Mio figlio e io

Annalena Benini

“A volte la sera, quando posso, parto da Bologna in macchina, trecento chilomentri e arrivo a Genova per stare con mio figlio Edoardo e metterlo a letto: sono serate meravigliose di birra e salsicce mentre Raffaella è al lavoro a teatro, poi riparto all'alba per Bologna”.

    Mentre il ministro Rachida Dati usciva dalla clinica dopo il parto e si infilava tacchi altissimi con il cinturino alla caviglia per inaugurare l'anno giudiziario francese, il sindaco Sergio Cofferati, vestito di velluto blu, viaggiava da Genova per arrivare la mattina presto in piazza Maggiore. “A volte la sera, quando posso, parto da Bologna in macchina, trecento chilomentri e arrivo a Genova per stare con mio figlio Edoardo e metterlo a letto: sono serate meravigliose di birra e salsicce mentre Raffaella è al lavoro a teatro, poi riparto all'alba per Bologna”. Rachida, primipara attempata, non sarà più ministro, non per sua volontà, e Cofferati, “padre robustamente attempato”, come si definisce, non si candiderà più sindaco, per sua sola e pubblica volontà. L'ha spiegato ai giornali, ha accettato le critiche, ha detto che comunque non ha nessuna intenzione di andare in pensione (“non c'è una sola modalità, un solo luogo, un solo percorso standard per lavorare: a giugno vado a vivere a Genova, e se potessi essere utile alla comunità genovese ne sarei molto felice”), sorride mentre gli si dice che è diventato l'idolo delle donne: che uomo, che padre, hanno sospirato quelle che si appassionano più alla vita vera che ai retroscena di palazzo.

    Un uomo pubblico che a sessant'anni, invece di gettarsi per sempre nel potere, come tutti, come al solito, sceglie la grande retrocessione in nome della vita nuova: un bambino piccolo che da poco cammina, anzi corre, e a Natale ha avuto uno scontro frontale con uno spigolo. Il Cinese con la faccia immobile, l'uomo da un milione di persone al Circo Massimo, il sindaco delle regole e dei divieti, è quasi morto: “Aveva il sangue su tutta la faccia, non capivamo dove fosse la ferita, l'abbiamo portato in ospedale sotto la bufera di neve e quando un infermiere mi ha detto che gli avrebbero incollato il taglio ho pensato che fosse un cretino. Invece ero rimasto indietro io, i punti di sutura sono superati”. Cofferati ha scelto il figlio, ha scelto la compagna Raffaella, niente secondo mandato e gli sembra persino ovvio: “Io ho cercato consapevolmente di avere questo figlio, alla mia non verde età e con tutte queste cose fatte alle spalle, e l'alternativa era: o io là o loro qui, la lontananza l'ho già provata e non lo rifarei mai più”. La lontananza la provò “cent'anni fa”, dice, con il primo figlio, Simone, che ora ha trentasei anni, due lauree e una fidanzamento Milano-Roma, ma che quando il babbo, nemmeno trentenne, scese a Roma a fare il sindacalista era in età da asilo e restò a Milano con la mamma. “Mai più niente del genere, questa è una certezza: mio figlio ha sofferto moltissimo la mia assenza, andava dalle maestre ogni mattina e diceva: ‘Sapete, io domani non vengo a scuola, vado a Roma da papà'. E invece lo vedevo solo nel fine settimana, quando potevo. E' stato un periodo molto difficile, fino a che lui e la mia ex moglie, che come insegnante ha potuto chiedere l'avvicinamento al coniuge, sono venuti a vivere a Roma con me”.

