Quel che la Dandini non sa
A sostegno di Hillary Clinton caldeggiò: “Le stronze sono i neri del futuro”. L'imitazione di Sarah Palin – giacchetta rossa da first lady delle Filippine, occhiali da professoressa che fa sognare i ripetenti dell'ultimo banco – fu l'inizio della fine per la candidata venuta dal freddo. Non si azzeccano colpi così senza talento, sudore, cocciutaggine, forse anche qualche lacrima di rabbia prima che arrivi il grande momento.
A sostegno di Hillary Clinton caldeggiò: “Le stronze sono i neri del futuro”. L'imitazione di Sarah Palin – giacchetta rossa da first lady delle Filippine, occhiali da professoressa che fa sognare i ripetenti dell'ultimo banco – fu l'inizio della fine per la candidata venuta dal freddo. Non si azzeccano colpi così senza talento, sudore, cocciutaggine, forse anche qualche lacrima di rabbia prima che arrivi il grande momento. Portando in dote tutti i premi che contano, articoli sulle bibbie dello show business (da Variety a Entertainment Weekly, più quelli che stanno in mezzo), una copertina di Vanity Fair e un'intervista firmata Maureen Dowd, la columnist del New York Times che non vuole saperne di mettersi in fila dopo i neri, quindi il suo cattivo carattere (giornalisticamente parlando) lo ha esibito da subito.
Nei 38 anni serviti per fare di Tina Fey un mostro di bravura troviamo un'infanzia felice in Pennsylvania, un'adolescenza da dimenticare (colpa dei troppi brufoli e delle tette spuntate anzitempo), un tempestivo trasferimento a Chicago, capitale della comicità e dell'improvvisazione, una gavetta da attrice-lavoratrice. Corsi serali e molta pratica sul palcoscenico di Second City, e per pagare l'affitto un lavoro alla YMCA, l'organizzazione cristiana che procura cibo agli affamati e alloggio ai senzatetto, qualcuno particolarmente scheletrico e fuori di testa, tanto che alla giovane Tina sembrava di vivere dentro un fumetto di Robert Crumb (yes, la stessa YMCA celebrata come riserva di giovani maschi nella canzone dei Village People, si sa che ognuno ridisegna il mondo a propria immagine e somiglianza). Concluso l'apprendistato, nel 1997 Tina Fey andò a lavorare al “Saturday Night Live”: due anni dopo, fu la prima donna promossa sceneggiatore-capo del programma che dal 1975 a oggi ha lanciato (tra una caterva di altri) John Belushi, Dan Aykroyd, Bill Murray, Eddie Murphy, Ben Stiller, Joan Cusack, Robert Downey jr.
Arrivata alla terza stagione, la sua sit-com “30 Rock” ha collezionato tanti Emmy (record di 17 candidature solo nel 2008, 8 statuette conquistate) e tanti Golden Globes che serve una mensola gigantesca per esporli tutti (nella scorsa edizione erano tre: uno per la migliore serie comica in tv, uno per l'attrice comica Tina Fey, uno per l'attore comico Alec Baldwin). La serie va in onda dal 29 gennaio scorso anche in Italia, sul nuovo canale satellitare Lei: sempre un bel pensiero quando, dopo che hai fatto per anni un lavoro da maschio tra i maschi, ti risistemano gentilmente ma fermamente nel recinto delle femmine. Sulla copertina di Vanity Fair, fotografata da Annie Leibowitz, Tina Fey compare in guêpière da SuperWoman con una bandiera americana sullo sfondo. Altre foto la ritraggono in vestitino nero corto e svolazzante, che scopre un paio di gambe niente male su tacchi a spillo rossi, tanto per chiarire che è finita l'ora delle bruttine stagionate. “The Believer”, la rivista chic di Dave Eggers & Company, le aveva dedicato un ritratto cinque anni fa, quando tutta la banda dopo una lunga astinenza dalla tv si incapricciò del “Saturday Night Live”. Dove (ora lo sappiamo) oltre a guadagnarsi lo stipendio scrivendo gag, Tina Fey raccoglieva materiale per “30 Rock”.
