Una Expo senza Letizia

Gianni Gambarotta

Ci sono due battute che gli addetti alle segrete cose del Palazzo attribuiscono a Silvio Berlusconi e a Giulio Tremonti. La prima: “Ma questa dannata Expo non potremmo restituirla e lasciarla fare ai turchi?”.

    Ci sono due battute che gli addetti alle segrete cose del Palazzo attribuiscono a Silvio Berlusconi e a Giulio Tremonti. La prima: “Ma questa dannata Expo non potremmo restituirla e lasciarla fare ai turchi?” La seconda: “Ma perché dovremmo spendere tutti questi miliardi per scoprire come friggono le uova in Africa?”. Battute gravi e grevi, inverosimili, quasi certamente mai pronunciate (nemmeno pensate?) dai due personaggi. Però indicano come la vicenda dell'esposizione universale del 2015 dedicata al tema “Nutrire il pianeta, energia per la vita” sia ormai diventata un problema che non si sa più da che parte prendere.

    I guai legati a questo tanto atteso e desiderato evento, si sa, sono molti: dal 31 marzo 2008, quando Milano ha superato l'altra pretendente (la turca Smirne) è rimasto tutto fermo. Ognuno pensava che la dinamica e operosa capitale economica il giorno dopo la vittoria si sarebbe immediatamente rimboccata le maniche, avrebbe aperto i cantieri: avanti e pedalare, senza star lì a fare tante chiacchiere. E invece finora non si è concluso nulla, si è perso tempo a litigare sulla società di gestione, i suoi poteri, i suoi manager e i rispettivi emolumenti. Una grande melassa giudicata noiosa dalla città che ora vive l'Expo come qualcosa di estraneo, una delle tante beghe che appassionano solo i politici.
    Questo clima di infastidito disinganno giovedì scorso è cambiato, ha fatto un salto di qualità, in negativo. Sulle pagine cittadine della Repubblica è stato pubblicato un intervento dell'architetto Vittorio Gregotti il quale, senza tante perifrasi, ha sostenuto che la situazione economica attuale di estrema difficoltà consiglierebbe di lasciare perdere o per lo meno di ridimensionare drasticamente il progetto. E cita un precedente di assoluto rilievo: anche Parigi nel 1984 aveva programmato una grande esposizione, ma poi per difficoltà finanziarie aveva deciso di soprassedere.

    Se lo ha fatto la Ville Lumière, si è chiesto l'architetto, non può forse farlo anche Milano? Il parere di Gregotti è certamente autorevole, ma non decisivo, e già molti altri suoi colleghi, a partire da Massimiliano Fuksas, lo hanno rintuzzato. L'importante però è l'evidenza che ha dato la Repubblica a quello che il giornale stesso definisce “il partito della rinuncia”. Una formazione già di suo potentissima perché – secondo quanto si vocifera a Milano – conta fra i soci più autorevoli (anche se mai ufficialmente iscritti) proprio il ministro dell'Economia, Tremonti, quello che ha la cassa e dovrebbe fornire i soldi per mettere in movimento tutto l'apparato fieristico, ma che finora ha scucito solo pochi spiccioli e ha saltato tutte le riunioni indette per dare operatività all'Expo. A questo, per sommare problemi ai problemi, si è aggiunto il Sole 24 Ore di sabato scorso che ha evocato la possibilità di un commissariamento (vedere articolo qui a fianco). Ipotesi avanzata anche nell'inchiesta di copertina che Economy, il più importante settimanale economico italiano, ha dedicato all'argomento nel numero adesso in edicola.