    Erano gli anni Settanta, c'era la lotta, c'era l'impegno, c'era la politica al primo posto, c'era una paternità “vissuta in modo molto diverso: ma, che sia chiaro, mettermi adesso accanto al lettino di Edoardo non mi salva la coscienza da quel che non seppi fare allora per Simone”. Quindi, se potesse tornare indietro di quei cent'anni, non metterebbe più la politica al primo posto? “Non sono pentito del mio impegno, ma certo alla luce dell'esperienza rivedrei le modalità, cambierei molte cose, starei con la mia famiglia da subito: i figli hanno bisogno di un padre accanto, di una presenza fisica e anche di un'autorità, soprattutto da piccoli. Poi magari a sette anni ti mettono comunque il detersivo nel caffè, come dice un mio amico: quando sono piccoli vorresti mangiarteli, quando diventano grandi ti penti di non averli mangiati”. I figli hanno bisogno di un padre accanto, “e se fai un figlio ti comporti di conseguenza”.

    Cofferati è stato tutto: tecnico alla Pirelli, sindacalista assoluto, grande leader di piazza, quello che ha detto: finito il mio compito alla Cgil torno in azienda, e nessuno gli credeva (l'ha fatto), è stato amministratore non seduttore, non accomodante, sindaco della sicurezza, sindaco anti piercing, anti birre, anti cazzeggio notturno e molesto, ora è anche l'uomo dei sogni, è la rivoluzione culturale dei padri:  non attaccato alle belle poltrone del suo ufficio da sindaco e alla bella vista su piazza Maggiore, ma disperato all'idea di affrontare una campagna elettorale che gli porti via le sere e le birre accanto al lettino di Edoardo e gli rubi, in caso di vittoria, i prossimi cinque anni di parole (“sì, dice ‘papà', ma credo ancora per caso, sto aspettando il giorno del primo ‘papà' consapevole, per ora dice solo, indicando con il dito: ‘voglio quello'”). Non è nemmeno disposto a far sacrificare al posto suo la compagna (“alla mia età non è il caso di dire fidanzata”) “che ha trentasette anni e deve andare avanti, mentre io ho sessant'anni e posso farmi da parte e aspettare”.

    A un certo punto, poi, anche se per molto tempo ci si è concessi il lusso di vivere per e con le idee, i libri, Tex, l'opera, l'articolo diciotto e le grandiose opposizioni, la vita diventa un intreccio di minuscole condizioni pratiche, di piccoli incastri quotidiani, di febbroni che sconvolgono le notti, di pannolini che finiscono all'improvviso la domenica sera tardi. Sergio Cofferati e Raffaella Rocca, padre e madre in due città lontane e malamente collegate, non hanno nemmeno la tata e non hanno ancora iscritto il bambino al nido: per ora si organizzano con i nonni materni, con le fughe notturne del sindaco (“faticose, ammetto”), con i fine settimana che cominciano il venerdì sera e finiscono lunedì all'alba, la paura di perdere troppe cose nei giorni di lontananza, l'angoscia per le cose perse che “non sono compensabili in alcun modo”. Ma se fosse Sergio Cofferati l'ultimo leader possibile, se le chiedessero di andare a Roma per salvare il mondo, cioè il Partito democratico, se fosse una di quelle proposte a cui è impossibile dire di no? “Il Partito democratico ha già un leader, e resterà quello, e Roma è troppo lontana da Genova”.

    Cofferati non va allo stadio, nemmeno se gioca la squadra della sua città, perché deve accompagnare il bambino e la compagna in vacanza. Quella volta i bolognesi si sono molto offesi: era l'ultima partita, quella che celebrava il ritorno del Bologna in serie A. Cofferati non c'era, era in macchina come al solito. Hanno detto, nei bar del centro e nelle conversazioni politologiche più chic, che uno così non ama abbastanza Bologna, è evidente. “Succedesse altre cento volte, altre cento e poi ancora cento volte andrei da mio figlio invece che allo stadio” (per capire fino in fondo la portata del gesto, va detto che ci sono padri che ancora rinfacciano alle mogli di aver dato alla luce la figlia durante Controcampo, e pregano di organizzarsi meglio con la rottura delle acque la prossima volta). Edoardo è nato tre giorni dopo Giorgia Carlotta, la figlia della giovane e bolognese addetta stampa del sindaco: il comune era invaso dai fiocchi rosa e azzurri, simbolo che a Bologna qualcosa ancora succede, a Bologna ancora si nasce (anche se Edoardo è nato con taglio cesareo all'Ospedale Galliera di Genova – e Cofferati fuori dalla sala operatoria, che fingeva tranquillità chiacchierando con gli uomini della scorta). “Da dieci anni c'è una costante crescita della natalità – dice il sindaco – molto è dovuto all'immigrazione, ma molto anche alle bolognesi, che fanno i figli più tardi, fra i trenta e i trentacinque anni, ma alla fine li fanno”.