“Non so se dipende dal fatto che da piccola portavi l'apparecchio, o forse qualche orrenda scarpa ortopedica, ma sono contenta di averti nella mia squadra”. Il feroce complimento, pronunciato a denti stretti dal nuovo boss Jack Donaghy, accoglie Liz Lemon, battezzando una coppia comica sul posto di lavoro come non se ne vedevano dai tempi di Katharine Hepburn e Spencer Tracy, in “La segretaria quasi privata” (lei ha una memoria infallibile per nomi date e pratiche, lui vuole sostituirla con un computer). Nella serie, Liz Lemon è Tina Fey, con i vestiti “prima della cura”, quando la pelle grassa era guarita, ma una foto da pupa sexy neanche immaginabile. Fa esattamente quel che Tina Fey faceva per lo show del sabato sera: trovare battute e scrivere sketch comici (il lavoro più faticoso del mondo, come ogni comico sa; e se ti diverti tu, il pubblico non ride, qualcuno dovrebbe finalmente svelare il segreto a Serena Dandini).
“30 Rock” sta per “30, Rockefeller Plaza”: l'indirizzo della NBC che nella vita reale produce la serie, e nella finzione produce “The Girlie Show”, il programma che Liz Lemon dovrebbe scrivere assieme alla sua banda di sceneggiatori (non sono intellettuali come Michele Serra, ma impiegati che vanno in ufficio ogni mattina e lì restano fino a notte, forse per questo la loro tv è meglio della nostra). Il nuovo capo Jack Donaghy è appena stato paracadutato negli studi televisivi dalla General Electric, proprietaria – nella vita e nella finzione – del network televisivo NBC, raggiungendo alla nuova scrivania con finestra panoramica il proprio livello di incompetenza. Vale infatti, nella vita e nella finzione, il principio di Peter, antenato della legge di Murphy: “Se fai una cosa bene ti promuovono, e se fai bene anche la successiva ti promuovono ancora, fino a che ti capita un lavoro che non sai fare, e lì ti fermi per il resto della vita”. L'ultima competenza conosciuta del boss era un magico forno a tre fonti di calore. Per il resto, non conosce né la pratica né grammatica della comicità, e non ha idea della macchina che produce lo show. Gli scontri tra sceneggiatori e manager sono ordinaria amministrazione, in un programma che (nella vita e nella fiction) debba combattere con gli indici di ascolto, gli inserzionisti pubblicitari, i capricci di chi star vorrebbe diventare. Ma “30 Rock” sta tra le serie miracolose che a descriverle sembrano far parte di un repertorio collaudato, e a vederle sono una continua sorpresa. Merito del sovrappiù di genialità che la ragazza ex grassa ed ex goffa, ma dotata di ferrea volontà, porta in dote.
I fianchi una volta rotondetti e ora giusti per scivolare nella gonna a tubo, assieme alla passione per il cibo, arrivano dalla mamma greca. La cocciutaggine l'ha ereditata dal padre tedesco. All'anagrafe si chiama Elizabeth Stamatina Fey, i colleghi al Saturday Night Live la chiamavano “Herman The German”, il suo produttore sostiene “There is a Leni Riefenstahl in Her”. Anche il suo cellulare, come quello di Liz Lemon, potrebbe squillare al suono di “Kill The Wabbit”, la Cavalcata delle Valchirie sbeffeggiata in un cartoon da Chuck Jones, disegnatore geniale a cui Brad Bird e il robottino Wall-e devono parecchio (e pazienza se l'Academy gira le spalle alla nuova Golden Age dell'animazione: il senso per il pop, se uno non lo possiede, non se lo può dare). Bugs Bunny è una Brunilde con trecce bionde e reggipetto corazzato, corteggiata da Taddeo il cacciatore di conigli – recitativo, con forte accento germanico: “Be vewy qwiet, I'm hunting wabbits” – per l'occasione vestito da Sigfrido. Quando la finta Brunilde rivela la sua natura conigliesca, la passione finisce in tragedia. Poiché il cortometraggio si intitola “What's Opera, Doc?” – Bugs Bunny ha ancora abbastanza fiato per rialzare le orecchie e guardare in macchina: “Cosa vi aspettavate da un'opera? Il lieto fine?”.