    La finanza pubblica. E allora, come finirà questa storia? Per capirlo, o almeno provarci, bisogna guardarla attraverso tre lenti diverse. La prima è quella finanziaria. Il ministero dell'Economia ha delle difficoltà reali perché gli investimenti richiesti dall'operazione Expo sono notevoli e non è facile trovare le risorse in un paese che ha il primo debito pubblico europeo (dopo la Grecia) e ora deve comunque aumentare le spese per dare ossigeno a un'economia asmatica. Tremonti ha di fronte un problema di priorità, e la tentazione di tagliare (o addirittura azzerare) il budget Expo è forte ogni volta che qualche gruppo di pressione bussa alla sua porta e chiede sostegni all'auto, agli elettrodomestici, all'edilizia, alle piccole e medie imprese e via questuando. Ma di che importi si sta parlando, quali sono i costi reali previsti per la grande rassegna del 2015? Anche qui bisogna fare una suddivisione in due capitoli. C'è quello delle spese dirette da sostenere per tirare su materialmente il quartiere espositivo con i padiglioni dei 135 paesi partecipanti, cablarlo, collegarlo, fargli i parcheggi, eccetera. Costo totale: 3,5 miliardi di euro. Ma il più importante è l'altro capitolo, quello delle infrastrutture da realizzare perché Milano sia in grado di accogliere e far muovere tutti i milioni di visitatori (gli ottimisti dicono una trentina) che arriveranno durante i sei mesi dell'esposizione. “Fra i politici non ci sono contrapposizioni sui tipi di interventi da fare – dice al Foglio l'assessore alle Infrastrutture e alla Mobilità della Regione Lombardia, Raffaele Cattaneo – si tratta di strade, autostrade, linee di metropolitana, collegamenti ferroviari come quello fra la stazione Centrale e l'aeroporto della Malpensa. Siamo tutti d'accordo sulla necessità di realizzare queste infrastrutture. Il problema è solo di finanza pubblica”. E non è un problema da poco perché si parla di una cifra complessiva di 11-12 miliardi di euro sulla quale va fatta una considerazione: non sono proprio soldi imputabili all'Expo. Queste opere pubbliche erano già previste da anni, ben prima che Milano battesse Smirne.

    Ma l'Italia è un paese straordinario e quando decide di costruire una strada, una ferrovia, una linea di metropolitana, non  vuol dire che poi la costruisca davvero. Se guardiamo alla nostra storia più o meno recente, si vede che solo un quinto dei progetti approvati passa alla fase successiva e diventa un'opera realmente portata a termine. Gli altri ritornano nel cassetto e vengono riproposti come nuovi alle successive tornate elettorali. Questa volta però il paese si è preso un impegno con il Bie (Bureau international des expositions), ed è quasi come se avesse sottoscritto un trattato per realizzare tutti quei lavori. Ha vinto su Smirne, in parole molto povere, anche perché c'è stata questa promessa. Certo, tutto si può ridiscutere, riproporre, rivedere. Si può ritornare al Bie e dire che, essendo scoppiata questa crisi economica epocale, si penserebbe di sostituire una linea di metropolitana con una navetta, di fare non due ma una sola autostrada, di tagliare insomma, ridimensionare. E forse i signori del comitato non direbbero un no a priori perché anche loro guardano la tv e leggono i giornali e sanno bene come vanno le cose in giro per il mondo. Però allo stato attuale gli impegni vanno rispettati e quegli 11-12 miliardi spesi. E, come detto, non è facile recuperarli. Se Tremonti riesce a scovare qualche scappatoia almeno per sforbiciarli, ci si infila senza pensarci troppo.