    Sergio Cofferati invece aveva ventiquattro anni quando è nato il primo figlio Simone, e sua moglie ventuno. L'azienda per cui lavorava come perito industriale, la Pirelli, gli regalò per l'occasione il telo impermeabile per il cambio dei pannolini e una piccola borsa per l'acqua calda di gomma azzurra, per le femmine la facevano rosa. “Avevo il posto fisso da tre anni, mi avevano assunto nel giugno del 1969 e mio figlio è nato nell'agosto del 1972: avevo la mutua aziendale, avevo mia madre, mio padre purtroppo è morto un mese prima di diventare nonno, ero più garantito dei ragazzi di oggi”. Ma scusi, signor sindaco, guadagnava così tanto a vent'anni, era così tranquillo? “No, in effetti avevo uno stipendio da tecnico, eravamo in tre e mia moglie non guadagnava nulla perché studiava ancora, spendevamo tutto in libri: i primi anni sono stati oggettivamente duri”.

    Altra tempra, forse, una generazione un po' più spavalda e pronta a fare salti nel buio come se fosse normale. “Avevamo un robusto coraggio e un'allegra incoscienza, questo è vero”. Cofferati ha disapprovato in cuor suo il colpo d'immagine di Rachida Dati, da compagno amorevole a cui “fa impressione” vedere una donna che esce dalla clinica e corre a lavorare, e da sindacalista che difende il diritto di astensione dal lavoro per maternità e conservazione del posto, conquistato negli anni Cinquanta. “Però ora che ci penso mia madre pochi giorni dopo avermi fatto nascere era già nell'osteria di mio nonno a lavorare”.
    A ciascuno le sue scelte, insomma: a Rachida i tacchi e nonostante i tacchi il quasi licenziamento, a Cofferati molte vite diverse, l'ultima delle quali prevede un'estate al mare con Edoardo e un nuovo inizio a Genova, con l'inserimento all'asilo nido (“anche se gli asili erano meglio qui a Bologna, ne ho inaugurati tanti e tutti eccellenti”), soprattutto la fine di quei seicento chilometri d'autostrada, chilometri che spesso toccavano anche al bambino di pochi mesi: “Infatti, dopo tanto pensare e discutere del nostro futuro ménage, tra la mia idea che un sindaco per fare ottimamente debba avere due mandati e tra il lavoro di Raffaella a teatro che la impegna ovviamente anche la sera, con la certezza che se fosse venuta a Bologna avrebbero detto che aveva trovato una buona occupazione perché era la moglie del sindaco, la decisione l'abbiamo presa in un minuto netto, senza bisogno di parole, dopo un disastroso viaggio Genova-Bologna e ritorno, durante la festa di san Petronio il 4 ottobre: troppi chilometri in pochissimo tempo, Edoardo è stato poco bene e questo è bastato a fare sparire ogni esitazione”. Cinque giorni dopo la notizia era su tutti i giornali, poi duecentomila commenti e interpretazioni: va via perché perde, va via perché chissà cos'ha in mente, va via la settimana prossima, è già andato via, si è dimesso, s'è rincoglionito, l'abbiamo perso.