Liz Lemon mangia junk food, ogni tanto i suoi interlocutori le tolgono crosticine dal vestito o briciole dai capelli. Se deve sparlare di qualcuno – non per piacer suo, per evitare ammutinamenti quando il pubblico è già in studio e manca pochissimo prima che la scritta “on air” lampeggi – lo fa di preferenza con il microfono aperto e la telecamera in funzione. Nella squadra degli sceneggiatori, l'unico che sembra adulto è Toofer, giovanotto nero laureato a Harvard. Si veste con maglioni a rombi colorati, ormai in disuso anche nei college britannici, ha messo la Sinfonia 40 di Mozart sulla suoneria del cellulare. Peccato che Jack Donaghy, con l'intenzione di svecchiare il programma – “Serve una terza fonte di calore, e io l'ho trovata” – abbia appena scritturato Tracy Jordan: un nero dell'altro tipo, tutto tatuaggi, medaglioni con diamanti, gergo e finto analfabetismo, giusto per rientrare negli stereotipi (ma poi si distrae, e corregge una frase fatta proprio al nero laureato). L'attore si chiama Tracy Morgan, anche lui arriva dal “Saturday Night Live”, stand up comedian famoso – tra le altre cose – per il modo di pronunciare “hilarious”.
“The Girlie Show” diventa “TGS with Tracy Jordan”, che in effetti pare il nome di un forno con il turbo. “Girlie” e la “G” stanno per la bionda scema Jenna Maroney, amica di Liz Lemon dai tempi della gavetta (l'attrice si chiama Jane Krakowski, era in “Ally McBeal” e ha vinto un Tony Award per il musical “Nine”). La ragazza usa come correttore per le occhiaie la pomata per le emorroidi, a ogni difficoltà sbottona la camicetta sulle tette rifatte, crede di aver cominciato una grande carriera nel cinema con “The Rural Juror”, titolo che nessuno riesce a pronunciare, figuriamoci a ricordare. Gli sketch, a quanto vediamo, prevedono immancabilmente che la bionda venga assaltata, semispogliata e palpeggiata da qualche orso, gorilla, marziano, o altro figurante in assurdo costume. Il “Saturday Night Live” era qualche gradino sopra, pur restando demenziale. Fu lì che guardandosi in un monitor, inquadrata per caso durante una prova, Tina Fey decise di perdere quindici chili, e fu subito promossa in video, come anchorwoman nello sketch Weekend Update.
“The Believer” aveva messo gli occhi su Tina Fey nel 2003. Poiché non capita spesso che la rivista più letta dagli “scrittori per scrittori” (quelli che debuttano con l'etichetta, non che diventano tali dopo una vita di stenti) piazzi in copertina una ragazza della tv, “due o tre cose che non sapete di lei” addolciscono la pillola. Viene ricordato che gli scrittori sono suoi fan. Per la bravura, anzitutto. E poi perché ha dimostrato che si può avere successo, pure arrivare in video, partendo da una scrivania: molto consolante per una comunità ad alto tasso di frustrazione. Erich Spitznagel, il giornalista che firma l'articolo – tra i suoi intervistati recenti, Paul Giamatti, Harold Ramis di “Ricomincio da capo” e “Terapia e pallottole”, pure il defunto Arthur Conan Doyle, le interviste impossibili colpiscono ancora – giura di aver visto negli occhi di Tina, mentre faceva “Weekend Update”, la felicità dello scrittore baciato dalla fortuna: “Finalmente qualcuno ha capito quanto sono brava”. Il brutto anatroccolo diventato cigno coltiva a tutt'oggi un'insana passione per qualsiasi programma tv che abbia a che fare con le trasformazioni: di nasi o di salotti, fa lo stesso.
Completa la lista dei meriti, secondo “The Believer”, il fatto che abbia scritto un film – “Mean girls” – nato non da uno sketch ma da un articolo sul New York Times. In realtà, dal saggio di Rosalind Wiseman intitolato: “Queen Bees and Wannabes: Helping Your Daughter Survive Cliques, Gossip, Boyfriends and Other Realities of Adolescence”. Nell'adattamento di Tina Fey, la storia di una quindicenne arrivata in un liceo americano dall'Africa, dove i genitori la facevano studiare in casa, alle prese con i riti della nuova tribù. Il perfetto manuale per sopravvivere a un'adolescenza difficoltosa, sceneggiato da una ragazza che sylla sua spende poche parole: “Mi è servita a rafforzare il carattere. Lì ho capito che sapevo far ridere”.
