Esserci fingendo di non esserci, così Forlani risolse il dilemma del potere

Stefano Di Michele

Del grande democristiano, per decenni ai vertici del governo e dello scudocrociato, aveva principalmente una dote (che però solo i più raffinati sanno riconoscere come dote): una coltivata pigrizia, un'ostentata resistenza all'impegno. Poi c'era sempre, inevitabilmente. Ma qui sta una grandezza dei veri capi: attendere la chiamata, non proporsi, provare a uscire di scena prima che cali il sipario.

    Eppure, c'è da dire che oggi non sarebbe male, un po' di sano forlanismo. Il sussurrare, lo smorzare, il sottrarre (e il sottrarsi) – qualità quasi rivoluzionarie, nell'era dell'urlo e dello strepito, quando tutto è arena e tutti si credono toreri. Se non fosse che a Forlani del rivoluzionario non lo puoi dare neanche per scherzo, neanche quando lo chiamavano, causa ferrea fedeltà fanfaniana, “il Lin Piao di Amintore” – e a riprova oggi il diretto interessato racconta: “Vero uomo di corrente forse non lo sono mai stato, nemmeno quando con Fanfani mi è capitato di guidarne una, la sua”. Del grande democristiano, per decenni ai vertici del governo e dello scudocrociato, aveva principalmente una dote (che però solo i più raffinati sanno riconoscere come dote): una coltivata pigrizia, un'ostentata resistenza all'impegno. Poi c'era sempre, inevitabilmente. Ma qui sta una grandezza dei veri capi: attendere la chiamata, non proporsi, provare a uscire di scena prima che cali il sipario.

    Quando da leader democristiano frequentava il Palazzo, sempre si trascinava dietro come una sorta d'indolenza, una citazione di Montale o del corregionale Leopardi, l'Ecclesiaste e magari Lenin, se anche il capo bolscevico veniva utile. “Diceva che la felicità è nella lotta. Francamente, ci credo poco”. Palazzo Chigi? Quirinale? Piazza del Gesù? Forlani ruotava gli occhi, aria da indisposto più che da sospettoso: “La politica provoca eccessi di degenerazione psicologica, di appesantimento…”. Un'eternità, da quando tutto crollò, e da quel processo dove pure il Corriere evidenziò “la bava alla bocca” del capo democristiano. Stanco e sconcertato?, gli chiedono adesso. E uno quasi immagina il gesto della mano che scantona l'ipotesi: “Lo ero per come la verità poteva essere strapazzata in tribunale…”. Ora Forlani è tornato. Con un libro, s'intende: “Potere discreto” (Marsilio, 15 euro), una lunghissima intervista con Sandro Fontana (ex direttore del Popolo, mitico “Bertoldo”) e Nicola Guiso, notista dell'antico quotidiano diccì. Il titolo ovviamente lo ha scelto il diretto interessato, sintesi perfetta della filosofia di una lunga stagione di potere e gloria, “si può governare senza sembrare di stare al governo”.

    E siccome Forlani è sempre Forlani – le cose di qualità, e gran parte dei capi democristiani lo sono stati, durano e restano immutabili – ci ha messo ben otto anni per rispondere alle domande dei suoi intervistatori. Perché si può pure dire una parola di troppo, ma non è necessario dire sempre parole compromettenti. Come quando, da segretario della Dc, un incauto giornalista gli fece notare che stava parlando senza dire niente. E lui, lampo d'ironia negli occhi: “Ah, sapessi carissimo: io potrei andare avanti così per delle ore”. E' un libro di Forlani, su Forlani, curato da due estimatori di Forlani. Ma è prima ancora un libro forlaniano al cubo: dove tutto è preciso, dettagliato, sfumato, “la contrarietà non ebbe da parte nostra un taglio tranciante” come “era comunque una discussione tutt'altro che esasperata” fino a “c'era stata un po' di incomprensione”. Poi, l'aneddoto inaspettato, la battuta capace di farsi aforisma.

    C'è, per esempio, il racconto dell'incontro con il generale De Lorenzo: “Non abbandonava quasi mai la parola; raccontava soprattutto episodi di guerra e per uno di questi aveva avuto la medaglia d'oro. Era in borghese e piuttosto elegante, alla cinta dei pantaloni portava un piccolo revolver d'argento e madreperla”. Come lo stralunato incrociarsi alla buvette con Togliatti. “Ero un giovane deputato alla prima legislatura e mi aveva presentato Nilde Iotti, che sempre lo accompagnava”. E qui accade un fatto. “Si era avvicinato in fretta al banco del bar ordinando qualcosa anche l'onorevole Secchia, la guida riconosciuta dell'ala dura e rivoluzionaria. Non si era accorto del segretario del suo partito che gli voltava le spalle e come questi si girò, sfiorandolo con lo sguardo, lui accennò imbarazzato un doppio inchino e si ritrasse frettoloso mormorando delle scuse per un disturbo che non c'era stato”. Ci sono cinquant'anni di vicende italiane, dentro il “potere discreto” forlaniano. Gli scontri nel partito, leader e sottocapi, delusioni e trionfi, antipatie e complotti, il golpe Borghese e quel Quirinale – quasi al termine di tutto – che Forlani mancò per soli 29 voti. E annotazioni sparse sull'infinito generato dalla lunga stagione scudocrociata.

    Come la rivelazione su De Mita e Craxi che “per parlare in modo confidenziale e con calma andavano a prendere il caffè in un convento”. O la battuta rivolta a Scalfaro e Spadolini, entrambi aspiranti al Colle: “Erano ugualmente disponibili, ma uno solo poteva essere eletto. Ho detto a entrambi che invidiavo la Repubblica di San Marino che prevede i due capitani reggenti”. O quando Montanelli disse di votare Dc, ma “turandosi il naso”. Osserva Forlani: “Avrà votato per noi, ma non credo che in questo modo abbia convinto altri a farlo”. Scrivono Fontana e Guiso, nella prefazione, che Forlani è “più che un moderato, un temperato” e a rinnovata e giustificata lode quasi azzardano un paragone con la sua terra d'origine, le Marche, “regione che appare tanto più discreta e appartata quanto più si rivela ricca di tesori d'arte e civiltà”. Senza sembrare di esserci troppo, Forlani c'era sempre. Senza l'attivismo fanfaniano, la complessità morotea, la sapidezza andreottiana – Arnaldo c'era.

    Fortebraccio sull'Unità diceva che aveva un'espressione da appartamento sfitto, Scalfari su Repubblica lo definiva il Grande Saponificatore che insapona “qualsiasi politica, qualsiasi situazione” – e lui lì. Poteva pure evocare lo scrivano Bartleby di Melville, quello che sempre rispondeva: “Preferirei di no” – ma intanto lì stava. Persino Cossiga, nella gloria del Picconatore, ironizzava sulla sua pazienza: “Povero Forlani, se De Mita grida che io sono matto, lui corregge sussurrando che sono soltanto un po' nevrotico…”. E al cronista dell'Unità, che insisteva per intervistarlo sul decadente Caf in condominio con Andreotti e Craxi, pazientemente offrì una paradossale e dettagliata disquisizione sulla Caf, intesa Commissione d'appello federale calcistica. Così, si rivede Forlani – più Forlani che mai. E adesso, quando gli chiedono se, andreottianamente, è vero che a pensar male si fa peccato ma si indovina, replica: “Meglio evitare il peccato, specie se non si indovina”. La prudenza davvero non è mai troppa.