    Le telefonate incredule dei colleghi, le esternazioni degli sconosciuti, l'abbraccio di Veltroni, il minimizzare sarcastico di D'Alema (“è un problema locale”), e sopra ogni cosa le parole tranquille di Sergio Cofferati: “Capisco che il mio gesto abbia suscitato molta curiosità e perfino sospetto, capisco perfino che per molti della vecchia guardia sia difficile credere che Cofferati rinunci a una campagna elettorale per un bambino, ma la realtà è una sola: ho sessant'anni, non è immaginabile che mi sia concesso lo stesso tempo che ho avuto e che ho per Simone anche per Edoardo. A ventiquattro anni potevo evitare di pormi questo problema, adesso non posso farne a meno, e lo sapevo fin da quando ho scelto, consapevolmente, di fare un bambino con Raffaella. Anche se il mio obiettivo sono i centoventisette anni in ottima salute, vivere nella stessa città di mio figlio è la cosa più naturale che io possa fare”.

    E' anche naturale però, come accadde quando stava per scadere il tempo alla Cgil, che molti si chiedano cosa diavolo farà Cofferati dopo, ma lui ride (cioè muove leggermente la faccia in un modo che assomiglia a una risata, si toglie persino gli occhiali per un attimo): “Non ne ho la più pallida idea: il mio sogno privato resta quello di dirigere un teatro, se me lo chiedessero direi subito di sì, ma chissà, potrei anche finire come Antonio Albanese nel film di Silvio Soldini, ‘Giorni e Nuvole': licenziato, consegnerò le pizze in motorino di nascosto finché mio figlio ormai grande mi si affiancherà in macchina a un semaforo e scoprirà che suo padre è un pizza express”.

    E' poco probabile che vada così, poco probabile che Cofferati finisca a consegnare pizze in motorino in completo di velluto per i vicoli di Genova. “Se guardo indietro parecchie cose le ho fatte, ho una vita lunga e intensa alle spalle, se guardo avanti penso che molte altre ne farò, solo in modo diverso”. La sua addetta stampa forse rimpiangerà un capo con cui scambiare le foto dei figli, un sindaco che fra gli stucchi e i tappeti degli uffici del comune di Bologna appena può fa scorrazzare un bambino minuscolo e sa che le prese della corrente vanno coperte perché i piccoli teppisti amano infilare le dita nei buchi. “E' pazzesco, si fanno male in tutti i modi possibili: gli spigoli sono sempre ad altezza bambino, i cassetti da tirarsi addosso anche, io ero abituato ad appoggiare le cose per terra e non posso più, bisogna riorganizzarsi completamente anche la casa”. Soltanto dieci anni fa sarebbe stato impensabile ascoltare un discorso del genere da un uomo di potere, almeno da queste parti (in Inghilterra, David Cameron ha dichiarato che se nel 2010 dovesse vincere le elezioni non si trasferirebbe a Downing Street: troppe barriere architettoniche, lui e sua moglie hanno un bambino di sei anni, disabile, che non può  salire le scale, ma Cameron ha poco più di quarant'anni, è inglese e non è stato il leader della Cgil).

    Dieci anni fa sarebbe stata una mollezza da tenere nascosta, un uomo che ha tirato giù il mondo che si angoscia per gli spigoli in cucina, quell'uomo con la barba e gli occhi da cinese che restituisce le chiavi della città prima di salire sulla macchina col seggiolino dietro, il passeggino nel baule e le tendine anti riflesso. Cofferati ha fatto una rinuncia pubblica in nome di una conquista privata, un figlio da crescere, e grazie all'esperienza con l'altro figlio, che non avrebbe voluto stare lontano dal padre. “A vent'anni pensi delle cose, a sessanta è tutto completamente diverso”. Una grandiosa retrocessione, un moderno inno ai padri, soprattutto il gesto mancante, che l'ha trasformato in un attimo nell'uomo più figo in circolazione.

    • Annalena Benini
    • Annalena Benini, nata a Ferrara nel 1975, vive a Roma. Giornalista e scrittrice, è al Foglio dal 2001 e scrive di cultura, persone, storie. Dirige Review, la rivista mensile del Foglio. La rubrica di libri Lettere rubate esce ogni sabato, l’inserto Il Figlio esce ogni venerdì ed è anche un podcast. Ha scritto e condotto il programma tivù “Romanzo italiano” per Rai3. Il suo ultimo libro è “I racconti delle donne”. E’ sposata e ha due figli.