    La governance. La seconda lente da usare per cercare di capire questo pasticciaccio è quella dello scontro fra i poteri per la gestione dell'esposizione, scontro incominciato subito dopo i brindisi per la vittoria sui turchi. Si sa come è andata. Il sindaco di Milano, Letizia Moratti, è stata nominata commissario per l'Expo ed è stata fondata la società di gestione dell'evento, Soge, alla cui presidenza è andata, dopo un lungo tira e molla, la presidente di Assolombarda, Diana Bracco. La guerra vera è scoppiata sul nome e i poteri della persona che dovrebbe guidare operativamente il lungo e complesso viaggio verso il 2015. Fin dal primo minuto il sindaco ha puntato tutto sul suo più fidato collaboratore (era con lei fin dai tempi della presidenza della Rai), Paolo Glisenti, al quale in un primo tempo voleva venisse riconosciuto il ruolo di amministratore unico. Glisenti avrebbe dovuto essere, nei piani di Moratti, un capo assoluto libero di decidere dove e come convogliare le immense risorse finanziare mobilitate dall'Expo senza in pratica rendere conto ad alcuno.
    Il progetto è stato respinto al mittente da tutti i soggetti interessati, dalla Regione alla Provincia. Ma soprattutto si è scontrato con il rifiuto netto del Tesoro che, essendo il principale finanziatore di tutta la vicenda, non ha nemmeno preso in considerazione l'idea di venire relegato a un ruolo di semplice ufficiale pagatore. Per farla breve, dopo un estenuante braccio di ferro si è individuata una soluzione di compromesso: niente amministratore unico, ma un normale consiglio di amministrazione che nomina Glisenti amministratore delegato, gli conferisce delle deleghe e ne controlla l'operato. Ma anche questa strada si sta rivelando impercorribile: il sindaco insiste nel chiedere deleghe troppo ampie per il suo fedelissimo e gli altri soci non vogliono concederle, perché le ritengono eccessive e pensano che se accettassero questo schema di governance verrebbero comunque privati di ogni reale potere. A questo contrasto si è aggiunta la polemica sulla retribuzione chiesta da Glisenti e da tutti (tranne che dal sindaco) ritenuta eccessiva. Dice un politico milanese che si è occupato dell'Expo fin dall'inizio cercando invano di mettere d'accordo posizioni così distanti: “Il caso di Glisenti è sicuramente un problema. La scelta dell'uomo macchina dell'Expo è caduta su un nome non concordato e non gradito. Un nome che ha coagulato un fronte quasi unanime di persone contrarie”.

    Intendiamoci: nessuno nega che siano stati Moratti e Glisenti a portare l'Expo a Milano, al contrario tutti riconoscono loro questo merito. Ma ora è diffuso il convincimento che il sindaco metta nella vicenda un eccesso di stile padronale, come se si trattasse di una sua azienda privata dove fa il bello e il cattivo tempo e impone nei posti chiave le persone che vuole lei. Il politico milanese parla di “una palese asimmetria della situazione: da una parte c'è un potere centrale,  governativo che tira fuori i soldi e non ne ha il controllo; dall'altra si pretende di creare una stanza dei bottoni dove è ammesso solo chi è gradito al sindaco. E' ovvio che è inaccettabile. Questo è stato un  difetto di origine che ha intralciato tutto il cammino successivo”.

    Il ministro e la signora. La terza lente per leggere l'Expo story è quella dei rapporti personali fra i vari protagonisti, comprimari, comparse. A partire ovviamente da quelli, cruciali per la vicenda, fra Giulio Tremonti e il sindaco di Milano. Signora di ricca e potente famiglia milanese, lei è più abituata a ordinare che a chiedere. E' la sua natura, il suo Dna. Quando era ministro dell'Istruzione del secondo e terzo governo Berlusconi ebbe più di un battibecco con il già allora ministro dell'Economia che opponeva secchi rifiuti alle sue ripetute richieste di finanziamenti per la scuola. Una volta, a un'ennesima sollecitazione, lui la gelò con questa battuta: “Letizia, il governo non è tuo marito”. Da allora i rapporti non sono mai stati idilliaci, anche perché Tremonti ci mette di suo un carattere certo non accomodante. Con la vicenda dell'Expo la vecchia ruggine è riaffiorata e gioca un ruolo non marginale. Tremonti, come si è detto, ha un argomento solido per guardare con diffidenza l'evento del 2015: in cassa non ci sono i soldi per finanziarlo. Ma forse a renderlo più ostinato nel suo atteggiamento di muta ma efficace opposizione è la linea seguita finora dal sindaco, che ha sempre preteso di escludere lui, il governo, Roma da tutte le decisioni. Tremonti ha risposto e risponde disertando (senza farsi rappresentare) le riunioni operative per l'Expo, rendendole così inefficaci. Molti dicono che se al posto di Tremonti ci fosse un ministro tecnico, tipo Tommaso Padoa-Schioppa, oppure se sullo scranno di primo cittadino di Milano sedesse un personaggio alla Marco Formentini invece della Moratti, tutto sarebbe stato diverso, più semplice. E' un'affermazione senza controprova, ma largamente condivisa.