Dettaglio ancora più invidiabile, tanto che neppure l'intervistatore di “The Believer” osa confessarlo: Tina Fey ha fatto una brillante carriera raccontando i fatti propri. La Liz Lemon che si fa intervistare da Oprah Winfrey e si lamenta dei suoi brutti piedi, potrebbe essere Tina Fey, anche lei scontenta di quelli che le sono toccati in sorte. La Tina Fey che al primo appuntamento con il marito visita il museo della Scienza di Chicago e passeggia dentro il modello gigante di un cuore umano, potrebbe essere Liz Lemon trascinata in un appuntamento al buio. (Silenzio, da parte di tutte e due, sulla cicatrice, “The Fey-mous Scar”: una ferita da coltello quando aveva cinque anni). Avviso per scoraggiare i tentativi di imitazione, o perlomeno per capire quanto sia alta la barriera d'entrata: i “fatti propri” sono debitamente e giudiziosamente dissimulati, montati e riscritti perché facciano ridere fuori dalla cerchia dei congiunti.
Al primo litigio con Liz Lemon, Jack Donaghy non dice “Come osi ribattere?”, ma “Hai la sfacciataggine di una donna più giovane”. Ancora più crudele, perché l'attore Alec Baldwin invecchiando è molto migliorato, ed è più interessante oggi, con i chili e il doppiomento, di quando lo chimavano “bisteccone”. In “30 Rock” ha trovato il ruolo della sua vita. Assiste alle riunioni di sceneggiatura e fa cancellare da una gag il nome di Jeb Bush (“è un mio amico”) sostituendolo con“Sean Penn”. Sta al telefono sussurrando parole dolci a femmine che vorrebbe tenere segrete, ma una la chiama Condoleezza e l'altra Maureen. Intanto cerca di combinare appuntamenti per Liz, tutti ugualmente disastrosi. Nella terza serie (sulla NBC in questi giorni, e da noi chissà quando) decide di far da sé. Dopo avergli spiato la corrispondenza, mette gli occhi sul vicino di casa: il secondo pediatra più sexy della tv americana (al primo posto, crediamo ancora per poco, sta George Clooney di “E. R”). L'attore si chiama Jon Hamm, più conosciuto come Don Draper nella serie “Mad Men”, Tina Fey lo ha definito “the handsomest living human at the moment” (con l'approvazione preventiva di Liz Lemon). Entrambe concordano sul fatto che con addosso una camicia a scacchi e i capelli lunghi – non più la sfumatura alta, il completo grigio e il cappello anni Sessanta – risulta ancora più fascinoso.
Fatti propri, sceneggiati come pochi sanno fare. Nella vita capita gente sciocca e gente strana. Mai uno come Kenneth, l'usciere di “30 Rock”: ha il compito di accompagnare il pubblico nelle visite allo studio, bloccando il gruppo appena una star transita nei corridoi (gli sceneggiatori invece devono cedere il passo), va a prendere i tramezzini o il cibo cinese. Tra tutti i brontoloni e gli scontenti, è l'unico in pace con se stesso: un Candide che vive nel migliore dei mondi possibili. Dopo aver studiato al Kentucky Bible College, voleva lavorare in televisione e ha coronato il suo sogno: “La tv è l'unica vera forma d'arte americana”, spiega a Jack Donaghy che lo guarda dall'alto in basso, chiedendogli “ma tu non hai ambizioni? Va in giro beato, pettinatissimo e sempre sorridente nella sua divisa blu, la cravatta con i colori della NBC, lo stemmino con il pavone arcobaleno della NBC (per le ragazze che fanno il suo mestiere, anche gli orecchini). Perfino Jack Donaghy, che non riesce a batterlo a poker, si inchina al candore di Kenneth. Oltre che alla sua capacità di combinare disastri: “Tra cinque anni, o lavoreremo tutti per lui, o saremo morti per mano sua”.
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