i decreti Craxi, le mazzette a giudici e politici, la Mammì, il mausoleo, il primo governo-vergogna”. Cinque: “La sinistra dell'inciucio: le leggi ad personam, il cimicione, la Bicamerale dei ricatti, il ritorno del piano di rinascita P2, l'impossibilità del cambiamento”. Sei, 2001-2006. “La bolla delle balle”.

    Un quinquennio di berlusconismo – trattenendo il respiro – gaffes, vergogne, epurazioni, impunità. Sette, un déjà vu: 2006-2007. “Il ritorno del centrosinistra, una coa(li)zione a ripetere. “Mastella, l'indulto, la vergogna bipartisan, la Cia e il Sismi, la base di Vicenza e le scalate bancarie, la guerra alla stampa e ai giudici, l'Italia dell'eterno Gattopardo”. L'epilogo è un sermone civile e legalitario: “Come siamo, come eravamo e come saremo. Avanti il prossimo: se non vi son bastati Andreotti, Craxi, Berlusconi e D'Alema, ora magari arrivano Lele Mora, Fabrizio Corona, Flavio Briatore e Luca di Montezemolo. Eppure l'Italia ha conosciuto anche grandi momenti, grandi cambiamenti e grandi uomini…”. E' la fine, dal promemoria riemerge Enrico Berlinguer, lo spartiacque della questione morale:  “Forse – declama Marco – è il caso di portarcelo Berlinguer, nel Pantheon del Partito democratico, anzi in tutti i Pantheon di tutti i partiti: perché, da morto, è molto più vivo di tanti morti viventi”. Sipario. Stasera si replica.