    Ma l'accusa che viene rivolta al sindaco è anche di non aver saputo tessere una rete di alleanze con gli altri protagonisti. La Lega per esempio, partito decisivo in Lombardia, ambiva e ambisce ad avere un ruolo in questa vicenda: a torto o a ragione ritiene che in qualche modo le appartenga dato che si svolgerà in casa sua. Il partito di Umberto Bossi voleva far entrare nel consiglio di amministrazione Leonardo Carioni, presidente leghista della Provincia di Como, ma si è scontrato contro il no della Moratti. Ora il Carroccio è riuscito a far nominare un suo ex senatore, il tecnico Dario Fruscio, presidente del collegio sindacale della Soge. Fruscio è un signore pignolo, tenacissimo e sta già facendo le pulci a ogni voce di spesa: sarà sempre un controllore poco incline al compromesso per la Soge, chiunque la gestisca, soprattutto – dicono i critici di Fruscio – se si tratterà di un manager non gradito. Il sindaco ha invece saputo, recentemente, instaurare buoni rapporti con il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Gianni Letta. Mossa azzeccata perché Letta, intelligentissimo negoziatore, è forse la persona più ascoltata da Silvio Berlusconi che gli ha affidato il dossier Expo. Però non ha le chiavi della borsa che restano saldamente in mano a Tremonti e al ministero dell'Economia.

    Che fare? Ricapitoliamo: l'Expo è nei guai per scarsità di risorse finanziarie ed eccesso di lotte di potere fra gli interessati; la Soge da quasi un anno è paralizzata tanto che non ha ancora un manager operativo; la scadenza del 2015 si avvicina e Milano non ha finora aperto un cantiere. Come andrà a finire la vicenda, come si uscirà da questo garbuglio che sta provocando anche danni di immagine per la città e il paese nel suo insieme (i soliti italiani che non sanno combinare nulla)? Gli scenari sono diversi. L'ipotesi che alla fine vinca il partito degli abolizionisti non è fra le più gettonate, però non si può del tutto escludere: Gregotti appartiene a un certo milieu intellettuale di sinistra che tuttora conta in città, fa opinione ed è contrario fin dai tempi della candidatura all'Expo. Ora trova un  alleato nello stato di assoluta indigenza del Tesoro. Una combinazione che non va sottovalutata. Un altro scenario possibile è quello del commissariamento. E ce n'è un terzo, il preferito dalla maggioranza dei politici milanesi e lombardi che contano: quello dell'azzeramento per ripartire da capo. Prevede questo: il consiglio della Soge si dimette, si va da Tremonti e insieme si decide che cosa si può davvero realizzare per l'Expo. Poi si sceglie  di comune accordo la persona che dovrà averne la responsabilità manageriale e se ne definiscono con precisione i poteri. Forse quando il presidente della Regione Lombardia, Roberto Formigoni, nei giorni scorsi ha dichiarato che “l'Expo ha bisogno di fare un tagliando” aveva in mente qualcosa di simile. E' una soluzione che, ovviamente, troverebbe sulle barricate il sindaco Moratti perché suonerebbe come una bocciatura di tutta la linea che ha seguito finora. Dunque potrebbe portare a conseguenze politiche non secondarie soprattutto ora che ci si sta avvicinando alla tornata elettorale di europee e amministrative. Questo è lo stato dei fatti della tormentata vicenda dell'Expo. Nessuno sa dire quale degli scenari potrà prevalere. Ma tutti si augurano che almeno non si vada avanti con quello conosciuto finora: il rosolamento.